La ritrovata fortuna delle pubbliche letture, nella varietà di forme e manifestazioni che il fenomeno assume, fa riflettere sullo statuto della poesia nella contemporaneità, e al suo ambiguo rapporto con il momento della scrittura, e con il pubblico. La dimensione spettacolare e collettiva del reading poetico impone il confronto con le contraddizioni irrisolte di una forma di mediazione che, mentre vorrebbe colmare la distanza con il testo poetico, corre il rischio di snaturarlo nell’interferenza tra prestigio del poeta e prestigio dell’interprete, nell’ibridazione di lettura e lezione, nel paradosso di una fruizione allotria.
L’alba del nuovo millennio sembra aver dato nuova linfa alla pratica delle letture pubbliche di poesia. Le serate dantesche di Vittorio Sermonti riempiono chiese e teatri, il Festival della poesia di Genova si consolida come un grande appuntamento di richiamo anche internazionale, e un po’ ovunque i reading dei poeti tornano a riscuotere vivace curiosità e partecipazione.
Ciò che intriga e stupisce, nel successo delle letture pubbliche di poesia, è un dato anzitutto quantitativo, che però diventa subito qualitativo: il pubblico cui si rivolgono, e che effettivamente vi partecipa, sembrerebbe essere più ampio – talvolta spettacolarmente più ampio – di quello dei lettori (e degli acquirenti) dei libri di poesia. Si ha cioè l’impressione che proprio il passaggio attraverso l’esecuzione funzioni per il testo in versi come una sorta di vettore, in grado di favorirne la capacità di penetrazione anche fra il pubblico meno avvezzo alla degustazione dei sublimi prodotti poetici. L’ipotesi che ne deriva è che tra le pieghe del moderno pubblico di massa, a dispetto dei responsi del mercato editoriale, sopravviva un tenace, diffuso e largamente insoddisfatto «bisogno di poesia»: e che proprio le varie forme della performance «ad alta voce» rappresentino oggi il mezzo più adeguato ed efficace per dare risposta a quel bisogno. Una prospettiva, questa, che condotta alle estreme conseguenze tende però a mettere in discussione il nostro stesso modo di intendere e pensare la poesia: in ciò consiste l’incandescente margine di malinteso, meglio di rimosso, che le letture pubbliche mettono oggi in scena.
Ma anzitutto è necessario distinguere fra due tipologie di letture poetiche di specie assai differente. La prima può essere ben esemplificata proprio dalle lecturae Dantis di Vittorio Sermonti: o ancor più radicalmente, dalla strepitosa prova di un Roberto Benigni che, di fronte all’occhio della telecamera, esegue la propria lettura del XXXIII canto del Paradiso per la tv, raggiungendo in un sol colpo, e inchiodando al teleschermo, milioni di spettatori. Nei due casi abbiamo un lettore (più o meno) eccezionale – uno studioso/attore o un attore/studioso – che interpreta per il pubblico un testo poetico a sua volta eccezionale. Per chi ascolta, il prestigio dell’interprete ha non meno importanza del prestigio del testo. La Divina Commedia, proprio in ragione della sua classicità, è esposta alla venerazione cultu(r)ale di un pubblico larghissimo: venerazione che si accompagna però alla percezione di una cruciale distanza. Oltre che a difficoltà di specie strettamente linguistica, ciò si deve alla condizione genetica della poesia in quanto genere letterario. La poesia scritta è infatti un’arte fortemente intellettualistica, allusiva: a leggere un testo in versi bisogna imparare, entrando in possesso di competenze tecniche specifiche. Da qui l’esigenza di una mediazione: grazie alla doppia garanzia della propria competenza di lettore, e della propria abilità di attore, l’interprete d’eccezione Sermonti/Benigni si assume precisamente il compito di ridurre quella distanza, traducendo il testo scritto in uno spettacolo che è insieme (sebbene in misura variabile) lettura e lezione, esecuzione e spiegazione dello spartito autoriale.
