L’eros delle ragazze cattive

Raccontano il sesso in presa diretta, senza censure, sudditanze verso i colleghi maschi e psicologismi. Sanno essere esplicite e conturbanti, tanto da provocare la reazione scandalizzata di critici e lettori. Eppure le narratrici della stagione del postfemminismo più che ragazze cattive sono donne in preda a paure e sensi di colpa. Entrate con spavalda baldanza nell’universo della sessualità a luci rosse, sperimentano una scrittura veloce e antiletteraria; ma i loro racconti e romanzi poco o nulla concedono all’eros ludico e disinibito. E la maternità negata si vendica.
 
In questa stagione letteraria le antologie vanno forte: sul modello del volume ideato da Benedetta Centovalli, Patrie impure, piccoli e grandi editori hanno affollato il mercato di proposte varie e interessanti. Nell’anno appena trascorso sono uscite, fra le altre: La qualità dell’aria. Storie di questo tempo; Italville; Gli intemperanti. Bozze non corrette.
Non potevano mancare i volumi interamente a firma femminile. In primavera La Tartaruga pubblica Italiane duemilaquattro, che recupera e riaggiorna Racconta (1989) e Racconta 2 (1993). Poco prima dell’estate, in «Stile libero Big», esce Ragazze che dovresti conoscere;il sottotitolo, The Sex Anthology, mira dritto al bersaglio, chiarendo, seppur in inglese furbesco, di quale tipo di conoscenza trattino i quattordici racconti, affidati ad autrici note, quasi sconosciute ed esordienti. La scelta editoriale è chiara: promuovere le firme della collana «giovane» dell’ex casa torinese (dalla Vinci e Stancanelli alla Santangelo, dalla Ambrosecchio alla Ciabatti e Alessandra C.) e, nel contempo, valorizzare il progetto ambizioso di dedicare questa «pattuglia di storie» specificamente all’erotismo femminile. Ragazze che dovresti conoscere vuole essere la risposta «einaudiana» al caso dell’anno, targato Fazi: 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire.
Sulla scia di Melissa P., sono usciti operine e volumoni che speravano di bissarne il successo, titillando le attese dei lettori con pruriginose vicende di iniziazione sessuale; ma, come spesso capita ai best-seller, anche e soprattutto nell’area del pomo-rosa, il consenso ampio del pubblico non si conquista con raffazzonature più o meno sgangherate. Un unico esempio: Marilù Manzini in Io non chiedo permesso presceglie lo sfondo ultrasfruttato della provincia romagnola-emiliana per ricordarci che anche le ragazzine-bene strafatte di coca piangono. Chi racconta pensa di essere alla moda solo perché nel testo abbondano le comunicazioni abbreviate degli sms e le indicazioni cronologiche sono «date di scadenza». Lo stile di scrittura s’adegua in sciatteria.
Di tutt’altro tono e spessore espressivo l’antologia di «Stile libero», che entra nel mondo della femminilità a luci rosse con l’intento di sperimentare tipologie narrative e stilistiche mai banali o trasandate: «quasi un manifesto», come recita con baldanza la quarta di copertina, che promette anche «un punto di vista spudorato e liberissimo su ciò che è davvero fondamentale nella vita». Al di là della resa dei singoli racconti, che per lo più deludono le aspettative hard, ma anche quelle soft, il libro è interessante perché offre uno spaccato dell’ultima narrativa di gender, proiettandone le tensioni sull’immaginario collettivo di oggi. E qui si apre subito il primo interrogativo: a chi ammicca quel «tu» al centro del titolo (che dovresti conoscere)?
Il precedente più illustre della Sex Anthology è il numero zero di «Tuttestorie. Racconti letture trame di donne», diretto da Maria Rosa Cutrufelli, curato da Marisa Rusconi e dedicato all’«immaginario erotico femminile». Lì, le «signore della scrittura» (Angela Bianchini, Gina Lagorio, Elena Gianini Belotti, persino Paola Masino) si accompagnavano alle più giovani (Clara Sereni, Sandra Petrignani, Silvana La Spina) e alle esordienti (c’è, a sorpresa, una Susanna Tamaro preconversione) per rivolgersi elettivamente alle lettrici, sorelle in femminismo. Il passaggio di millennio ha scavato un abisso rispetto a quella stagione, lontana poco meno di un quindicennio: la «città proibita», per adottare la metafora d’allora, ha spalancato porte e finestre: ed è una gran bella cosa.
