Ce l’hanno insegnato Il pranzo di Babette di Karen Blixen, le ricette afrodisiache di Isabel Allende e la golosità isolana del commissario Montalbano di Camilleri. Lo stile è tutto, anche in fatto di cibo. Ma se il fascino delle ricette d’autore si risolve quasi esclusivamente nel loro potere evocativo e di complicità tra protagonista e lettore, la quotidianità dell’arte culinaria richiede anche indicazioni pratiche che aiutino a destreggiarsi tra i fornelli. Ecco allora libri di cucina scritti come romanzi, testi che sfoderano un inedito cipiglio da pamphlet, volumi che attraverso le ricette raccontano persone e luoghi, spesso con uno stile accattivante, preciso, espressivo e appassionato.
Dei riti e dei piaceri della cucina la letteratura si è sempre occupata, restituendoci nei secoli una gamma pressoché illimitata di esperienze, dalle mense più semplici e monacali alla magnificenza dei banchetti di re, tiranni, ricconi (e bricconi). Il romanzo realista o naturalista, tanto per fare un esempio, abbonda di descrizioni gastronomiche, dove l’attenzione alla composizione del pasto, alla qualità del servizio, al taglio delle carni, all’illuminazione dell’ambiente ecc. serve a svelare o a fissare per sempre il carattere di un personaggio, certificandone l’appartenenza a un gruppo sociale, la tendenza all’eccesso o al controllo, la tempra morale più o meno debole.
È solo in tempi abbastanza recenti, tuttavia, che cuochi, esperti di cucina e gourmet acquistano via via più spazio e visibilità nella produzione letteraria corrente. Ben più che in passato, è possibile riscontrare un interesse specifico per gli aspetti più tecnici e applicativi del mangiare, anzi, del far da mangiare: le ricette descritte con minuzia, la scelta degli ingredienti giusti, i trucchi di preparazione dei piatti. E soprattutto: la sapienza gastronomica, il gusto per le raffinatezze della cucina diventa ornamento e prerogativa del personaggio, contribuisce a farlo amare, gli dà spessore (anche in senso letterale, se si pensa a Nero Wolfe).
Il caso forse più esemplare – uno chef de cuisine romanziere – è quello di Anthony Bourdain di Kitchen Confidential, un tipo alquanto aggressivo (e non simpatico), piuttosto lontano dal cliché del cuoco bonario, materno, generoso. Le sue vicissitudini, costellate di eccessi e cattiverie, tolgono la voglia di assaggiare la sua cucina, ma documentano a sufficienza la durezza del mestiere in un contesto competitivo come quello delle grandi città degli States.
Le correzioni di Jonathan Franzen ci offre un altro esempio significativo: Denise, uno dei personaggi principali, lavora in un ristorante alla moda di Filadelfia e fa ampio sfoggio di perizia culinaria: anche qui, però, senza convincere fino in fondo, come se in ambiente americano fosse inevitabile lasciarsi prendere la mano da estetismi ed esibizioni di status, con il conseguente appannamento della sana dimensione sensuale del mangiar bene e abbondantemente (la «pacciada», per dirla con Gianni Brera).
In altri casi (Jorge Amado), le cose procedono in modo più naturale, meno intellettualistico: è l’autore stesso che ci regala, dietro la copertura di una figura di fantasia, una sintesi delle sue preferenze gastronomiche, entro una più generale vocazione ai piaceri dei sensi. Attraverso le ricette bahiane di uno dei suoi personaggi più amabili, Pedro Archanjo (ma c’è pure Dona Fior, e tanti altri), lo scrittore brasiliano ci fa assaporare ancora una volta la dolcezza di vivere in luoghi esotici, incantati, felici. Perduti sì, ma recuperabili proprio grazie alle delizie del gusto.
Esotismo e sensualità d’altronde sono ingredienti stabili di tutte quelle situazioni narrative (anche cinematografiche) in cui la scoperta del mangiar bene, come nel racconto Il pranzo di Babette di Karen Blixen, serve a smuovere e sovvertire una condizione bloccata, di rinuncia e tristezza, aprendo la strada a un modo d’essere più rilassato, indulgente, godibile.
La cucina afrodisiaca di Isabel Allende va con tutta evidenza nella stessa direzione. E forse non è un caso che sia una scrittrice così amata a proporre ricette e consigli di cucina variamente praticabili: è la sua stessa popolarità che li rende vicini e accettabili, come se venissero da una persona di famiglia che conosciamo bene.
In effetti, nella produzione narrativa di buona qualità, ma facile e popolare, la passione per la cucina di alcuni personaggi seriali, come Maigret o Carvalho, ha un ruolo importante, d’inveramento e avvicinamento. Il barocchismo culinario del personaggio di Vàzquez Montali in, o i piattini che la signora Maigret prepara al suo Jules, non hanno solo una funzione di alleggerimento rispetto alle durezze dell’investigazione, ma servono a stabilire tra il pubblico e il protagonista un rapporto di complice confidenza che si rinnova a ogni nuovo titolo della serie.
