Non c’era bisogno di un intellettuale orgoglioso e «scomodo», insomma uno come Giampaolo Pansa, per scrivere Il sangue dei vinti. Presentato come un atto di onestà intellettuale e un esempio di revisionismo «sereno», in realtà il libro-inchiesta dedicato ai delitti compiuti dagli antifascisti alla fine della seconda guerra mondiale non convince a causa di una costitutiva fragilità strutturale. Non basta la cornice investigativa a rendere accattivante un testo che, forse proprio per l’esibito punto di vista non giudicante, risulta infine monocorde. E il Pansa migliore rimane l’editorialista dalla battuta folgorante e icastica che è possibile apprezzare nelle misure brevi dei pezzi di Bestiario d’Italia. 1994-2004.
Un revisionismo «sereno», contrapposto al revisionismo fremebondo della pubblicistica di destra che brandisce l’arma della storia per infiacchire gli avversari, ma anche all’antifascismo corrucciato di chi, sentendosi sotto assedio, rifiuta di riesaminare i fatti per come realmente si sono succeduti. Semplificando al massimo, si potrebbe sintetizzare così lo spirito che ha guidato Giampaolo Pansa nell’indagine condotta nel libro-inchiesta Il sangue dei vinti, sui fascisti giustiziati dai partigiani e dagli antifascisti dell’ultima ora nell’Italia del Nord dopo il 25 aprile 1945. Egli stesso nella prefazione Al lettore spiega: «Il mio intento era di costruire un libro sereno. E di contribuire a spalancare una porta rimasta sbarrata per quasi sessant’anni».
La rivendicazione di originalità è, a dire il vero, spropositata, in quanto trascura quello che le molteplici fonti librarie citate a ogni piè sospinto lasciano invece affiorare, e cioè che i conti con il passato sono avviati da tempo e sull’argomento si sono spesi fiumi di parole nell’una e nell’altra parte della barricata. Nondimeno, essa ha il merito di prendere le distanze da quel progressismo di convenienza che, «per opportunismo partitico o per faziosità ideologica», s’ostina a rimuovere una parte della verità, sottovalutando il carattere di massa che il fascismo conservò anche dopo la sua sconfitta e, ancor più, chiudendo gli occhi su un imbarazzante dato di fatto: ovvero che il ritorno alla libertà in Italia «ha visto un’alba coperta di sangue», macchiata dai numerosi atti di sadismo eccitati dall’ansia vendicativa e, insieme, dalla scriteriata persuasione che anche nel nostro paese, come in altre regioni dell’Europa, fosse imminente l’ora della rivoluzione proletaria.
A scanso di equivoci, l’autore si affretta tuttavia a precisare entro quali confini s’estende il suo riesame critico: «Quando mi viene chiesto perché, dopo aver scritto tanto sulla Resistenza e sui partigiani, mi sono deciso a occuparmi dei fascisti sconfitti, ho pronta più di una spiegazione. Ma forse la spinta vera mi è venuta da molto lontano: dal me bambino che voleva vedere i processi ai neri. Senza rendermene conto, scoprii allora che c’erano pure loro, esseri umani come tutti, nel bene e nel male, anche se avevano scelto di combattere per una causa che, ancora oggi, giudico sbagliata».
Una causa sbagliata. Nessuna confusione di valori, insomma: l’autore si dichiara bensì disposto a elargire un pensiero pietoso a coloro che sono morti militando «dall’altra parte» e, ancor più radicalmente, a domandarsi «se aveva un senso uccidere tante persone a guerra finita» lasciandosi alle spalle «una scia di odio e di rancori che, dopo quasi sessant’anni, non si è ancora cancellata». Ma il suo processo di ripensamento non intende affatto mettere in discussione le ragioni della lotta antifascista; al contrario, si prefigge di fortificarne il significato storico e l’importanza dell’esempio morale affrancandola da ogni residua ambiguità. Il carattere «sereno» del revisionismo di Pansa discende da qui: dalla convinzione che la bontà della causa antifascista ha tutto da guadagnare da un atto di onestà intellettuale che riconosca gli errori commessi.