Le giovani scrittrici, quelle che oggi pubblicano per «Stile libero», nella collana «Strade blu» della Mondadori, nei «Narratori Feltrinelli», o che esordiscono da mimimum fax (Valeria Parrella, Mosca più balena)hanno trovato, senza più sudditanza verso i colleghi maschi, le tecniche e i procedimenti compositivi per raccontare e raccontarsi con piena, autonoma franchezza. Il crollo degli argini censori ha favorito l’allargamento delle cerchie dei fruitori: il destinatario elettivo non è più la ristretta élite delle lettrici impegnate nei gruppi di autocoscienza, ma ambiziosamente il più vasto pubblico leggente. Forse si è persa la carica di pathos militante, se ne è accresciuta, però, la volontà di dialogo dispiegato. Anche la varietà dei marchi editoriali, piccoli e grandi, d’ogni parte d’Italia, testimonia che ormai non ci sono più riserve e aree protette.
Da questa premessa non identitaria, avvalorata dal recupero di modelli e convenzioni di letterarietà non eccentrica, prende avvio Ragazze che dovresti conoscere. Colpisce, soprattutto, la scelta tradizionale di «incorniciare» i quattordici racconti con un prologo, Vedi alla voce…, che allinea i lemmi di un vocabolario sui «massimi sistemi del femminile». Ovvero: sesso-pornografia, morte, maternità e via elencando. Certo, qui il tono è quello scanzonato del postmoderno, ricco di allusioni maliziose e invitanti strizzatine d’occhio («si trasgredisce il luogo comune della trasgressione»); ma insomma, anche in questo inizio di millennio, è la cornice a dare unità a una sfilza di testi che altrimenti rischierebbero la deriva centrifuga. E come capitava nelle raccolte non post, ma premoderne, tutto è già racchiuso nelle «voci» messe in incipit: a prevalere in questi racconti di sesso al femminile, non sono né l’eros allegro e disinibito, né le pulsioni della libido scatenata e provocante; a dominare sono gli incubi di morte e le ansie colpevoli di chi ha negato al corpo muliebre il «destino» della maternità.
Uno solo, Daria, è francamente ai limiti della pornografia: l’iniziazione all’orgasmo di una ragazzetta sedicenne da parte della prof, che le dà ripetizioni d’italiano e di un suo amico, «quello bello della Volvo». Tutti gli altri, soprattutto i testi più riusciti e conturbanti, in cui la protagonista è anche l’io narrante, poco o nulla concedono alle insorgenze dell’istinto del piacere e dell’appagamento erotico. La più piccola cosa traduce, su uno sfondo cimiteriale, l’equazione «paura uguale desiderio»; in un obitorio si svolge Formine, una sorta di dialogo, riassunto di una vita sprecata, tra una giovane donna e il cadavere della madre. Se e quando viene rappresentata, la scopata si conclude con indizi di abbandono e lutto (Piove), oppure con gesti pacifici ma inappellabili di rigetto (Autostrada). La seduzione, d’altra parte, non è affare riservato agli umani, che mal se la cavano senza la collaborazione dell’animalità scimmiottesca (Saro e Sara).
Nei pochi racconti in cui a narrare non è una voce femminile, il clima non si rasserena: anzi. Espiazione è tutto giocato sul voyeurismo, ma lo sguardo dell’uomo che osserva e descrive si concentra, per castigo, solo su amplessi strazianti; nel Giorno del mio compleanno, la protagonista è una bimba di quattro anni: suo è il compleanno, ed è lei che ne rievoca il ferale svolgimento; vi si intreccia la voce dello «zio», in realtà padre, che per festeggiarla le offre in regalo pellicce e tutù, e per amore la violenta e l’uccide.
Insomma, se la Sex Anthology si propone di farci conoscere l’erotismo delle giovani narratrici d’oggi, non c’è di che stare allegre: il loro estro creativo predilige affidarsi a sequenze e montaggi che all’espansione ludica delle pulsioni vitali oppongono la rappresentazione di una latenza, da cui baluginano incubi e fobie. Anche e soprattutto nelle scene di coppia, la narrativa delle «ragazze cattive», che ha sconcertato e offeso critici e lettori, tanto più insiste sull’esplicitezza provocatoria dei dettagli, quanto meno nasconde crucci angosciosi: più che cattive sembrano spaventate a morte. La caduta delle censure e dei tabù ha sì spalancato un universo incognito, ma, come capita non solo in letteratura, la libertà conquistata con fatica frastorna e inquieta anche le più attrezzate: l’empito vitale della libido non appartiene al vocabolario dei «massimi sistemi del femminile».