Il legame tra crimine e cucina dev’essere ben radicato, se è vero che lo si ritrova anche presso altri personaggi notevoli, come l’investigatore gourmet delle storie gialle di Qiu Xaoling pubblicate da Marsilio o il raffinato gastronomo assassino angloprovenzale di Gola di John Lanchester.
Né va dimenticata, infine, la passione golosa del Montalbano di Camilleri per certi piatti di pesce della cucina siciliana: troppo indaffarato per dedicarsi all’arte culinaria, l’ottimo commissario è con certezza un intenditore.
Certo che qualche dubbio rimane, sulla praticabilità effettiva delle ricette d’autore. E come se il piacere che esse promettono fosse destinato a sfuggirci, dal momento che non possiamo di sicuro ricreare, nella prosaicità della nostra cucina, la preziosa esperienza gustativa che abbiamo vissuto tramite il personaggio, in circostanze virtuali, uniche, irripetibili.
Per avere accesso a piaceri del palato più concreti, meglio volgerci alla letteratura gastronomica vera e propria.
Basta visitare una buona libreria per rendersi conto che l’offerta attuale di libri di cucina è imponente. Alla libreria Feltrinelli più vicina a casa, il reparto dedicato conta (senza considerare i libri che parlano di vini e bevande varie) una sessantina di case editrici, tra piccole e grandi, specializzate e generaliste. Il numero aumenta non poco quando si esplorano le librerie di città minori o periferiche: la molteplicità, il rilievo e la dignità delle cucine e tradizioni regionali legittimano la fioritura di una quantità di sigle locali, spesso di buon livello.
Di fronte a una produzione così esuberante, non è facile orientarsi. Senza assumere per forza un atteggiamento classificatorio, ma affidandosi pigramente all’occhio, alle impressioni del momento, si coglie una prima partizione dell’offerta: la differenza tra i volumi grossi, rilegati, riccamente illustrati e quelli più smilzi e sobri, a volte di poche pretese a volte ricercati, assai curati nella grafica e nella qualità della carta.
I primi cercano di colpire con l’eloquenza delle immagini fotografiche, che mostrando la bellezza di una creazione culinaria (spesso già «presentata», pronta da mangiare, su una tavola bene apparecchiata ecc.) rimandano a una promessa implicita: la possibilità di ottenere lo stesso meraviglioso risultato mediante l’osservanza rigorosa della relativa ricetta.
I secondi spesso si affidano a mezzi di seduzione più sottili e si sforzano di caratterizzare le proprie descrizioni e prescrizioni gastronomiche mediante l’aggiunta di un qualcosa che sappia renderle più interessanti, spostandole dal piano della mera consumazione e promuovendole a un livello «superiore» (o meglio, «ulteriore», più complesso).
In effetti, a ben vedere, s’impone una seconda discriminazione. Da un lato, i libri manualistici, fatti di sole ricette, di sole istruzioni pratiche. Dall’altro, i libri che usano le ricette anche come occasioni per parlare di cose ben diverse, o che comunque vogliono farsi leggere su un doppio registro, non accontentandosi della funzione pragmatica e utilitaria.
Al di là del progetto culturale soggiacente, è evidente l’intento commerciale di rendersi visibili nella massa, davvero impressionante, dei prodotti editoriali che si occupano di cucina. Se per gli editori generalisti il libro di cucina è un diversivo, un’iniziativa episodica, per le collane e le case editrici più o meno specializzate (spesso piccole: Bibliotheca Culinaria, Konemann, Gribaudo-Parragon, Muzzio, Veronelli ecc.) diventa primaria l’esigenza di offrire un valore aggiunto e di trovare una collocazione precisa, autonoma, distintiva.
La parola d’ordine «non solo ricette» sembra comune a molti: si tratta di superare la staticità dell’elenco (non troppo dissimile, in fondo, dall’orario delle ferrovie), per costruire un repertorio che sia vivo, animato, meritevole di lettura anche al di fuori del bisogno circostanziale di preparazione culinaria.
Ciò che varia dunque sono le strategie di superamento della dimensione manualistica e di ricerca della distintività.
Le vie percorse per distinguersi sono ovviamente numerose, variegate. A volte appaiono semplici, superficiali, basate su una singola trovata o su una moda, come nel caso di un volumone intitolato furbescamente La Cucina de gli Elfi, che in realtà all’interno si riduce a un lungo elenco di preparazioni bio-salutistiche.