Certo con ciò l’ascoltatore non si trasforma in un lettore autonomo: può godere però di una gratificante – per quanto occasionale e precaria – possibilità di contatto con un oggetto culturale di prestigio, che altrimenti gli resterebbe precluso. In questo senso la messa a frutto dei nuovi mezzi di registrazione audiovisiva prefigura opportunità inedite: l’allestimento di edizioni multimediali dei classici della poesia, in grado di supportare una fruizione domestica in cui si incrocino lettura e ascolto, testo e spettacolo del testo, potrebbe estendere ulteriormente la possibilità di un accesso mediato, guidato, al testo poetico, anche da parte di un pubblico sprovvisto di competenze letterarie raffinate.
Assai più intrigante, e ben più paradossale, pare tuttavia il caso dell’altra tipologia di letture poetiche – quelle cioè che vedono coinvolti in prima persona i poeti-scrittori contemporanei. In effetti l’emozionante spettacolo del poeta poetante qui e ora, dal vivo, abbraccia il pubblico in una situazione comunicativa differente, meno intellettualistica, più diretta e immediata rispetto a quella che si stabilisce attraverso la pagina a stampa. Ma anche qui è necessario distinguere: e una manifestazione come il Festival di poesia di Genova offre, in tal senso, una emblematica mappa del possibile.
Lo spettatore vi può assistere a esibizioni che variano dal reading più tradizionale alla performance poetica più estrosa, dall’allestimento sperimentale di videopoesia al concerto rock. Sui vari palcoscenici cittadini, poeti come Edoardo Sanguineti o Maurizio Cucchi, Tadeusz Rozewicz o Simon Armitage, si alternano a rockstar come Lou Reed o Lydia Lunch (o il nostro Elio di Elio e le storie tese), le prodigiose diplofonie vocali della performer siberiana Sainkho Namchylak alle seriocomiche arguzie del «poeta catartico» Flavio Oreglio. A uscirne è un’immagine suggestiva, spregiudicatamente allargata della nozione di «poesia», oltre che del concetto di «lettura in pubblico». Ma proprio questa giustapposizione, all’interno di un unico grande evento-contenitore, di esperienze e fenomeni tanto differenti, illustra con singolare efficacia i margini di contraddizione, di ambiguità, che caratterizzano il rapporto della poesia letteraria, tradizionale, con la dimensione della lettura, e del pubblico.
Si tratta anzitutto di prendere atto di ciò che significa o significherebbe oggi valorizzare davvero la dimensione della voce, della performance, come orizzonte di «pubblicazione» autonomo, alternativo a quello del testo a stampa: significa (o significherebbe) per la poesia tendere risolutamente verso le forme della canzone pop, o del videoclip, o dello show televisivo. Forme, cioè, nelle quali l’esecuzione scenico-sonora rappresenta davvero il modo di «messa in pubblico» per cui il testo viene pensato e progettato. Forme che, di conseguenza, al medium della pagina a stampa hanno definitivamente sostituito i mezzi di incisione o registrazione audiovisiva, che proiettano l’irripetibile «qui e ora» della performance dal vivo entro i confortevoli supporti dell’infinita riproducibilità digitale. Da qualche tempo, ormai, si è generalmente disposti ad ammettere che parolieri cantautori e chansonnier s (almeno nei casi degli autori più consapevoli) siano da ritenersi poeti a tutti gli effetti. Forse si sottovaluta però che lo sono in un modo diverso rispetto a quello che vale per Cucchi o Sanguineti. E non perché siano più o meno «bravi». Il punto non è questo. Il punto è che il genere di poesia cui si dedicano, l’idea di poesia cui fanno riferimento, è profondamente differente.