D’altro lato, Pansa ostenta un’orgogliosa indifferenza per la «tempesta di critiche» che s’attende dai propri destinatari elettivi, più prossimi per propensione ideale. «L’accuseranno di rivalutare i fascisti, come vittime di tante vendette difficili da giustificare» fa dire alla bibliotecaria fiorentina Livia Bianchi che nella finzione narrativa lo aiuta nella ricerca. «Le rinfacceranno il suo scarso senso dell’opportunità, perché fa il gioco degli altri, della destra che oggi è al potere in Italia». La replica è perentoria: «Posso fare, per una volta, l’uomo sicuro di sé? Bene: me ne infischio!».
La medesima rivendicazione di indipendenza intellettuale riappare nell’introduzione a Bestiario d’Italia. 1994-2004, in cui Pansa ha raccolto alcuni dei testi apparsi nella fortunata e battagliera rubrica nata nel novembre 1987 sulle pagine del settimanale «Panorama», allora diretto da Claudio Rinaldi, e traslocata sull’«Espresso» dopo l’assalto berlusconiano alla Mondadori. «Ho fatto quasi sempre il contrario di quello che immaginavo mi chiedessero i tranquillisti» afferma il popolare editorialista. E spiega: «Esiste una quota del pubblico dei giornali che ama essere rassicurata, coccolata e accudita dalla testata e dalle firme che legge… Questo lettore non desidera che gli vengano presentati dei dubbi capaci di incrinare qualche certezza… vive dentro un personale salottino ideologico, ben ordinato e tenuto con cura… E guai a chi osa gettare un po’ di scompiglio in questo sistema perfetto».
Nell’inchiesta sugli eccidi perpetrati dopo il 25 aprile così come nella disamina delle «bestialità» della cronaca politica l’autore tende, insomma, a riproporre quella mitologia eroica di un giornalismo scomodo votato alla ricerca e alla testimonianza della verità, costi quel che costi: lo sdegno dei lettori scandalizzati o l’ira dei capi di partito colti in fallo e, secondo le premesse del «Bestiario», maltrattati senza troppi complimenti, varranno come attestazioni d’indipendenza, analogamente alle ferite che per il guerriero sono attestazioni di coraggio.
Ma, oltre che sullo sfondo di questi proclami d’intenti, Il sangue dei vinti deve essere inquadrato anche su quello del vasto affresco storico che Pansa ha cominciato a tracciare nel 1994 con Ma l’amore no, e che è andato proseguendo in una serie di volumi nei quali la ricostruzione documentaria s’affianca alla memorialistica autobiografica e all’invenzione romanzesca. Ne deriva uno sforzo analitico che passa al vaglio della critica revisionistica i maggiori momenti nodali del Novecento in Italia: il biennio rosso del 1919-1920 e l’avvento del fascismo in Lomellina (Le notti dei fuochi, 2001), la seconda guerra mondiale e la Resistenza (Ma l’amore no\ Il bambino che guardava le donne, 1999; 1 figli dell’aquila, 2002), lo scontro tra la De di De Gasperi e il Fronte Popolare nel 1948 (Siamo stati così felici, 1995), gli anni del terrorismo rosso (Ti condurrò fuori dalla notte, 1998), il ciclone di Mani Pulite (La bambina dalle mani sporche, 1997).