Ora, che l’immaginario sessuale delle donne rifugga dai criteri di stilizzazione cari alle convenzioni del genere hard, quale ce l’ha tramandato la produzione a firma maschile o anche, nei tempi più recenti, a firma femminile (da Almudena Grandes a Una chi, passando per i volumetti di «Pizzo nero»), a me pare una conquista salutare e più che apprezzabile: le tensioni masochiste che sollecitavano i fragili corpi verginali, contraltare al sadismo predatorio del maschio conquistatore, potevano anche declinarsi nelle forme del godimento consenziente, ma certo erano sempre subalterne alle fantasie del delirio d’onnipotenza virile. Nei nostri racconti, del dominio patriarcale e fallocratico non è rimasta neanche una briciola; sgombrato felicemente il campo, resta aperta, però, la questione di come abitarlo e raccontarlo.
Se l’ordine tematico chiarisce la diversità irriducibile del punto di vista, il paradigma delle scelte compositive illustra le modalità della svolta: privilegio concesso alla fecalizzazione interna, rigetto dei procedimenti d’allusione simbolica, un campo retorico estraneo alle effusioni liricizzanti, un sistema di coordinate spaziotemporali radicato nella modernità urbano-borghese, capace di allestire scene di quotidianità comune. In sintonia con questo sfondo, la scrittura sperimenta toni e timbri altrettanto inediti. Attenta alla registrazione in diretta di sensazioni, sussulti, scosse percettive, incline a restituire senza filtri né mediazioni l’energia nervosa dei corpi femminili, la prosa narrativa di queste autrici rifiuta la complessità sintattica, per privilegiare un andamento franto, veloce, sincopato, composto di stringhe brevi e lineari, che sollecita il lettore a sintonizzarsi con un ritmo più che a condividere una vicenda. Nelle forme verbali impera incontrastato il presente che annulla passato e futuro, e nulla concede alle pause riflessive del commento. La progressione d’intreccio si snoda rapida, con ellissi e cesure, a cui fanno fronte solo presentimenti allucinati o cortocircuiti psichici; i discorsi dell’io narrante e dei personaggi tendono a confondersi in un coro di voci spesso disordinato. Le cadenze dell’atto di lettura sono affidate alle pause tipografiche, semplici stacchi bianchi o segni d’interpunzione netti, virgole e punti fermi. Ne deriva uno stile estraneo agli artifici dell’oltranza arrovellata, a cui, nondimeno, è arduo affibbiare l’etichetta della semplicità comunicativa. E la cifra espressiva dell’immediatezza fisiologica: una immediatezza, sia chiaro, ultraricercata e nient’affatto naive, che, nel rifiuto di ogni tradizione, punta soprattutto a provocare chi legge.
Programmaticamente senza «madri», le autrici trentenni, o giù di lì, hanno voluto bruciare ogni rapporto con il passato, anche il più recente. Orchestrata sulle note tersamente sospese della Vinci, sulla polifonia crudele della Stancanelli, sul martellio asfissiante e ossessivo della Santacroce, sugli accordi solo apparentemente fluidi e lievi della Parrella, la narrativa delle ragazze cattive trova un comune denominatore nella radicalità con cui evita i procedimenti analitici, sia d’indole sociologica sia di natura psicologica e sentimentale.
Da questa pregiudiziale rappresentativa nasce il primato della misura del racconto o del romanzo breve, che meglio esalta l’effetto istantaneo di realtà, dove i residui materici non si distinguono dalle scorie emotive.
Dalla stessa scelta intransigente nasce anche lo choc di lettura più conturbante: l’inafferrabilità dei personaggi, in primis della protagonista narratrice. Certo la sua voce e la sua corporeità dilagano: centro del testo, tutto vortica intorno a lei e ogni cosa cade sotto il suo dominio percettivo, ma tutto nel contempo viene risucchiato e fatto rimbalzare lontano da una prosa autorifrangente, senza spessore e spesso priva di direzione. L’identità dell’io si dissolve in un diluvio di sensazioni epidermiche; i nomi propri sono abrasi dalla caterva di etichette, marchi doc, jingle pubblicitari. Disegnate con tecnica fumettistica, chiuse in un autismo irriducibile, queste donne giovani, poco più che ventenni, inibiscono ogni moto di sintonia o antipatia, di compartecipazione o di ironico straniamento.
