Giancarlo Fusco e Giuseppe Marcenaro: due esempi eccellenti di autori capaci di collocarsi con naturalezza in quella zona tra giornalismo e narrativa ancora confinata ai margini della letterarietà. Eppure nelle loro opere l’ibridazione tra fiction e non-fiction raggiunge risultati interessanti: in Il gusto di vivere, l’autore recupera dalla cronaca personaggi ed episodi, costruendo dialoghi efficaci e saldando con un abile montaggio grande storia e vicende minime; Genova e le sue storie è invece una particolarissima narrazione topografica, in cui l’aspetto documentaristico per il particolare inedito e curioso sconfina nell’invenzione letteraria e fantastica.
Bene ha fatto Laterza a ristampare gli scritti di Giancarlo Fusco curati nel 1985 da Natalia Aspesi; si tratta di un libro molto interessante che permette di riflettere su alcuni aspetti caratteristici di tanta produzione giornalistica «di qualità» e sul suo statuto ambiguo, ai margini del letterario. Ma il volume offre anche una buona occasione per sollecitare un’analisi critica del lavoro di molti giornalisti professionisti oggi poco letti (Ugo Ojetti, Luigi Barzini Senior e Junior, Virgilio Lilli, Raffaele Calzini, Orio Vergani, Cesco Tomaselli, Mario Appelius, Arnaldo Cipolla, Enrico Emanuelli, Vittorio G. Rossi, Camilla Cederna e tanti altri): una tradizione ancora tutta da studiare e da mettere in rapporto con la storia letteraria. Salterebbe per esempio subito all’occhio la funzione «integrativa» svolta dai racconti di storie vere rispetto alla produzione romanzesca, considerando la sua congenita debolezza almeno fino agli anni cinquanta. Da valutare, poi, anche il rapporto (concorrenziale o sinergico?) fra giornalismo narrativo e letteratura d’intrattenimento: non a caso Fusco fu autore di un bel poliziesco, Duri a Marsiglia (1974).
Il gusto di vivere si presenta come una raccolta di articoli usciti in origine su testate famose («Il Mondo», «L’Europeo», «L’Espresso», «Il Giorno») e in certi casi già raccolti da Fusco in volume. Fra questi pezzi figura Tomislavo senza regno (apre l’antologia) , quarto capitolo di Le rose del ventennio, ora edito da Sellerio ma già pubblicato nella collana «Coralli» (erede della collezione «Narratori contemporanei» di Einaudi) nel 1958. Come dire che il medesimo testo nasce in forma di servizio giornalistico sull’avventura di Aimone di Savoia fantomatico re di Croazia (siamo nel 1941), entra a far parte di una raccolta di racconti di una prestigiosa collana letteraria e quindi è antologizzato come testo d’indole non più letteraria ma giornalistica. E capita così anche ad altri pezzi. Questi passaggi fra fiction e non-fiction sono favoriti dalla particolare configurazione dei testi di Fusco, che raccontano storie vere (spesso autobiografiche) costruite sulla base di accurate inchieste, ma sceneggiate narrativamente con particolare abilità.
Come ogni «grande narratore» (la definizione è di Camilleri), Fusco lavora anzitutto sulla storia e sui personaggi. «Sì. Ora ne ero certo. Ero entrato in una storia da raccontare», «la storia di un romanzesco raggiro politico» (p. 249): quelle che sceglie di scrivere sono tutte vicende «interessanti» e «romanzesche» – l’aggettivo è ricorrente -, adatte cioè a tenere desta l’attenzione del lettore perché curiose e imprevedibili. E il caso della vita di Erminia Bellati, corteggiata invano da D’Annunzio («la Selvaggia») e da Guido da Verona («Mina d’Orvella»), amante del barone Franchetti e finalmente sposa del bagnino Tartarini di Forte dei Marmi. Per trasformare i protagonisti della cronaca in figure icasticamente narrative basta poco, un dettaglio curioso, un atteggiamento ricorrente, una situazione emblematica. A conferire loro evidenza plastica concorrono in modo determinante i dialoghi, molto efficaci, mentre le storie catturano l’attenzione del lettore grazie a un abile montaggio, che nel caso di Morte nella nebbia trasforma il resoconto di un fatto di cronaca nera in un perfetto racconto giallo. Fusco applica queste semplici tecniche a tutti gli articoli che scrive, utilizzando due sole «ricette narrative»; e infatti i suoi pezzi si possono suddividere non in base al genere – cronaca nera o rosa, inchiesta, pezzo di costume, resoconto politico, militare o diplomatico – ma secondo queste due strategie espressive ricorrenti.