In questo filone storico-romanzesco della produzione di Pansa, la seconda guerra mondiale e la «guerra civile» del 1943 – 1945 ricoprono una centralità tematica che risalta a colpo d’occhio, anche sotto il profilo quantitativo. La ragione va individuata nell’importanza genealogica che il giornalista continua ad attribuire alla Resistenza nella storia della libertà e della Repubblica in Italia. Nel suo revisionismo «sereno» riecheggia in qualche modo la grande tradizione unitaria del pensiero politico piemontese, riconsiderata tuttavia con gli occhi disincantati di chi ha assistito, giorno dopo giorno, al reiterato spettacolo del dissipamento di energie, denari, valori, speranze. Il Pansa cronista perspicace e sarcastico, che ha messo a nudo le malefatte del potere in centinaia di articoli, nonché in libri di severa denuncia (Lo sfascio, Il malloppo, L’intrigo, Il regime, Hanno dei barbari), non può coltivare nessuna speranza illusoria: sa fin troppo bene che, come non ha saputo tener fede alle promesse del Risorgimento, allo stesso modo l’Italia non ha tenuto fede a quelle della Resistenza, perdendo una doppia opportunità per trasformarsi in una nazione moderna, degna di questo nome.
Sul piano compositivo Il sangue dei vinti si presenta con i tratti di una lunga inchiesta giornalistica proiettata nel passato. Nella sostanza, il testo si costituisce come un elenco di documenti, schede, cronache che l’autore ordina in base al criterio più semplice, quello geografico: partendo da Milano («di fatto, la capitale politica della Repubblica Sociale» ma anche sede dei «centri di comando della Resistenza nell’Italia occupata»), sono rievocati i delitti compiuti dagli antifascisti a guerra finita nei grandi e piccoli comuni del Nord, con un prologo consacrato ai «big del fascismo» (Mussolini, Roberto Farinacci, Achille Starace) e un epilogo riservato alle donne arruolate nel Servizio ausiliario femminile della Repubblica Sociale.
L’organizzazione del discorso procede in maniera additi va, nella completa noncuranza degli effetti di climax logico-narrativo: il resoconto di un episodio criminoso succede a un altro appena variato nello spazio, nei tempi e nei modi, mentre una folla di gente ignota si affaccia provvisoriamente sulla pagina assurgendo di rado alla dimensione di un pur minimo ritratto storico con qualche efficacia impressiva. Nella stragrande maggioranza dei casi siamo messi di fronte a puri nomi destinati a ricadere nelle tenebre del dimenticatoio poche battute dopo la loro epifania.
A riscattare la monotonia di quello che altrimenti si ridurrebbe a poco più che un inventario di azioni sciagurate è deputata la finzione narrativa che, come si è accennato, attribuisce il compito di mediare gli eventi al dialogo tra i due spregiudicati investigatori. La trovata è, però, fin troppo elementare: in sostanza, l’autore finge che i due personaggi (il suo alter ego e la già ricordata funzionarla della Biblioteca nazionale di Firenze), entrambi colti e informati, confrontino e integrino i materiali documentari che hanno reperito ciascuno per proprio conto e che andranno a formare il libro che abbiamo tra le mani, nella speranza di coinvolgere il lettore nell’intrigante magma di un work in progress.
Più interessante è osservare che, per questa via, Il sangue dei vinti si propone anche come exemplum di conversazione civile che vuole bandire i toni rissosi della disputa ideologica che occupa giornali e talk show televisivi. Certo, i due interlocutori si guardano bene dal censurare il proprio disagio di fronte all’accanimento sadico e agli eccessi della furia vendicativa, ma non per questo se ne lasciano sopraffare. In sintonia con l’intento «sereno» dell’opera, il linguaggio da loro adottato è quello logico-argomentativo di due persone avide prima d’ogni altra cosa di studiare e comprendere, e quindi ben disposte a scambiarsi domande e supposizioni, demandando ad altri l’incombenza di giudicare «il giusto, il poco, il troppo».
