Alcune delle più godibili prove narrative del 2005 raccontano la vita come un viaggio: per riconoscersi, per ricordare un passato prezioso e ineguagliabile, o provare a vivere con maggiore consapevolezza l’incerto presente. Se in Nessuno lo saprà un Enrico Brizzi ritrovato mescola i generi e disegna un efficace itinerario di crescita e avventura alle soglie della maturità, Ernesto Ferrero in I migliori anni della nostra vita restituisce con intensità e nitore l’atmosfera del periodo d’oro di casa Einaudi: un tempo mitico dell’editoria italiana cui si addice il superlativo.
«Ma adesso eri sposato. Eri sposato da quindici mesi, e avevi un figlio. Avevi un figlio, e con tua moglie una serie di cose cominciavano a perdere quota». Inizia così Nessuno lo saprà, il più sorprendente libro di Enrico Brizzi e uno dei più meritevoli d’attenzione dell’annata trascorsa. Il presupposto è semplice quanto singolare: Brizzi, colto da un’acuta forma di “sindrome da ultimo bacio”, decide per liberarsene di attraversare a piedi l’Italia dal Tirreno all’Adriatico, zaino e tenda sulle spalle. E decide, dopo, di raccontarcelo, questo pellegrinaggio laico di tre settimane, restituendoci uno scrittore che dopo Jack Frusciante temevamo di aver perso.
Perché Nessuno lo saprà mostra, prima di tutto, uno stile potente e, insieme, una rara capacità di mischiare i generi, dal racconto di viaggio al romanzo di formazione, dall’azione al picaresco. A tenerlo in piedi in maniera convincente sono l’abilità di costruire una struttura che, anziché inanellare semplicemente un’avventura dietro l’altra, assume quasi i modi del giallo, e una lingua precisa, capace di attingere a più gerghi e di imbastire efficaci sequenze di dettagli rivelatori, fugando da subito ogni diffidenza verso lo stratagemma di narrare in seconda persona.
È infatti grazie alla lingua che i personaggi che salgono alla ribalta per lo spazio di un paio di pagine riescono spesso indimenticabili, e i compagni-camminatori di Brizzi, tra i quali spicca il Vietnamita, vero deus ex machina della seconda parte del libro, guadagnano uno spessore a tutto tondo. Brizzi riserva ai contadini ritratti secchi, con pochi ma decisi dettagli, ed evoca i personaggi più intriganti ricorrendo ai temi del mito e del poema cavalleresco, come avviene per le due apparizioni a bordo di motociclette di un presunto tombarolo e di due turisti americani. Entrambi gli incontri iniziano con un’attenzione esagerata all’abilità di guida del pilota, puntellata con dettagli tecnico-meccanici che amplificano la naturalezza dei loro gesti. Poi la figura del tombarolo si avvolge di mistero grazie a un dialogo ai limiti del surreale, che si chiude in un lampo con una sparizione veloce almeno quanto l’apparizione, mentre l’immagine dei turisti a stelle e strisce vira verso il comico per toccare il suo apice quando i due iniziano a blaterare uno spassoso campionario di luoghi comuni.
Ma l’incontro con gli americani è importante anche perché introduce la prima figura femminile: «Un’amazzone dal portamento slanciato, fasciata per intero da una tuta in pelle color della notte. Le sue gambe sono lunghe e snelle, e la tuta aderente disegna i fianchi dell’amazzone». E qui Brizzi, oltre che genuino, come può apparire in larga parte del libro, si dimostra furbo. Alle donne, infatti, riserva il ruolo di motori della tensione immaginaria del libro, evocandole spesso e mostrandole poco, e giocandosi la partita con un linguaggio che pesca dall’amor cortese ma si inquina di esibiti quanto primordiali pruriti erotici. E se l’americana suscita nel narratore «qualcosa che somiglia a un brivido, o una puntura diffusa», la barista che appare qualche pagina dopo, Alena, si guadagna addirittura un progetto adulterino, preziosa divagazione che chiude il primo terzo del libro.
Non stupisce, quindi, che siano proprio due donne, Flora e Vanna, incontrate sui sentieri, a dar vita a uno degli episodi più significativi del racconto, quando il narratore cede ai suoi compagni di viaggio, Vietnamita in testa, il compito di rinnovare la tensione erotico-picaresca del racconto. Perché Flora e Vanna, apparentemente attratte, pur con difficoltà, nella ragnatela dei camminatori, rubano loro soldi, cellulari e tenda ribaltando, con un colpo a sorpresa, il rapporto tra preda e cacciatore.
L’altro episodio che interviene a ravvivare il racconto, che dopo tanto camminare rischia di apparire ripetitivo, è quello che chiude il secondo terzo del libro, quando i nostri si introducono furtivamente nella casa di uno spacciatorucolo per rubare alcune foglie di una pianta miracolosa, il khat, vero oppio dei poveri del Madagascar, rispetto a cui il Viet dimostra una pericolosa dipendenza. Qui Brizzi ha l’opportunità di giocare i toni del thriller e la spende con pieno successo. Dopo, però, inizia la parte meno efficace del racconto: ormai lontana la tensione ascetica che accompagna la prima settimana di viaggio in compagnia del fratello, logorato il motivo della ritrovata complicità con i compagni di adolescenza, esaurite le varianti avventurose, la narrazione mostra un po’ di stanchezza, forse naturale in oltre quattrocento pagine, anche perché Brizzi la avvolge di troppi richiami alla maturità e ai doveri che comporta. Insomma, per dirla chiara, eccede con la morale e un po’ ci perde, anche perché abbandona, nel giudizio, i compagni di strada che invece, alla fine, risultano personaggi più riusciti di quello del narratore. Ma, va detto, tanto non basta a rovinare il sapore di un libro comunque sorprendente.
