Un pregiudizio diffuso e pervicace, in Italia più che altrove, impedisce che ai fumetti d’autore venga riconosciuta la dignità (e quindi la considerazione critica, e la modalità di ricezione presso il pubblico) di opere di narrativa. Il caso di tre volumi editi dalla Coconino Press – denominazione mutuata non a caso dal fumetto Krazy Kat di George Herriman – appare in questo senso esemplare e provocatorio: Berlin, Il Grande Male e In una lontana città hanno ritmo, tenuta narrativa, pathos; giocano con i punti di vista e le anacronie; in più, possono contare sulla forza d’impatto del segno grafico, e su un’estrema vivacità di montaggio. Sembra proprio non manchi niente, per poterli definire romanzi.
Circa novant’anni fa George Herriman inventava un paesaggio e lo chiamava Coconino County. In questo «strictly irrational landscape in perpetual metamorphosis», come lo definì il poeta E.E. Cummings, si muovono un topo, una gatta (ma forse è un gatto) e un cane. Più una serie di altre presenze di contorno. La gatta è innamorata del topo. Il topo ricambia lanciandole in testa un mattone. Il cane, un poliziotto, mette il topo in galera. Le minime variazioni di questa storia campeggiano sulle massime mutazioni (metamorfosi, appunto) del paesaggio.
Questo è Krazy Kat, una pietra miliare del fumetto.
Quando nel 2000 Igor Tuveri, in arte Igort, uno dei principali autori di fumetto italiani, decide di fondare con Simone Romani e Carlo Barbieri una casa editrice per i fumetti d’autore, sceglie di chiamarla con il nome di quella contea. Nasce così, con un atto fondativo che è un omaggio al genio di Herriman, la Coconino Press.
Igort è un autore attivo da molti anni e assai conosciuto a livello intemazionale. Ricordiamo le sue collaborazioni a testate storiche, quali «Linus», «Alter», «Frigidaire», «Metal Hurlant», «L’écho des Savanes», «Vanity» e «The Face». Già nel 1983, con Brolli, Carpinteri, lori, Kramsky e Mattotti, è stato il fondatore di «Valvoline», operazione di punta in ambito fumettistico. La scommessa della recente casa editrice Coconino è duplice, perché da un lato prosegue la linea di ricerca nata sul finire degli anni settanta e dall’altro si colloca in uno scenario che è radicalmente diverso da allora.
La conoscenza, spesso anche diretta, di autori importanti della scena mondiale permette a Igort di avere un catalogo e dei contatti di alto profilo artistico. Una lista di straordinarie personalità, ciascuna impegnata strenuamente in un’attività artistica rigorosa, determinata da una irriducibile autorialità, delinea un catalogo di grande compattezza e coerenza. Ogni autore declina la propria arte secondo linee assai personali: il comune denominatore non è tanto negli esiti estetici delle loro produzioni, quanto piuttosto nella fedeltà di ciascuno al proprio progetto artistico e narrativo. In questa prospettiva David Mazzucchelli, Marti, Munoz &Sampayo, Adriane Tornine, Kazumasa Takayama e lo stesso Igort, per citare solo alcuni nomi, formano un insieme molto solidale, anche se fortemente differenziato.
L’Italia è un luogo difficile per il fumetto d’autore. Esiste un pubblico, che va dai vent’anni in poi, per il quale è del tutto ovvio che in ciascuna forma mediatica trovino posto prodotti di diversa impostazione, finalità, target, valore culturale, pregnanza estetica. Per questo pubblico – schematizzando – è evidente che il cinema possa produrre contemporaneamente spazzatura, intrattenimento commerciale e arte. E questo pubblico, se vuole, sa orientarsi nel medium cinematografico per fruire ciò che sceglie di fruire: se cerca film d’autore, sa e può trovarli. O evitarli.
Per la letteratura il discorso non è diverso. Per il teatro, persino per la televisione, non è diverso. Per il fumetto sì.
Secondo Igort, ma la sua analisi è ampiamente condivisibile, in Italia non esiste un pubblico che sappia distinguere nell’offerta del fumetto con una vista altrettanto allenata. In particolare, e qui veniamo al punto che ci interessa, non sembrano sussistere se non soltanto tracce di un pubblico che dia per acquisito il fatto che una produzione d’autore esiste, ed è di alta qualità. In questo l’Italia è incredibilmente lontana, per esempio, dalla confinante Francia.
Dunque l’ambiente in cui la Coconino Press decide di operare ha queste caratteristiche, riassumibili nello slogan «il fumetto d’autore non esiste» (mentre siamo in grado sia di produrre sia di apprezzare con gusto il cosiddetto fumetto seriale). Quello che invece si vorrebbe qui evidenziare è un aspetto dei fumetti d’autore che ci permette di considerarli come vere e proprie opere di narrativa.
Esistono opere che, se volessimo tanto per intenderci ragionare per scaffali, meritano di essere rubricate alla voce «racconti e romanzi». Fra queste, molte sono fumetti. Ma l’unico caso in cui questo dato di fatto è stato riconosciuto sia dall’editoria sia dal pubblico è Maus, il capolavoro di Art Spiegelman, il romanzo a fumetti che più di ogni altro si è meritato un posto sullo scaffale dei romanzi, una nicchia fra le narrazioni della letteratura mondiale. Sarebbe scandaloso il contrario, naturalmente. Tuttavia oggi, anche grazie a Spiegelman, gli autori di romanzi a fumetti degni di essere collocati in quello scaffale sono ormai davvero numerosi. E hanno più padri e più fratelli maggiori di quanto il solo nome di Spiegelman lascerebbe supporre. Per ricordarne uno solo, ma grande, basta citare Will Eisner, nella sua perenne primavera creativa.
