Abbondano i tentativi di rilanciare il sentimento in alternativa al sesso. Se già imbarazza la spinta verso una restaurazione antisessista e moralizzante, a maggior ragione pare davvero difficile da condividere la convergenza fra l’ostentazione continua del sentimento ritrovato e la nostalgia del “sublime”. Una micidiale convergenza fra tema sentimentale e intonazione alta cui sembrano tuttavia sfuggire i testi che giocano sull’understatement, e su un’ironia che fa tutt’uno con l’autoironia, con la sana attitudine a non prendersi troppo sul serio.
È del tutto normale, certo, che i romanzi puntino molte delle loro carte su vicende amorose. Ed è poco meno che ovvio che le vicende amorose lascino molto spazio alla dimensione sentimentale. Pure, a pescare nella produzione dell’ultima annata, si potrebbe avere il sospetto che di “sentimento”, nella nostra narrativa, ce ne sia in giro fin troppo. Soprattutto, abbondano i tentativi (non di rado a corso forzoso) di rilanciare il sentimento, dichiaratamente, in alternativa, e quasi a titolo di risarcimento morale, al troppo sesso. Se già imbarazza la spinta verso una qualche restaurazione antisessista e moralizzante, a maggior ragione pare imbarazzante, e davvero difficile da condividere, la convergenza (del resto abbastanza scontata) fra l’ostentazione continua del sentimento ritrovato e la nostalgia del sublime stilistico, al quale evidentemente il sentimento risulta assai più adatto che non il sesso.
Da questo punto di vista, e a dispetto del talento narrativo e umoristico dell’autore, l’ultimo romanzo di Francesco Ferrucci, Se davvero fossi nata (2005), rischia di essere fin troppo esemplare. Vi si narra la vicenda di una violinista, protagonista e narratrice, costretta a interrompere la sua straordinaria carriera a causa di un incidente stradale che ne riduce l’agilità delle mani. Consegnata a una nuova, impensata e disperata libertà, la protagonista è così costretta a reinventare la propria vita: ne nasce una sorta di romanzo d’artista all’incontrario, destinato poi a capovolgersi ancora. Ma il romanzo dell’artista s’intreccia a una sublime storia d’amore, proponendo, in maniera del tutto esplicita, una simbolica sovrapposizione fra arte e sentimento d’amore.
Figlia di un ragazzo-padre, la protagonista e narratrice ama le donne. Dopo aver trovato un lavoro alla Public Library di New York (a Manhattan, che diamine, non a Baggio o a piazzale Accursio), durante un viaggio in Normandia incontra Julia, con cui trova subito un’intesa profondissima. La fenomenologia del coup de foudre si dispiega senza mediazioni, e il prodigio dell’amore esplode nella sua forma più pura: «Ero giunta al centro del cerchio». Dalla Normandia si passa al Mont Ventoux (ricordando ovviamente Petrarca, mica il Tour de France), perfetto locus, non meno amoenus che mysticus, dove le due amanti sono colte da «una bufera di vento», reale e dantesca al tempo stesso. I simboli si affollano sempre più implacabilmente («Eravamo salite alla casa d’Amore»), preparando un nuovo balzo verso la tragedia. A metà libro, infatti, Julia sparisce: si scoprirà che è andata via per morire di cancro al seno in dignitosa solitudine, rimandando la spiegazione a una lettera da consegnarsi post mortem all’amata. La narratrice entra allora in una nuova tappa del suo doloroso viaggio verso il senso della propria esistenza, recandosi in Messico, dall’amico Paul, con cui lavora in un ospedale nella jungla, a lenire la sofferenza dei diseredati. Riuscirà così, come per incanto, a ritrovare il senso della propria vita, già due volte perduto. Non più esecutrice, diventerà infatti, come per magia, compositrice, di musiche ovviamente meravigliose: «La musica scendeva ogni giorno su di me come un’onda muta, e la imprigionavo sui fogli di carta. Scrivevo e scrivevo, cieca e veggente», trasformata, nientemeno, in «strumento» delle musiche del futuro.