L’impatto fruitivo è ancor più forte quando la narrazione si distende sulla misura ampia del romanzo.
In Revolver della Santacroce, la prosa sussultante, un blob stilistico di frasi ellittiche sparate a raffica, trova argine in una struttura organizzata in tre macrosequenze progressive, Mira Premi Spara, e circolarmente compatta (l’epilogo copia testualmente l’inizio), ricca di corrispondenze interne; e nondimeno il lettore, immerso nel «rapido cangiantismo psichico che passa in un momento da una colorazione all’altra, senza tregua, senza punti morti» (Guglielmi), ne esce non solo frastornato, ma intorpidito dalla straripante ridondanza d’effetti ipnotici. Triturata, incenerita, la narrazione implode vanificando sia gli effetti di abile contaminazione linguistica sia le gustose antifrasi ironiche: la protagonista, infelice e maledetta, si chiama Angelica; alla sua amica del cuore conviene l’epiteto epico, Veronica culo-da-favola.
Non dissimile, anche se più gratuito e scombinato, il caso del recente Discocaine di Tatiana Carelli, sorta di cronistoria in diretta delle avventure professionali di una ragazza da discoteca. Il sottotitolo, viaggio nella notte di una cubista, più che a Céline, rimanda al Tadini di Eccetera. Siamo nel mondo rutilante e fasullo dei locali trendy della Bassa padana e la protagonista vive e lavora, sempre in moto convulso, fra piste di coca e sballi musicali. Di sesso parla molto, ma lo pratica poco. Come in Revolver anche qui è la griglia strutturale – quattro settimane calcolate sui giorni intorno al weekend – a contenere il flusso irriflesso di impressioni, allucinazioni, dialoghi spezzettati fra amiche. Discocaine, edito nella «Piccola biblioteca Oscar», rende abbagliante il paradosso di una scrittura stralunata e vorticosa, tesa a scandalizzare il lettore, mentre l’obnubila e ne anestetizza ogni disposizione reattiva: è difficile non solo tenere dietro alle esibizioni notturne della cubista, ma ancor più seguire le acrobazie verbali di una protagonista-narratrice che non sa dove andare a parare. A meno che la risposta non sia racchiusa nello squillo finale del suo cellulare: la comunicazione cade subito, ma dall’altra parte era risuonata la voce della mamma.
Eccoli, il cruccio vero e il desiderio rimosso della nostre cattive ragazze, tutte appartenenti alla generazione del postfemminismo: dietro le loro narrazioni fa capolino l’ombra perversamente amorevole delle madri. Preannunciato da Benzina della Stancanelli e da Brothers and sister della Vinci, sottinteso in vari racconti della Sex Anthology, il fantasma della genitrice è lì che incombe. L’ultimo racconto di mosca più balena della Parrella reca in epigrafe due versi di Patrizia Cavalli, dedicati a «molte madri, nuove madri», e si chiude in una sala parto: ad attendere il neonato è una coppia lesbica.
La conferma viene da un altro romanzo recente, dal titolo azzeccato: Cico c’è, opera prima di Vanessa Ambrosecchio, sempre Einaudi (suo è il racconto Piove nell’antologia di «Stile libero»).
Sullo sfondo di una Venezia ultradecadente, dove l’acqua è simbolo di putredine, viene narrato un caso classico di gravidanza isterica: la protagonista è una diciottenne convinta di essere incinta, pur senza aver mai fatto l’amore. Oltre alle due figure genitoriali, stereotipi perfetti di irresponsabilità familiare – la madre bella e indaffarata, il padre ricercatore universitario ex sessantottino fallito – l’aspirante mamma è affiancata, per non dire avviluppata, da una coppia di donne, il cui destino è segnato dalla sterilità: l’amica Erina s’è fatta chiudere le tube e il suo corpo reagisce perdendo umori e squamandosi; Rachele, la ginecologa, fa partorire le donne, ma per lei nessun concepimento, neanche quello ottenuto per fecondazione artificiale, è possibile. La narrazione procede replicando, con ritmo coattivo, questo nucleo di fisiologia creaturale; le cadenze espressive, ora algide come l’uovo che campeggia in copertina, ora sinuosamente ricercate, rasentano il manierismo, quasi a compensare in eleganza l’insistita materia «ginecologica». Alla fine non resta che il ritornello paranoico «Cico c’è», unica folle certezza di una giovane ragazza a «cui fanno antipatia entrambi, femmine e maschi» e che sul sesso ha poche idee ma confuse.