I «racconti storici e di costume» proiettano vicende e personaggi su ambienti ben individuati (l’attenzione per il dettaglio eloquente si ritrova ancora) e mettono a fuoco le relazioni interpersonali, descrivendo i rapporti fra pubblico e privato. Una sensibilità sociologica davvero notevole permette a Fusco di individuare circostanze («la patente automobilistica italiana numero uno, rilasciatagli dal Circolo ferroviario di Milano» di cui è orgoglioso il barone Franchetti), persone (Padre Pio, Maria Callas, Edda Ciano, Antonio Delfini), ambienti (il Covo di nord-est di Santa Margherita, la Capannina di Viareggio, il mondo del cinema) e avvenimenti (l’abrogazione delle case chiuse per la legge Merlin, l’istituzione del Regno di Croazia) adatti a rappresentare l’immaginario collettivo e la mentalità diffusa – lo «spirito del tempo» -, «evitando i luoghi comuni e il colore locale» (p. 122). Così, integrando abilmente informazione di prima mano e sceneggiatura narrativa, ecco saldarsi la grande storia con le vicende di modesti personaggi qualunque, in un racconto di notevole efficacia divulgativa.
Meno riusciti sono invece gli articoli del secondo tipo, quelli di taglio aneddotico, che risentono evidentemente della leggendaria abilità di narratore orale di Fusco. Qui i nessi degli individui fra loro e con l’ambiente vengono drasticamente semplificati e il racconto procede come una catena di episodi autonomi, storie esemplari di personaggi curiosi raccontate da uno o più testimoni. Affiora in queste narrazioni concatenate un certo partecipato divertimento dell’autore, non più voce impersonale che lascia intendere il suo giudizio semplicemente menzionando un particolare insignificante (la postura legnosa di Vittorio Emanuele III, il sorriso «da filone» stampato sul volto di Mussolini), ma figura nostalgicamente compiaciuta: «sono più di trent’anni, infatti, che m’interesso, seriamente, di marchettologia, di battonistica e di erotonoleggi» (p. 243).
Nel risvolto di Genova e le sue storie l’autore si definisce «scrittore e giornalista», e in effetti il libro avvalora entrambe le qualifiche: un altro esempio di efficace commistione di genere, di cortocircuito fra differenti domini espressivi. In questo testo raffinato e colto Giuseppe Marcenaro racconta il passato della Superba, ma da una prospettiva particolare: invece di privilegiare lo scorrere del tempo, si concentra sull’immobilità dello spazio. Si tratta di una storia topografica che si esercita su singoli palazzi – nobili e plebei -, botteghe, «carrugi», semplici slarghi e attacchi di salite, tutti luoghi in cui le storie si intrecciano e – a saper ben vedere – lasciano traccia di sé rivelando coincidenze tanto casuali quanto suggestive. Perché all’unità di luogo del discorso corrisponde una grande libertà di movimento delle parole nel tempo: nella camera da letto di Maria Brignole Sale e Raffaele De Ferrari – novelli sposi il 14 gennaio 1728 – Andrea Massena stabilirà il quartier generale dell’esercito francese asserragliato in città (1799), mentre anni dopo la stessa stanza ospiterà il giovane Ugo Foscolo invaghito di Luigia Palla vicini. E la via Balbi – caotica strada fra le più inquinate del mondo – che fu spettacolo memorabile per Miss Harriet Martineau, incantò nel 1833 Stendhal. Per la particolare natura del suo sito, Genova si è sviluppata in altezza, e così la storia sacra e profana della città è sedimentata nelle sue fondamenta, metafora stratigrafica del passato, che Marcenaro interroga nelle cantine di via Santa Brigida e nei sotterranei dell’Acquasola.