Certo, il riassunto non può render conto adeguatamente di un libro come questo. Nella struttura come nello stile, Ferrucci mostra infatti di aver attentamente lavorato a un itinerario iniziatico, morale-intellettuale, manifestamente più simbolico che narrativo. Esiliate, nomadi e in modi diversi orfane, hantées dal topos della partenza e del ritorno, le protagoniste mettono in scena soprattutto, attraverso l’incontro e il lutto, la tragedia e l’ossessione del tempo, del suo trascorrere e della sua impossibile permanenza; e dunque anche il pensiero lacerante della morte e della perdita, secondo non imprevedibili suggestioni heideggeriane. C’è una percepibile coerenza nella scelta di imprimere a tutta la vicenda una spinta sublimante e trasfigurante, attraverso la convergenza di tensione all’astrazione e proliferazione dei traslati. Ma l’esigenza di rarefazione simbolica produce un clima quasi algido, che solo in parte tiene sotto controllo l’intensità del pathos, e quasi sempre costringe il lettore a una severissima dieta aforistico-metaforica, che poco giova alla persuasività artistica. Accade così che proprio la rappresentazione dell’amore, come ipotesi, per quanto tragicamente precaria, di mistica e mirabile fusione di sentimento e intelligenza, si sgretoli senza scampo. Non a caso, i meccanismi incrociati della sublimazione e della simbolizzazione favoriscono e quasi impongono una esclusione pressoché totale della corporeità: motivata, certo, ma non per questo convincente; e, temo, piuttosto sintomatica dei tempi.
Su un piano più generale, preoccupa che la pressione verso la restaurazione ideologica, realizzata attraverso l’enfatizzazione della necessità di far trionfare i buoni sentimenti, venga spesso affidata a libri scritti da giovani o giovanissimi autori, per un pubblico altrettanto giovane. Si capisce, naturalmente, e mi pare più che legittimo, che gli editori, poco importa se di destra o di sinistra, cerchino di cavalcare l’onda del successo dei vari Moccia e Melissa P. e simili. Ma sorprende, in negativo, il fatto che l’insistenza sui giovani si traduca regolarmente in una sommaria vulgata romanticheggiante. All’etichetta “giovani”, infatti, viene associata (non senza ragioni psicologiche e storico-culturali) quella dell’autenticità sentimentale: subito trasformata però, in una tutt’altro che innocente chain-reaction semantica e ideologica, in una più vaga e insidiosa apologia del sentimento, abbondantemente confuso con il sentimentalismo.
Un romanzo come Ma le stelle quante sono (2005), esordio della ventenne Giulia Carcasi, certo non manca di tenero garbo, per quanto realizzato con vistosa elementarità di mezzi stilistici e strutturali: un’elementarità, peraltro, che certo può giovare all’effetto di autenticità. Né appare di molto più complessa l’invenzione, più trucco di merchandising che trasgressione d’avanguardia, di stampare il libro in due direzioni: che propongono, rispettivamente, la voce della protagonista femminile, la diciottenne Alice Saricca (per chi legge partendo dalla copertina) e del coprotagonista maschile, Carlo Rossi, compagno di classe di Alice (per chi legge partendo invece dalla quarta di copertina). A parte la forzatura da gadget, si potrebbe forse notare come, in forme più drastiche e glamour, nonché più ingenue, si manifesti qui qualcosa di simile a quanto emerge nella struttura dell’ultimo romanzo di Camilla Baresani, L’imperfezione dell’amore (2005): l’intenzione cioè di rendere in qualche misura conto della pluralità del reale attraverso la moltiplicazione delle voci in scena. Tutto sommato però, tolto il vistoso aumento del numero di pagine, Ma le stelle quante sono racconta in sostanza solo la storia di Alice, salvo poi riscriverla al maschile, non senza fatica, e in sostanza con ben poche aggiunte.