Al di là del successo dei reading, la poesia letteraria contemporanea resta infatti ben ancorata a quella condizione di intellettualistica interferenza tra scrittura linguistica e musicale, di ambigua sospensione tra pagina e voce, che ne costituisce il precipuo modo d’essere da secoli. Una condizione che, beninteso, è straordinariamente proficua dal punto di vista delle possibilità espressive: ma che tende a essere piuttosto limitante quanto alla selezione dei destinatari. I poeti-scrittori (quelli che a tutt’oggi non possiamo fare a meno di pensare come i poeti veri, i poeti-poeti) continuano a contare essenzialmente su un pubblico di lettori, e di acquirenti librari. Per i loro versi, il solo aspetto fonico davvero pertinente è quello – del tutto allusivo, virtuale – che il lettore competente può attualizzare direttamente sulla pagina a stampa: piuttosto attraverso una esecuzione mentale, peraltro, che non fattivamente vocale.
Proprio questo carattere ambiguamente «musicale» della poesia letteraria (inscritto anzitutto, ma non solo, nella sua struttura metrica), rappresenta come noto una delle principali ragioni della relativa «impopolarità» della poesia contemporanea. Tutti sono in grado, almeno a un livello elementare, di leggere un romanzo. Leggere una poesia è assai più complicato. E non solo per ragioni stilistiche: i versi cantati da Franco Battiato, per esempio, sono assai meno «facili da capire» di quelli scritti da Sandro Penna. Eppure hanno un pubblico sensibilmente più vasto. Il fatto è che la poesia letteraria non ha mai maturato (forse non ha mai ambito a farlo) un rapporto trasparente e funzionale con la dimensione della pagina a stampa. Scrivendo, i poeti non si rivolgono al semplice lettore: si rivolgono al lettore specializzato, che è in grado di «stare al gioco», che conosce il sistema di regole e convenzioni cui il poeta allude (o che il poeta elude) per dotare di una certa «musica» immaginaria il proprio testo.
Paradossalmente, durante la lettura pubblica accade lo stesso: anche in quel caso, cioè, i poeti tendono a rivolgersi piuttosto al lettore fedele o comunque smaliziato, che non allo spettatore occasionale. Nel singolare atto di mediazione che il poeta compie leggendo in pubblico i propri versi, infatti, egli deve fare i conti con l’ingombro estetico che la propria presenza autentica sulla scena inevitabilmente assume. In qualunque modo si comporti, egli offre all’uditorio lo spettacolo di se stesso nel ruolo del poeta. Uno spettacolo che, si capisce, è tanto più inessenziale rispetto al testo, quanto più esso resta anzitutto un testo scritto-per-essere-letto-sulla pagina. Specie per lo spettatore non attrezzato, che non è in grado di stabilire una relazione problematica tra la prova «attoriale» del poeta e la matrice tipografica del testo, il contenuto estetico del reading tende allora a risolversi nella mera suggestione dell’interpretazione autentica, da parte del poeta, del proprio ruolo di poeta. In questo senso, anche l’indubbia forza aggregante del reading, la sua capacità di coinvolgimento di un pubblico più differenziato e stratificato (e dunque potenzialmente, se non proprio effettualmente più ampio) rispetto a quello che frequenta gli scaffali specializzati delle librerie e delle biblioteche, sembra a tutt’oggi rappresentare, per i «poeti-poeti», piuttosto un paradossale surrogato consolatorio, che non una risorsa coerentemente messa a frutto. Essi infatti non scrivono, e neppure leggono i propri versi per dei semplici ascoltatori. Lo fanno per dei lettori competenti. Ma l’obiettivo dichiarato delle letture è proprio di rivolgersi agli altri, ai non-lettori competenti. Il circolo non potrebbe essere più vizioso.
Le letture di poesia costituiscono lo spettacolo dell’ambigua condizione della poesia moderna. Nella misura in cui i poeti vi cercano un risarcimento rispetto al difficile rapporto che intrattengono con il pubblico dei lettori, esse rappresentano una gratificante via di fuga dalla dimensione di esclusività in cui la tradizione letteraria li ha costretti. Ma è una fuga nostalgica, illusoria. Che non risolve il problema.