Il suo è un gusto attratto dal dettaglio erudito, dalla notizia spigolata dagli storici locali, da curiosità bibliografiche, documenti d’archivio, testi a carattere semiletterario – scritture dell’io che parlano della vita: manoscritti inediti, memorie, diari, lettere, resoconti di viaggio, cronache, appunti e relazioni, articoli giornalistici. Tutti documenti indagati con uno spiccato interesse per il particolare, da raccontare con la massima precisione possibile: il primo ospite del nuovo, strabiliante cimitero di Staglieno – gloria della città – «si chiamava Antonio Procurante: “entrò” il 2 gennaio 1851, sistemato nel campo 1, fila 1, fossa 1. Per tre ore fu l’unico defunto» (p. 103). Emergono così personaggi e storie dimenticate (prete Girolamo Assereto che alla fine del Settecento censisce metodicamente i parrocchiani ordinandoli per professioni lecite e illecite; Sebastiano Saccomanno, collezionista di collezioni; i cinque proprietari del pappagallo Gattagà, vissuto quasi due secoli e sepolto al cimitero come un cristiano) ed episodi poco noti di celebri figure del passato: l’«Arpagone genovese» Raffaele De Ferrari, morto chiuso nella sua cassaforte; Gian Carlo Dinegro, marito della prima fidanzata di Manzoni, Luigia Visconti di San Vito; lord Byron e Mary Shelley che custodisce in un cofanetto il cuore «ingorgato di sangue» (p. 204) del marito; Giorgio Caproni «arrossito di piacere» (p. 133) a sentir declamare una sua poesia.
Dove si ferma il documento, quando la curiosità non può avere risposta, ecco che si apre lo spazio per l’invenzione: il lettore passa inavvertitamente dalla non-fiction alla fiction, dalla cronaca al racconto, dall’informazione alla suggestiva descrizione d’ambiente, di paesaggio, d’atmosfera. Perché Marcenaro accompagna efficacemente alla puntigliosità del ricercatore d’archivio (e alla voracità dell’ascoltatore un po’ pettegolo) la «dilatazione della fantasia» (p. 24), il gusto per la rievocazione letteraria, che arriva a immaginare e raccontare ciò che sarebbe potuto accadere, come l’incontro fra Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e Paul Valéry, «nella casa di salita San Francesco di Castelletto dove i Cabella si erano trasferiti verso il 1890, dopo aver lasciato l’appartamento della zona di San Luca, nel centro antico della città» (p. 62).
La struttura del libro risente di questa doppia attitudine, puntigliosa e divagante: si apre e si chiude con un preciso itinerario suggerito al turista in arrivo e poi in partenza dalla stazione di Principe, ma si articola secondo un principio di «digressione arbitraria» (p. 23), per «esclusivo piacere di divagazione» (p. 58). All’interno i singoli capitoli sono in parte interscambiabili e in parte collegati in un ordine topografico o tematico, secondo un principio di varietà: biografie, aneddoti, episodi narrativi, descrizioni e riflessioni costituiscono le tavole della geografia storica e insieme fantastica disegnata dal viaggiatore sedentario che racconta.
Il punto è che Marcenaro manifesta un rapporto ambivalente con Genova, città sinceramente amata – lo si capisce a ogni pagina – ma anche criticata con durezza: stigmatizza il conservatorismo del cardinale Giuseppe Siri, non tace le connivenze delle gerarchie cattoliche con il nazismo («Una cosa è certa: tra il 1949 e il 1951 l’antica e orgogliosa Repubblica di Genova è snodo salvifico per i nazisti in fuga», p. 27), liquida con un’immagine eloquente secoli del vantato governo oligarchico con sede in Palazzo Ducale: «Il palazzo fu il riflesso opaco dei Magnifici, come si autocelebravano i suoi avventizi inquilini. I traslochi che cadenzarono la storia ufficiale di quelle mura furono centoquarantuno. Altrettanti i dogi, senza storia» (p. 170).
Così, da tanti luoghi, personaggi e storie emerge in definitiva un ritratto antropologico crudo, il carattere della città è dipinto tutto in negativo – come se Marcenaro amasse Genova ma non i suoi abitanti. I genovesi sono presuntuosi e familisti (e perciò ossessivi), orgogliosi ed egocentrici (si ritengono il centro del mondo), maldicenti, immobilisti (non nostalgici) e perbenisti. Ma anche intelligenti e un po’ perfidi.