Innamorata del fascinoso e inaffidabile Giorgio Battaglia, che fa il doppio gioco con Ludovica (ipertradizionale cattivona, puttana e bugiarda senza attenuanti), Alice cerca però sentimenti più profondi, che troverà alla fine proprio nello svagato e un po’ (un pochino…) alternativo Carlo, peraltro a sua volta passato attraverso la nave-scuola Ludovica, che per un breve tratto lo corrompe (ma forse anche gli fa capire qualche cosuccia destinata a tornare utile con la narratrice). Alice, dal canto suo, non ha fretta di buttarsi sul sesso, e chiede un po’ di poesia: come darle torto? E certo c’è qualcosa di autentico, perfino di sano, nell’invito a una sessualità non affrettata e precoce, ma calibrata secondo i tempi e i bisogni di ciascuno. D’altro canto fanno un po’ impressione, e persino un po’ spaventano, i troppi sintomi di abdicazione ideologica da parte di una giovane donna che pare non veder l’ora di fiondarsi in un familismo d’altri tempi, perbenista e mammone, di nuovo pronto all’oblatività, e pure alla «appartenenza» (niente meno ! ) al proprio lui, nonché alla condanna senza appello di ogni infrazione al monogamismo («fare l’amore con un’altra è come uccidere, è una cosa bruttissima», corsivi nel testo). Certo, qua e là si può trovare anche un moderato elogio della diversità (anch’esso del resto pronto a diventare maniera: come ben sanno i produttori di abbigliamento e di accessori), sia pure confinato nei limiti di un generico invito all’anticonformismo. Così come qua e là, nelle parole dell’amica di Alice, Carolina, balena qualche tenue invito almeno a un tantinello di vitalismo: «Cazzo, devi viverla Alice! Devi viverla tutta! La tua gioia, la tua tristezza, tutto! Non devi risparmiarti niente!». E pure l’adolescenzialismo estremo della Carcasi (con tanto di tragediuzza del 100 negato alla maturità) ispira, nella sua simpatica modestia, molta più solidarietà delle infondate presunzioni di altri narratori, più maturi, e dunque più responsabili, e perciò anche più colpevoli.
Per fortuna almeno Rossana Campo conserva sempre ben viva l’autoironia, che mescola a robuste dosi di sano sesso, che allargano il cuore. Anche se nel suo ultimo romanzo, Duro come l’amore (2005), qualche soprassalto romanticone, con prevedibili corollari di generalizzazioni pseudo-aforistiche, sembra essere venuto persino a lei: «la passione ti entra nel sangue come una droga e una volta che l’hai presa non puoi più farne a meno». Questo libro pare risentire di una certa difficoltà nell’armonizzare la storia d’amore, tutto sommato narrativamente persuasiva, con il tentativo, un po’ faticato, di ricaricarla iniettandovi rapsodici siliconi di noir, con il sanguigno amante Felix sospettato di essere addirittura un sanguinario serial killer. Pur con vari eccessi di minuziosità descrittiva, specie sui particolari della vita quotidiana, la Campo ci offre quanto meno una lettura gradevole, dove comunque l’inclinazione understatement fortunatamente prevale sulle tentazioni nobilitanti.
Su un piano certo molto più basso si colloca Mi piaci da morire (2005) di Federica Bosco. Anche se è giusto diffidare delle etichette, si potrebbe con buona approssimazione dire che siamo nell’ambito della “Chick-Lit”. La narratrice, infatti, si presenta vistosamente (fin troppo) come una specie di Bridget Jones italiana, che, pur essendo carina e spiritosa, non riesce a fidanzarsi decentemente, perché un po’ ingenua, troppo propensa a dare senza chiedere, e insomma, decisamente imbranata. Per fortuna una corposa dose di autoironia rende tollerabile lo scenario, ancora una volta ultrainternazionale, con la narratrice che (guarda le coincidenze!) lavora pure lei a Manhattan (ma come commessa)! Tradita senz’altro da David, incoccia nell’alcolista non ancora anonimo Jeremy, che le procura guai e poche soddisfazioni: ma alla fine troverà il meraviglioso Edgar, ricco, intelligente, padrone di casa editrice, pronto a riconoscere il talento di scrittrice della narratrice e protagonista. Nonostante qualche difficoltà di comunicazione, tutto sfocerà in un happy end quasi senza incrinature: come nella migliore tradizione rosa. E corre l’obbligo di dire che, fin dal titolo, le banalità non mancano. Eppure proprio l’eccesso di adesione ai modi e agli stereotipi più squalificati, con tanto di continue citazioni di film e non solo, è talmente spudorato e voluto da trasformarsi in strumento di ironizzazione: sulla linea di una comicità semplice, ma del tutto intenzionale. Siamo di fronte, insomma, a un libro esile: ma che forse non presume da sé più di quello che può dare.
