È una specie di incontro insistentemente mancato, quello tra riforma dell’istruzione e case editrici di testi scolastici. La tendenza ondivaga dei responsabili ministeriali degli ultimi anni, mentre chiedeva strumenti moderni e dedicati, ha sostanzialmente neutralizzato ogni ipotesi di sensata programmazione editoriale. Le riforme affrettate impongono tempi stretti, quelle continuamente annunciate e continuamente rimandate non permettono di organizzare i piani di lavoro e costringono a giocare d’azzardo: nell’uno e nell’altro caso non si aiuta certo l’editoria scolastica a produrre quei testi di più alta qualità che tutti auspicano.
La fretta, ancora una volta la fretta. E, dall’altra parte, i tempi lunghi imposti dalla necessità di tenere conto di tante voci, spesso in disaccordo tra di loro, di mediare, di coordinare il proprio operato con l’andamento politico generale. Questi sono i due elementi che, nell’ultimo decennio, hanno caratterizzato l’azione di tutti i ministri (esclusi quelli «di passaggio») che si occupano di scuola e che fino a tre anni fa venivano ufficialmente e opportunamente chiamati «della Pubblica Istruzione». A partire da D’Onofrio (che di punto in bianco abolì gli esami di riparazione senza riorganizzare davvero il sistema delle valutazioni e delle loro conseguenze curricolari) e indipendentemente dai contenuti specifici di volta in volta proposti, ogni nuovo ministro ha voluto subito sancire il proprio intento riformatore con un atto che lasciasse il segno, che ottenesse risonanza al di fuori dello stretto ambito degli addetti ai lavori, che fosse un’anticipazione consistente e significativa di più ampi e decisivi cambiamenti sul piano della politica scolastica, degli indirizzi culturali per la formazione e la didattica. E stato così con Luigi Berlinguer, che tra i primi atti del suo ministero modificò la scansione cronologica dei programmi di storia in modo che nell’ultimo anno di ogni ciclo si studiasse solo il Novecento: decisione che doveva in modo inequivocabile sia segnalare la presenza di un ministro dinamico sia essere un segno della direzione in cui si sarebbe mosso in un futuro immediato. Poi, i tempi lunghi di cui si è detto, o addirittura lunghissimi (anche per il meritorio intento di fare la riforma sottoponendone le fasi di elaborazione al giudizio del corpo insegnante), e la riforma si arenò, di fatto, ben prima della caduta del governo D’Alema. E così, in tempi più recenti e oggi stesso, con Letizia Moratti, che a sua volta ha adottato la strategia dei due tempi, sia pure con qualche variante: al più presto, a testimoniare un’efficientismo aziendalista sconosciuto a questa tradizione ministeriale, la riforma delle elementari e delle medie, portata avanti da un ristretto gruppo di esperti e senza «consultazioni della base» (l’aziendalismo non ama gli eccessi di democrazia e le perdite di tempo, che anzi non perde occasione di associare come due facce della stessa medaglia); poi la riforma delle superiori, di cui a tutt’oggi si sa poco o nulla, se non un abbozzo dei princìpi pedagogici ispiratori, peraltro molto simili, e in alcuni casi identici anche nella formulazione, rispetto a quelli già approvati per le medie.
Che cosa comporta questo modo di procedere per le case editrici di scolastica, nel lavoro di progettazione e di realizzazione dei libri? In sé e per sé non comporterebbe nulla di eccezionale: il compito (e anche l’interesse) dell’editoria scolastica è proprio quello di pensare a strumenti capaci di interpretare la normativa ministeriale nel modo più realisticamente praticabile dal mondo della scuola così come è in un dato momento; e il fatto che il mondo della scuola cambi continuamente (e anche a prescindere dagli interventi dell’autorità costituita in materia), che cambi a ritmo rapido e che non sia sempre facile percepire i cambiamenti più diffusi nel quadro complessivo nazionale fa parte dei rischi del mestiere. I problemi sorgono quando, prima la fretta ministeriale induce a rendere vigenti le innovazioni pochi mesi dopo averle approvate in via definitiva, e subito dopo i tempi lunghi creano uno stato di incertezza sul seguito della riforma, sui suoi contenuti, sul quando verrà attuata ed entrerà in vigore.
In linea molto generale, dunque, si può dire che tutto ciò comporta una notevole difficoltà di programmazione e, di conseguenza, una sorta di navigazione a vista. Ai due tempi dell’azione ministeriale corrispondono due tempi della «reazione» editoriale. Nel primo si adeguano in tempi stretti, e per quanto è possibile, vecchi testi già in commercio alle nuove indicazioni ministeriali, ai nuovi programmi. Nel secondo si corre comunque un rischio e bisogna anche sperare, oltre che nella propria capacità di valutazione, in un aiuto della fortuna: tra le dichiarazioni ufficiali del ministro (la riforma verrà approvata entro il tale termine), le previsioni ufficiose di chi prende parte ai lavori (ci vorrà un po’ più di tempo perché ci sono discrepanze di vedute) e le informazioni sottobanco (chissà quando sarà pronta perché ci sono contrasti insanabili tra le varie componenti politiche della stessa maggioranza, le elezioni vicine, la paura di perdere consenso) che cosa conviene fare? Che poi, sul piano concreto, vuol dire: avviare i lavori per un libro nuovo, pensato sulla base degli abbozzi di riforma finora resi pubblici (ma se poi le linee della riforma cambiano o se la riforma non entra in vigore per il prossimo anno scolastico?) oppure prevedere semplicemente la ristampa del libro vecchio (ma se poi la riforma passa ed entra in vigore dall’anno prossimo?).
