Quello dell’editoria universitaria è un settore dai contorni sfrangiati, già a partire dalla definizione dell’oggetto-libro: da un lato i testi per le facoltà umanistiche, dall’altro la manualistica professionale dei volumi tecnico-scientifici. In questa struttura fluida si inseriscono come ulteriori fattori dinamizzanti l’autonomia degli atenei e il nuovo ordinamento modulare 3+2. E mentre ci si interroga sulle nuove sfide di e-learning e print on demand, resta sospesa la questione più cogente: il problema delle fotocopie.
Professor Enriques, lei dal 2001 è presidente del Gruppo editoria universitaria e professionale dell’Aie: in questi anni come è cambiato il panorama delle case editrici universitarie?
Il panorama dell’editoria libraria in Italia (e forse non solo in Italia) è molto simile a quello che i fisici chiamano «trasformazione adiabatica»: una successione di stati stazionari di equilibrio che un osservatore esterno percepisce istante per istante come immobili. E perciò i mutamenti si percepiscono solo dal confronto fra situazioni molto distanti nel tempo.
Non c’è soglia di ingresso nell’editoria libraria: chiunque può incominciare la professione di editore se dispone di qualche risorsa, di tempo, di un po’ di spazio e – soprattutto – della capacità di individuare gli autori che hanno qualcosa da dire. Oggi il decollo di un nuovo editore è reso ancora più facile dalla disponibilità di tecnologie di composizione e stampa che consentono all’autore la preparazione di originali riproducibili con minimi interventi redazionali.
Perciò nascono continuamente nuove case editrici, molte delle quali crescono e sostituiscono quelle che scompaiono oppure vengono assorbite da altri editori: in genere ciò avviene per incapacità di tenere dietro alle innovazioni tecnologiche oppure per l’esaurirsi della capacità di fare valide scelte produttive.
Tutto ciò è vero particolarmente nel settore universitario e professionale, che ha visto negli ultimi anni la nascita e l’affermazione di molti nuovi protagonisti: cito – solo a titolo di esempio – Raffaello Cortina, Apogeo, Carocci, Led, Folini.
Secondo il Rapporto 2001 sull’editoria italiana, stampato dall’Aie, «non esistono fonti statistiche attendibili e accurate» e «per alcune discipline quali la letteratura, la filosofia e le scienze sociali la sovrapposizione [del sistema adozionale] avviene con la saggistica di qualità, inclusa nel segmento di varia». Quale è la sua posizione in merito, anche rispetto alle Facoltà scientifiche?
E proprio così. Il libro di adozione per la scuola secondaria ha caratteristiche che consentono di individuarlo con precisione: innanzitutto il prezzo, fissato in genere alla fine di ogni anno e che ci si impegna a mantenere inalterato per tutto l’anno successivo (pena la revoca dell’adozione); poi la necessità di adeguarsi ai programmi scolastici (pur con notevoli differenze di enfasi sui singoli punti); infine lo sconto praticato alle librerie, che in genere è molto inferiore allo sconto dei libri di varia.
Invece un manuale universitario – specialmente nelle discipline umanistiche – spesso è indistinguibile da un normale saggio (del resto anche le opere di narrativa, soprattutto i classici, sono spesso acquistate come materia di studio in corsi di Lettere o Lingue).
Nel settore tecnico e scientifico la situazione è diversa: anche se spesso l’adozione di un manuale è fatta solo alla vigilia dell’inizio del corso, in genere il prezzo al pubblico rimane valido tutto l’anno; lo sconto praticato alle librerie è analogo a quello dei libri scolastici.
La riforma universitaria, proprio con l’introduzione del modulo 3+2, ha obbligato molti editori già impegnati nella manualistica universitaria e alcuni di varia a modificare la propria produzione perché fosse coerente con le disposizioni ministeriali; quale è stato il comportamento della sua casa editrice, Zanichelli?
Non c’è dubbio che il 3+2 induce a programmare libri più agili. Ma il cambiamento non è così drammatico come potrebbe sembrare perché comunque gli editori avevano già nei propri cataloghi libri più agili: per esempio, se a Ingegneria la fisica generale invece che in quattro semestri si studia in due, sarà logico che alcuni docenti rinuncino a un programma più approfondito e adottino libri che trattano solo la fisica fondamentale: ma questi libri già esistevano per i biologi e i matematici.
Perciò il fenomeno mi preoccupa più come cittadino che come editore: in realtà molti dei nostri manuali di maggior successo sono la traduzione di manuali adottati nei Politecnici e nelle Facoltà scientifiche delle università americane. Ora si dice che questi libri sono troppo difficili e che bisogna pensare a manuali più essenziali. E sia: ma rendiamoci conto che inevitabilmente i nostri ingegneri, fisici, biologi, matematici laureati in 3 anni saranno molto meno preparati dei loro colleghi americani (che non per niente infatti si laureano in 4).
In un articolo pubblicato su «Il Sole-24 Ore» nel novembre 2003 relativo alle case editrici universitarie, si affermava che il valore delle vendite della saggistica di studio, la cosiddetta mid-list, è di circa 147 milioni di euro (dato 2001 di fonte Istat/Aie), ma lei sosteneva che se non ci fosse il problema delle fotocopie «il business sarebbe di almeno 250 milioni di euro». Pensa che si potrà arrivare per lo meno a ridimensionare questo problema?