Certo qualche pretesa in più viene accampata da Francesco Zardo, autore di Cuori infranti (2005), che non si trattiene dal farsi da solo la prefazione, aperta da un terrificante: «Sono piuttosto fiero di essere uno scrittore». Per fortuna il libro non tiene fede a questo più che imbarazzante incipit, e mostra non pochi segni di senso dell’umorismo. I suoi sette racconti registrano una netta prevalenza delle storie infantili e adolescenziali di Bildung. Ma all’amore è dedicato il racconto lungo eponimo, costruito in forma di estroso romanzo epistolare, lungo cui si sviluppa il singolare e mai realizzato rapporto sentimentale fra Eliza Schelling, che tiene la rubrica di consigli amorosi da cui deriva il titolo del volume, e il misterioso lettore Ernesto Radez, alter ego dell’autore. Anche se la costruzione psicologica resta poco più che abbozzata, Zardo produce uno spiritoso cozzo di registri, fra colloquialità conclamata, sottocodici tecnici e intertesti colti, consapevolmente esibiti. Manca però l’approfondimento psicologico, e le soluzioni un po’ fumettistiche qualche volta convincono appieno (come nella virtuosistica mimesi dei rumori prodotti dalla faticosa accensione di un Fantic Motor), qualche volta meno.
Di un tenero amore si parla anche in Icaro nella mente (2005), esordio del sessantenne Claudio Bianchi. Siamo di fronte, in buona sostanza, a un romanzo di formazione: la storia di Cairo, che, in una Milano tra anni quaranta e anni cinquanta, impara a vivere, e forse anche a volare. Bianchi delinea con garbo un percorso reale ma non realistico, costantemente intonato sul cortocircuito fra una resistente oggettività e una marcata tensione verso il fantastico, ai limiti dell’onirico. Il tono del suo libro oscilla fra fantasticheria e tenerezza, così come il suo stile tende a una limpidezza ai limiti di una stilizzazione non sempre controllata. Nella Bildung di Cairo si colloca la storia d’amore con la graziosa Nina, detta Zuni, commessa in un negozio d’abbigliamento: una storia delicata, ma improntata ai più classici modelli del sentimento monogamico. In più di un momento Bianchi non sa sfuggire del tutto alla tentazione del mèlo, con qualche tocco quasi alla Peynet: ma d’altro canto anche lui conserva una sempre viva ironia, e, last but not least, sfugge alla tentazione dello happy end, imponendo all’idillio un taglio brusco proprio quando il lettore si è ormai convinto che i due personaggi si sposeranno e vivranno felici e contenti.
Fra tenera rievocazione e ironia, ricordi storici e fantasticheria si muovono anche i venticinque racconti brevi dell’ultimo libro di Gino & Michele, Quella volta ho volato. Storie d’amore (2005): fra questi, una metà circa è dedicata alla tematica amorosa. Difficile assegnare una connotazione unitaria a racconti spesso molto diversi tra loro, dove gli autori paiono frequentare programmaticamente un’ampia gamma di generi e stili, coniugando sperimentazione e leggibilità. Con approssimazione forse non troppo brusca, si potrebbe dire che i due scrittori milanesi si muovono tra fiction e non-fiction, mescolando incessantemente il quotidiano e lo straordinario. Non pochi tratti di questi racconti riprendono per certi aspetti l’intonazione affettuosa e insieme umoristica già all’opera in Neppure un rigo in cronaca (2000). Ma tutto sommato prevale la variatio: si va dalla fiaba folklorica (Ginostra), al dialogato integrale, fra tenerezza surreale e scanzonata realtà, di Il colore del mare,dal paradossale e tragicomico amore mancato di un extracomunitario con una signora bene (Pallapazza)al narratore in prima persona alla Holden (Santa Giulia, o Non so, devo pensarci),dalle liaisons dangereuses create dalla rete (Chat)al microgiallo a sorpresa (A mani libere), al tenero apologo di Andrea che ama Andrea, elogio dell’uguaglianza nella diversità e della capacità di ascoltare l’altro, fino alla quasi virtuosistica performance sintattica di Tracce, due pagine di ininterrotto slittamento sintattico e metonimico, per sequenze prevalentemente anaforiche, a delineare mimeticamente lo scivolare l’uno sull’altro dei sentimenti, dei gesti e delle cose che dei gesti portano per l’appunto le tracce. E forse un minimo comune denominatore di questi racconti potrebbe essere trovato nella rappresentazione dello strano che s’infiltra nel quotidiano, ma senza sublimarlo, o, inversamente, nella normalità come paradossale prova e misura dell’eccezionalità dei sentimenti che tutti noi portiamo, che tutti noi siamo. Ancora una volta, insomma, è difficile sfuggire alla sensazione che la letteratura sappia ritrovarsi meglio sul filo dell’umorismo e dell’autoironia, piuttosto che non sul malcerto trono di una autovalorizzazione presuntuosa e aprioristica.