Prendiamo il caso del libro di storia per le medie, tenendo presente che è un’ovvia esigenza editorial-commerciale che i tre volumi di cui si compone il corso siano equilibrati per quanto concerne il numero di pagine. Quando la miniriforma Berlinguer ha fatto rientrare l’Ottocento nel programma del secondo anno di studio, riservando il solo Novecento al terzo, non è stato facile, in pochi mesi, ridurre in modo sensato il volume due e ampliare con criterio l’ultimo: nell’uno come nell’altro caso, infatti, si trattava di cambiare la «scala» dello sguardo storico, cosa ben più impegnativa che tagliare o aggiungere pezzi di testo (operazioni, in ogni caso, delicate e non rapide, soprattutto la seconda). Bene: ora la riforma Moratti della scuola media, approvata nel febbraio 2004 e vigente a partire dall’anno scolastico 2004-2005, prevede che lo studio della storia parta dalla caduta dell’impero romano (preistoria e antichità vengono studiate alle elementari) per arrivare alla fine del secondo anno alla rivoluzione francese, escluso Napoleone, primo argomento da affrontare in terza. Con una operazione puramente meccanica di eliminazioni e spostamenti rispetto alla «edizione Berlinguer» risulterebbe un primo volume striminzito e un terzo ipertrofico, e dunque ancora una volta occorre rifare tutto. Ma è stato un po’ come giocare d’azzardo: chi ha incominciato a lavorare al rifacimento un anno prima che la riforma effettivamente passasse (e quindi non in base a linee certe) ha salvato adozioni e fatturato, chi non l’ha fatto non ha potuto offrire un testo adeguato e ha subito pesanti arretramenti.
Un altro esempio. Il «mercato degli istituti professionali» (cruda espressione gergale) è tra i più «interessanti», cioè proficui, per le materie formative, vale a dire italiano e storia, presenti in tutti gli indirizzi. Non poche case editrici negli ultimi anni hanno indirizzato i loro sforzi in questa direzione, ma ora tale impegno rischia di essere vanificato dall’incertezza delle prospettive. Da un lato, infatti, sono stati preannunciati grandi cambiamenti: tutta la formazione professionale, è stato detto, passerà dallo Stato alle Regioni, con la conseguente possibilità di una omologazione con gli attuali corsi di formazione professionale e la riduzione di italiano e storia a una generica «cultura generale». Dall’altro lato settori influenti anche del mondo economico e produttivo stanno chiedendo che il mondo della scuola non si articoli su due livelli soltanto (licei e formazione professionale), ma che venga mantenuto un livello intermedio. Di sicuro non c’è niente. E allora perché mai una casa editrice dovrebbe avviare i lavori per nuovi testi o per nuove edizioni, con il rischio che nel frattempo si arrivi a una decisione tale da cambiare radicalmente il quadro e da mandare in fumo fior di investimenti?
L’editoria scolastica ha molti difetti, ma ha pure meriti non di poco conto. Dei difetti è inutile parlare perché sono spesso oggetto dell’attenzione e della denuncia da parte anche di giornali e televisione. Per quanto riguarda i meriti vorrei solo ricordare che molte trasformazioni positive sono avvenute nel mondo della scuola per il coraggio di alcune case editrici che hanno proposto libri che trasgredivano i programmi ministeriali vigenti, ma interpretavano le esigenze, avvertite talvolta confusamente, talvolta lucidamente, dagli insegnanti. Una per tutte: testi di letteratura che permettevano di studiare in modo ampio il Novecento, italiano e straniero, quando i programmi ministeriali ancora prevedevano come punte cronologicamente avanzate D’Annunzio e Pirandello.
È giusto chiedere all’editoria scolastica di essere più seria e più scientifica nei contenuti e nelle chiavi interpretative, meno ondivaga e sensibile alle mode momentanee della didattica, se si vuole anche più sfumata e meno meccanica nell’adozione di «ideologie culturali» per non incorrere nelle reprimende dell’attuale ministro e di alcuni esponenti dell’attuale maggioranza di governo: ma è anche necessario porla nelle condizioni di lavorare con serenità con prospettive certe e tempi adeguati a disposizione. E, del resto, neppure il «non-finito» delle riforme scolastiche è esattamente un risultato d’arte.