Ma veniamo alla scuderia Coconino. Degli autori con cui la casa editrice di Igort intende far breccia nel pregiudizio negativo che abbiamo visto serpeggiare in Italia, potremmo indicarne tre (con una scelta palesemente idiosincratica) come portabandiera: Jason Lutes, David B. e Jiro Taniguchi.
Jason Lutes, americano, è autore di Berlin – la città delle pietre-, David B., francese, è autore di Il Grande Male-, Jiro Taniguchi, giapponese, è autore di In una lontana città.
Sono narrazioni in più volumi, in bianco e nero, in corso di pubblicazione (Lutes) o già interamente pubblicate (David B. e Taniguchi).
Berlin è un imponente romanzo ambientato nella Berlino della fine degli anni venti, in una repubblica di Weimar percorsa dalle tensioni che porteranno alla catastrofe nazista. La grande pulizia del tratto di Lutes, accoppiata alla sua strepitosa capacità di seguire i propri personaggi nella quotidianità senza mai perdere di vista lo sfondo generale in cui si muovono, fa di questo romanzo un capolavoro. Documentatissimo, grazie a una abilità di montaggio e di composizione dei tempi narrativi che lascia stupefatti e affascinati, Lutes crea una Berlino-mondo che sta per partorire i propri mostri. Di lui si è sottolineato l’amore per il disegno di matrice europea, come europea è l’ambientazione del racconto. Ma dal punto di vista narrativo Berlin rappresenta una prova magistrale di tenuta e di concezione: ampia, solida, partecipe e toccante. Nel cuore del secolo scorso, nel cuore dell’Europa, nel cuore della Storia e in quello delle vite di tutti i giorni, Lutes si è insediato prendendo la parola con un atto di forza e umiltà notevolissime. Seguire il giornalista Kurt Severing e la pittrice Mathe Muller per le vie della città, negli indimenticabili interni, nel loro congiungersi e separarsi fra le grandi masse di berlinesi agiti dalla Storia, è fare la conoscenza con un narratore formidabile.
Il Grande Male è l’epilessia di cui soffre il fratello del narratore, in questa straordinaria opera che mette in scena una famiglia francese attraverso il filtro di una sensibilità di bambino che mescola ai fatti le proprie proiezioni fantastiche e una selva di simboli primordiali. La miscela è un bianco e nero di forza pari alla delicatezza di certe scene, dove l’amore e la pena per il fratello sofferente sembrano quasi stare sulla pagina senza alcuna mediazione. L’impianto, di grande complessità, genera soluzioni narrative a getto continuo, in cui lo scivolamento da uno all’altro all’altro ancora dei piani del racconto fluisce con la necessità della tragedia, ma anche con la libertà del sogno. Siamo all’interno di una metamorfosi perenne, che tocca livelli molto profondi della nostra immaginazione. Le perturbazioni nella vita, nella famiglia, negli affetti e nelle menti sono attraversate da David B. con una forza non comune, grafica e narrativa insieme.
In una lontana città racconta di un uomo adulto, di quarantotto anni, che prende un treno per tornare a casa dopo il lavoro. Ma il treno lo porta nella città in cui abitava quando aveva quattordici anni, e soprattutto lo consegna alla città trasformato nel quattordicenne che era, dal punto di vista fisico, mentre la sua personalità rimane quella del quarantottenne. Questo uomo-ragazzo comincia a rivivere la vita di un tempo, nella sua famiglia, con i suoi amici, con una ragazzina, sdoppiato (o forse riunito?) fra il ricordo e la realtà. Le cose vanno all’incirca come erano andate, e l’abbandono della famiglia da parte del padre si avvicina di giorno in giorno: l’uomo-ragazzo questa volta (ma quale volta è?) lo sa, lo teme, lo aspetta e cerca di impedirlo. Il tema dell’immodificabilità del passato e quello del viaggio nel tempo non hanno, qui, nulla dello schematismo e della paradossalità con cui siamo abituati a pensarli e a vederli sviluppati. La sensibilità di Taniguchi tiene la narrazione sospesa in una specie di sogno a occhi aperti e il tema principale dell’opera, la memoria, a poco a poco prende il centro della scena, facendo dimenticare determinismo e viaggi temporali, o meglio relegandoli alla loro semplice funzione di espediente per il racconto. Da questo punto di vista si tratta di un’opera struggente, che riesce a evitare tutte le difficoltà poste dai vincoli narrativi non solo grazie all’inquietante talento artistico e romanzesco dell’autore, ma soprattutto per la sua grazia spirituale.
Speranza e augurio: chissà che approssimandosi il centenario della nascita di Krazy Kat non prenda a cambiare anche il panorama della nostra ricezione del fumetto d’autore, così come cambiavano gli sfondi in «perpetuai metamorphosis» della contea di Coconino nelle strisce di Herriman.