Ne dà prova, ed è una delle migliori di un’annata tutto sommato modesta, l’ultimo romanzo di Paolo Teobaldi, La badante. Un amore involontario (2004), che racconta la storia, intensa proprio perché programmaticamente intonata su una nota dimessa, del sessantaquattrenne Pietro Carbonara, «già presidente del tribunale dei minori, magistrato in pensione da tre anni, vedovo da due». Rimasto, dopo la tragica e improvvisa morte della moglie Elvira, solo in un troppo grande attico pesarese, Carbonara viene infine convinto dall’amico prete don Ettore, complici le figlie Dora e Linuccia, a prendere con sé una governante, che collabori alla gestione dell’appartamento. Arriva così Olga Ivanova (che il protagonista equivoca in Vitanova, con profezia involontaria e umoristica per eccesso di letterarietà conclamata), signora moldava ancora piacente, riservatissima, educata e ordinata. Pietro e Olga avviano un regime di discrezione assoluta, verrebbe da dire estremistica, dove entrambi non osano non si dice invadere, ma neanche toccare di striscio gli spazi e persino i gesti del mondo dell’altro. Essi convivono nello stesso appartamento, ma cucinano e mangiano separatamente, e a malapena si incontrano. Piano piano però anche nella vedovanza inattaccabile di Pietro si fa strada, con la percezione della femminilità, la rinascita del desiderio: il momento decisivo sarà quello in cui, all’approssimarsi di un temporale, Pietro uscirà a togliere dalla terrazza la biancheria di Olga stesa ad asciugare e gonfiata dal vento, che ne riempie i volumi, ricordando le curve di donna a cui quelle mutande e quei reggipetti, così femminili proprio nella pudicizia e povertà del loro disegno fuori moda, sono destinati.
Fra i due nascerà un amore dolcissimo e pudico, che con molta prudenza andrà correggendo la ferrea divisione degli spazi fino a quel momento praticata. Sfidando diffidenze e maldicenze, nonché il timore delle figlie di perdere una parte dell’eredità, Pietro renderà la relazione con Olga pubblica, e deciderà addirittura di sposarla. Teobaldi è davvero bravo a trattenere sempre l’intonazione largamente al di qua di ogni possibile sbrodolamento sentimentale, e di ogni possibile coazione al sublime romantico. Si potrebbe perfino dire che, sia nelle intenzioni, sia nei risultati, la sua versione, programmaticamente “in minore” e provinciale, dell’accendersi del sentimento d’amore è un antidoto prezioso alle troppe ubriacature del neosublime cosmopolita e pseudoaristocratico. L’amore, sembra dirci La badante, con forza pari alla totale mancanza di spocchia e di presunzione definitoria, nasce e mette radici anche e proprio nella quotidianità condivisa, fra «il ronzio dell’aspirapolvere, il ta-ta-ta-ta di un battuto sul tagliere, la centrifuga della lavatrice». Con una lingua sapida, colta e screziata di vernacolo, sempre lessicalmente concreta (fino ai limiti del tecnicismo) e mai atona, Teobaldi costeggia sempre l’ironia, ma senza perdere la tenerezza. Istruttivamente, anch’egli mette in scena la questione slava: ma virandola senza esitazioni verso la casalinghitudine. E a un certo punto va apposta a cacciarsi dalle parti del giallo fosco e del drammone: ma giusto per rivoltare il possibile coup de théàtre tragico, beffardamente ricondotto all’ordine dalla sapienza routinaria del pensionato e dei suoi hobby.