Altro viaggio, altro titolo: I migliori anni della nostra vita di Ernesto Ferrero. Qui non ci si sposta a piedi ma sulla più comoda macchina del tempo, destinazione via Biancamano, officina Einaudi, per diventare vicini di scrivania di Italo Calvino, Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Giulio Bollati, e sudditi dell’ultimo signorotto della nostra cultura: Giulio Einaudi. Perché l’abilità di Ferrerò sta nel darci, senza concessioni alla nostalgia, un quadro vivo degli anni d’oro della casa dello Struzzo, costruito intorno a ritratti nitidi, aneddoti illuminanti e spunti di vera intimità. Il tutto servito con un tocco stilistico leggero e felice.
Non a caso il primo tema enunciato dal libro è proprio la felicità, quella che Giulio Einaudi persegue con immutata voracità ogni giorno e quella di guadagnarsi da vivere con un mestiere privilegiato, in compagnia di persone uniche. Da qui quelli che già Guido Davico Bonino, coscritto e amico di Ferrero, aveva definito gli «anni migliori della mia vita» in Alfabeto Einaudi, altra imperdibile galleria di personaggi einaudiani. La differenza tra i due libri? Che quello di Davico inanella programmaticamente ritratti brevissimi e gustosi, spesso costruiti su un unico episodio, mentre quello di Ferrerò è più organico. La struttura del racconto di Ferrerò, che sembra procedere solo per ritratti successivi, nasconde infatti dietro le apparenze elencatone una netta tripartizione. L’apertura è dedicata ai nomi fondanti della casa editrice, visti però in relazione con gli altri personaggi di via Biancamano, primo tra tutti Giulio Einaudi, vero protagonista in filigrana del libro, in modo da abbozzare subito un quadro d’insieme. I capitoli centrali, invece, mettono in scena i personaggi che permettono alla “macchina” della casa editrice di funzionare. L’ultima parte, infine, raccoglie i rapidi ritratti di tutti gli attori non protagonisti, ma non per questo minori, di casa Einaudi, per raccontarne prima il crollo e poi l’epilogo, con il sopraggiungere dell’amministrazione controllata. In questo modo Ferrerò ottiene il duplice risultato di mantenere sempre a fuoco la foto di gruppo e di conservare insieme desta l’attenzione. Perché a scortare il lettore pagina dopo pagina è proprio la curiosità alimentata dai ritratti, che Ferrero, come già Davico Bonino, riesce spesso a rendere in modo fulmineo, sia quando evoca un personaggio per poche righe, sia quando si tratta di fissare in un’immagine i protagonisti di cui parla diffusamente. Valgano per i primi Luigi Einaudi, che praticava «le virtù della sobrietà, del risparmio, del sacrificio», raccontato con un aneddoto lampo: «Il presidente che durante un pranzo al Quirinale taglia una pera in due, e la offre all’ospite: “Ne vuole metà?”». E per i secondi Italo Calvino, meravigliosamente racchiuso nell’incontro, insieme alla moglie, con Jorge Luis Borges: «Italo si tiene come al solito in disparte, tanto che lei ritiene opportuno avvertire: “Borges, c’è anche Italo…”. Appoggiato al bastone, Borges solleva in alto il mento, dice quietamente: “L’ho riconosciuto dal silenzio”». Così, con una sola frase, Ferrero dipinge perfettamente, insieme a Calvino, il maestro argentino.
E non deve essere un caso se il tasso di fulmineità descrittiva si alza nei capitoli centrali, quelli nodali, dove, dopo un illuminante passaggio in cui si chiarisce che «lavorare per Einaudi è un onore che basta a se stesso. Parlare di denaro, in via Biancamano, è considerato sconveniente, quasi una volgarità», entriamo nelle mitiche riunioni del mercoledì, lungo le quali sfilano consulenti e numi tutelari dello Struzzo.
E qui che si palesa in maniera più netta il meccanismo di scelta della casa editrice, modellato e presieduto dalla figura di Giulio Einaudi, uomo capace di tenere insieme gli opposti: «L’unanimità lo allarma, gli fa fiutare pigrizie mentali, superficialità, accordi sottobanco. Quando il dibattito deflagra, i contrasti si fanno aspri, è contento: significa che il libro di cui si discute tocca un nervo scoperto, un ganglio vitale». Tant’è che sempre a Giulio Einaudi si deve l’idea di chiudere l’annata raccogliendo redattori e consulenti per sette giorni in una baita valdostana. Da dove, nel 1976, lo stesso editore chiarisce la fonte della sua ispirazione, pronunciandosi con un velo di nostalgia per «una cultura fatta da persone un po’ estrose, capricciose. Oggi di matti ce ne sono pochi, e se ne sente la mancanza». Certo, anche il libro di Ferrero, come quello di Brizzi, soffre un po’ nel finale: i ritratti cominciano ad affastellarsi un po’ troppo, come se l’autore soccombesse davanti al dovere morale di ricordare, nessuno escluso, i tanti nomi che hanno contribuito alla gloria dello Struzzo, e la chiusa in presa diretta su Giulio Einaudi mostra come fosse più efficace raccontarlo in chiaroscuro attraverso i suoi grandi collaboratori, piuttosto che in piena luce. Ma anche qui, in fondo, si tratta di peccati veniali, annegati in un contesto imperdibile.