Altre volte propongono un punto di vista forte, quasi una «filosofia» del mangiare e del cucinare, spesso sostenuta da un forte impegno in difesa della natura e degli aspetti più vitali della tradizione. A parte Slow Food (che è sì editore, ma all’interno di un fenomeno ben più ampio e ramificato di valorizzazione della nostra cultura alimentare), sono parecchi gli editori che si segnalano in questo senso: dai nomi più noti, come Franco Muzzio o Veronelli (collana «I semi»: affettuose biografie di «protagonisti delle culture materiali»), a quelli più rari o stravaganti, come le Edizioni Sonda (La Cucina Etica: «oltre 700 ricette vegan per buongustai e golosi rispettosi degli animali e dell’ambiente») o i libriccini di Il Mulino di don Chisciotte, il cui programma spicca già in copertina: «La rivoluzione nelle piccole cose di ogni giorno – per riconoscere il valore del nostro tempo e dare conforto al corpo e all’anima – ricette della tradizione per una cucina in armonia di sapori».
Altre volte ancora l’arricchimento della pratica culinaria avviene attraverso incursioni – più o meno raffinate e divertenti, ma comunque ben fondate culturalmente – nei territori della letteratura, del mito, del teatro ecc.
Nel catalogo di un editore specializzato come Guido Tommasi si può trovare la cucina amata da Goethe (A tavola con G.), la napoletanità di Eduardo De Filippo, i cibi rudi e semplici di cowboy e pionieri (Taste the West), e così via.
Sono assai frequenti, in tutta la produzione editoriale, le contaminazioni tra cucina e altri generi, ambiti, funzioni, purché giudicati attraenti o accattivanti. Oltre alle analogie con l’eròtica, profonde quanto ovvie, il discorso culinario si appoggia alle arti figurative (La pittura in cucina), al cinema (Ciak, si mangia), alla vita religiosa (Le «ricette della gioia» con Santa Ildegarda), alla psicoanalisi (La cucina del dottor Freud), alla condizione «monofaga» dello scapolo (Manuale del mangiatore solitario).
Certamente l’approcciotradizionale,ditipomanualistico e pedagogico, è sentito come insufficiente in quanto troppo prevedibile e inflazionato. D’altra parte, non è sufficiente neppure la differenziazione in base al contenuto (cioè per temi, filoni, sottogeneri): benché molto esteso, il macroargomento «cucina» si presenta come un territorio in parte desertificato (a chi interessano i costumi alimentari della Moldavia o dell’Eritrea?), in parte sovraffollato, con inevitabili sovrapposizioni (la voga dei cibi «naturali» e del «biologico», i prestiti dalle cucine asiatiche ecc.).
La ricerca di un profilo unico e distintivo tende allora a spostarsi sul piano del trattamento, della scrittura, dell’impostazione formale. Viene a crearsi uno spazio per l’elaborazione stilistica e per la narrazione. Le singole proposte culinarie diventano più attraenti e convincenti se il lettore può disporre di un tessuto connettivo che permetta di passare in modo piacevole da una ricetta all’altra, da un suggerimento di preparazione al resoconto di un’avventura gastronomica bizzarra, insolita.
In effetti, lo sconfinamento nell’esperienza di viaggio – il trattare come un viaggio la peregrinazione tra piatti e preparazioni – è piuttosto frequente. Il nesso tra il cibo, il paesaggio, le tradizioni, la cultura materiale di un luogo è patrimonio comune, che tuttavia va difeso e recuperato.
Su questa linea di esaltazione estetica e civile del mangiar bene, in modo «lento» e autentico, valorizzando l’esplorazione dei luoghi d’origine (linea «Mario Soldati», si potrebbe dire) si muovono soggetti come Slow Food o Gambero Rosso. Sul piano della produzione letteraria, il loro approccio all’argomento tende a generare un gergo: uno stile accattivante, preciso, espressivo, sensibile, appassionato, di sottile grana descrittiva, con qualche rischio di stereotipia e autoreferenzialità.
Si fa tuttavia strada anche un’altra linea di condotta, con maggiori possibilità di evoluzione in senso narrativo (e di qualità letteraria): la cucina come esperienza autobiografica. Apprendere a far da mangiare, a degustare, a improvvisare, a escogitare nuove soluzioni, a esercitare le capacità di bricolage, a relazionarsi meglio con gli altri attraverso il cibo ben fatto: tutto questo può costituire materia di racconto, o punto di partenza per dare consistenza narrativa alla propria esperienza di vita. Non solo il discorso gastronomico contiene e rivela in sé schegge di letterarietà che il lettore tende a valorizzare in misura crescente (se non altro, come reazione alla mediocrità di tante cattive annate della produzione letteraria «vera»), ma la risonanza individuale del cibo e del mangiar bene genera intuizioni, pensieri, spunti ricchi di potenzialità narrative, che trovano poi una realizzazione più o meno felice.
Qualche esempio. Un testo «giovanilista», in apparenza attraente, ma in sostanza solo scaltro e narcisistico, è lo ho fame adesso, di Francesco Gungui. Aneddotico, a volte divertente, spesso sciatto e poco strutturato è Cuore di cuoco, di Volfango Soldati. Positivo, invece, e meritevole di attenzione, per acutezza dello sguardo e pulizia di scrittura, è Zucchero a velo, di Stefania Giannotti. Buono anche Cuochi si diventa di Allan Bay, spigliato e competente.