Coerentemente con questi presupposti, abbondano le clausole dubbiose proprie del fare investigativo e, per di più, di un fare che ha rinunciato in partenza a ogni conclusione interpretativa («impossibile per un solo autore ricostruire quanto avvenne in quei lunghi mesi feroci»): «Ma chi può dire con certezza che cosa avvenne in quelle ore?», «Ma è possibile che sia andata così?» «Non lo so», «E una cifra da prendere per buona?», «Nessuno sa dove vennero portati. L’unico dato certo è che tutti e tre furono uccisi, non si conosce se lo stesso giorno o in date diverse», «Non conosco la data di queste esecuzioni, ma a Torino la resa dei conti si protrasse per tutto il mese di maggio».
Benché apprezzabile per la sua utilità pedagogica, questo british style è tuttavia il meno acconcio a dare una sferzata a un testo che, sotto il profilo letterario, non riesce obiettivamente a prendere quota a causa della sua ripetitività strutturale: letto un capitolo, si sono letti praticamente tutti. Il Pansa migliore rimane l’editorialista che reagisce alle sollecitazioni della cronaca politica dicendo pane al pane e vino al vino, e sapendo trovare l’espressione folgorante in grado di fissare icasticamente il vizio nell’operato di questo o quell’altro boss del sistema dei partiti, appartenga allo schieramento avversario o a quello amico.
Anche sotto il profilo linguistico i testi raccolti in Bestiario d’Italia. 1994-2004 sono quelli che suscitano il maggiore interesse. Certo, non di rado l’autore si lascia prendere la mano, e la doppia linea polemica che percorre il libro, dedito a «dar cornate al Berlusca» e ad affondare il coltello nelle «piaghe dell’Ulivo», scade allora in una tracotanza che trascende i limiti del codice retorico che contraddistingue la rubrica, aggressiva per scelta editoriale. Ma, nei casi migliori, l’istinto pugnace si traduce in una scrittura espressivamente esuberante, modulata sulle forme di un parlato estroso, e copiosa di invenzioni lessicali e accostamenti imprevedibili.
La titolazione dei capitoli offre già da sola un gustoso campionario di analogie, calembour, doppi sensi, allusioni, citazioni ironiche: La pipì di Fini, Rischio frigorifero, Lo zoo di Giuliano, Stranamore e il mattatoio, Il Bacchettone Sadico, La ricreazione è finita, La ribollita del cappellano, Lo stakanovista è stanco, Il morbo della Lingua Pazza, Cercasi dentiera, Il guerriero riluttante.
Ma è nella disinvolta e irriguardosa attribuzione di epiteti e soprannomi che la creatività linguistica di Pansa si sbizzarrisce conseguendo gli effetti più gustosi: Mandrake (Silvio Berlusconi, «un illusionista specializzato in miracoli»), il Parroco («don Romano Prodi da Bologna»), Walter il Dolce (Veltroni, «l’uomo pesca-pesca, tenero di fuori e di dentro»), Lasagne (Gianfranco Fini), Umberto il Barbaro (Bossi), Dalemoni (Massimo D’Alema), il Super-Topo (Giuliano Amato), il Parolaio Rosso (Fausto Bertinotti), il Maligno Ridens (Oliviero Diliberto), Diego il Sindaco Santo (Novelli), Cicciopotamo (Giuliano Ferrara), la Balia Baffuta (Maurizio Costanzo).
E poi tutto uno scoppiettare di derivazioni neologistiche («gli stakanovisti del voto non stakanovano più»), metafore gastronomiche («la cucina del centro-sinistra non ha saputo creare nessun piatto diverso», riferito alla leadership di Prodi), quasi paronomasie («Lasciò il partito, Torino e la vita del monaco frustante e frustrato»), allitterazioni («Lucia [Annunziata] mi mandò a spazzare il mare con una smorfietta sorridente che significava: “Mi prendi per scema?”»), iperboli sarcastiche («Neppure il famoso Bignami avrebbe saputo ridurre in pillole le 88 tesi dell’Ulivo»). Insomma, una prosa efficacemente espressionistica, nonché politically incorrect, che è l’esatto opposto della timorosa uniformità denotativo-referenziale di Il sangue dei vinti.