Il problema delle fotocopie è un problema culturale. Sono cresciuto in anni nei quali in ogni tram c’era la scritta «Vietato sputare». Perché? Perché la gente appunto sputava: per strada e persino nei tram. Ora la scritta non c’è più perché piano piano si è affermato il principio che sputare non è né salubre né elegante.
Analogamente penso che dovremo far capire agli studenti (e non solo agli studenti: prima di loro ai docenti) che non si deve copiare, così come si dà per scontato che non si ruba nei negozi, neanche se il negoziante in quel momento non ci può vedere.
Pochissimi fra gli studenti universitari di oggi saranno domani impegnati nella produzione di beni primari (che so: piantar patate, laminare acciaio ecc.). E invece molto più verosimilmente lavoreranno in settori economici per i quali è essenziale la tutela della proprietà intellettuale: non solo l’editoria, ma anche il giornalismo, la musica, la televisione, il cinema, la letteratura, la traduzione, il design, l’architettura, la pubblicità, la fotografia, l’arte, i brevetti industriali e farmaceutici, la ricerca scientifica ecc. Se docenti e studenti capiranno questo punto e capiranno il danno che le fotocopie procurano non solo agli editori ma alla cultura del paese, penso che la tendenza alle fotocopie pirata prima o poi diminuirà.
Veditore universitario è molto legato al time-to-market e siccome la riforma ha ridotto anche la bibliografia utile per ogni singolo esame – ora sono adottati talvolta soltanto alcuni capitoli di un libro – lei pensa che il print on demand possa risolvere il problema delle fotocopie?
La maggior parte dei libri universitari adottati è già presente nelle librerie universitarie all’inizio dei corsi. In casi eccezionali di adozione comunicata all’ultimo momento i libri possono arrivare in pochi giorni. Sono veramente rari i casi di libri fotocopiati per necessità (cioè perché il libro non è disponibile). Perciò non credo che il print on demand possa risolvere il problema. Il print on demand (che notoriamente ha un costo a copia più alto del libro stampato normalmente) è invece un’opportunità preziosa per quei libri che si vendono in un numero di copie che non rende conveniente una ristampa a causa degli elevati costi di avviamento: in pratica libri la cui vendita è di 50 o 100 copie all’anno. Invece un manuale universitario di successo vende almeno 500 o 1.000 copie all’anno e spesso di più. Perciò il print on demand ha oggi una rilevanza marginale (e secondo me è destinato ad averla anche in futuro).
Seppur in modo approssimativo, è possibile stimare il fatturato dell’editoria universitaria o almeno delle librerie universitarie?
È difficile proprio per i motivi che ho detto in precedenza: è impossibile dare una definizione operativa di libro universitario. D’altra parte molti libri adottati nelle università sono reperibili anche nelle librerie di varia. Forse il dato più attendibile è il fatturato a prezzo di copertina dichiarato dalle case editrici iscritte all’Aie come pertinente al settore universitario e professionale: si tratta di circa 450.000 euro: ma il settore professionale è senza dubbio preminente rispetto all’universitario.
Nel novembre 2003 si è tenuto all’Università Bocconi di Milano il convegno Editoria e Università per la cultura, che ha visto la partecipazione di docenti universitari e editori stranieri e dove si è parlato anche di University Press. Secondo lei per quale motivo in Italia non ve ne sono, tranne Vita e Pensiero, pur in presenza di molte università prestigiose?
Vi sono altre University Press in Italia: per esempio quella di Pisa o Egea, in cui la Bocconi ha una partecipazione. Alla Fiera di Francoforte visito sempre il settore delle University Press americane perché si vedono sempre libri stimolanti: ma ho l’impressione che la loro attività precipua sia la pubblicazione di saggi dei docenti più che la preparazione di manuali di studio. Diverso è invece il caso della Oxford University Press e della Cambridge University Press: si tratta di grandi aziende, che operano internazionalmente e che hanno ormai solo un legame geografico e di proprietà con le università in cui sono nate.
Nel convegno di Milano si è parlato anche di e-learning, realtà che si sta sempre più affermando in Italia, al punto da mettere in pericolo l’esistenza di alcuni tipi di libri. Lei come vede questo nuovo insegnamento, proprio in relazione al supporto cartaceo?
L’attività di un editore non è legata al mezzo con cui il manuale è diffuso. Diversi editori librari sono attivi nell’e-learning, per esempio nei progetti per l’educazione professionale permanente nella medicina. La distribuzione di strumenti didattici tramite rete è una opportunità importante che si aggiunge agli audiovisivi e ai cd rom. Penso però che rimarranno sempre insostituibili la lezione fatta da un bravo docente e lo studio di un buon manuale.
Deve essere anche ben chiaro che la rete non può essere uno strumento per distribuire come proprio ciò che è opera creata da altri: sia che si tratti di testi, di immagini o di filmati.
Concludendo, se questa è la situazione odierna dell’editoria universitaria, come vede il suo futuro?
Profezie senza sfera di cristallo non se ne possono fare. Il settore dell’editoria universitaria ha saputo in questi anni adeguarsi al salasso di risorse dovuto alle fotocopie illegali. Come ha fatto? E semplice: non si pubblicano più i libri che una volta avrebbero venduto 1.000 copie e oggi ne venderebbero forse 500 o ancor meno. Perciò il settore non è cresciuto come avrebbe potuto, ma il conto economico degli editori si è salvato. Ne ha sofferto la cultura del paese. Spero che il progredire dell’illegalità non porti alla sostanziale scomparsa del libro universitario. Perché se non si pubblicano più libri universitari, poi non ci sono neanche più libri da fotocopiare.