La nuova forma di consumo culturale dell’estate appena trascorsa? Il festival di letteratura. E su questo terreno Roma batte decisamente Milano: reading, incontri con gli autori, piccoli convegni, la rassegna «Librincampo», mostre, ricerche (sponsorizzate dalla giunta capitanata da Veltroni e dalla Casa delle Letterature). Una rivincita anche in termini di percentuali. Milano continua a essere la «capitale dell’editoria», ma a Roma cresce il numero di quanti sono sempre più disposti a investire il proprio tempo e denaro nella lettura.
La sera del 5 giugno 2003, una delle prime di un’estate torrida, chi era a Roma alla Basilica di Massenzio ha assistito in diretta a un fenomeno che fino a poche stagioni fa sarebbe stato inimmaginabile: uno scrittore accolto da un pubblico di più di cinquemila persone, la cifra presumibile è sei-settemila, come se fosse una popstar. Strapiena la Basilica, con gente seduta dappertutto anche sulla ghiaia, e oltre i cancelli, giù per il clivo, masse pazientemente in attesa fino a oltre il Colosseo. Ora, quando diciamo il nome dello scrittore, è facile che qualcuno pensi «bella forza»: perché il nome è Daniel Pennac. Cioè un romanziere di culto, amato dagli under venti, uno che ha saputo usare la pagina come un grimaldello per arrivare anche al cuore dei più tetragoni. E che quella sera avrebbe saputo entrare in sintonia con il giovane lettore che dal fondo oscuro della platea gridava al palco sotto la volta dorata della Basilica : «Pennà, parla forte, che fuori al Colosseo ce stanno gli amici miei che nun te sentono». Ma l’effetto Pennac è stato solo quantitativamente, non qualitativamente, diverso da quello che nelle altre dieci serate del Festival Letterature avevano, o avrebbero, prodotto narratori severi come Doris Lessing o Don DeLillo.
Il festival di letteratura con le sue varianti – il reading, l’incontro con l’autore, ex cathedra se fatto il suo intervento questi saluta e se ne va, democratico se interloquisce con il pubblico – è una delle nuove forme estive di consumo culturale. La cui vera novità (o almeno una «delle» novità) consiste nei luoghi in cui esso è ospitato: Mantova, Milano, Roma. In città, e in periodi, primo inizio d’estate come settembre, in cui le città sono vive e operative. Dunque, il pubblico è potenzialmente più eterogeneo, per ceto come per disposizione interiore, di quello di altre rassegne tradizionali. Mettiamo il pubblico della Versiliana: vacanziero, ricco, disposto a una serata impegnata ma con juicio, la cui prima garanzia dev’essere la «digeribilità».
Però, se del Festival di Roma vogliamo capire l’anima e sviscerare il successo (in seconda edizione nel 2003 più di 40 000 spettatori per undici serate con sedici scrittori) dobbiamo allargare il contesto. Vederlo, cioè, come un tassello del singolare mosaico che nella capitale si va componendo negli ultimi anni – cioè negli anni delle giunte Rutelli e Veltroni – sul tema «letteratura». Parola che conduce ad altri link: editoria, cultura, spettacolarizzazione della cultura. (E, aggiungiamo, gratuità: perché uno dei tratti dell’amministrazione Veltroni in particolare, è l’offerta di eventi gratuiti, sia il Don Giovanni a piazza del Popolo come le serate letterarie a Massenzio. Circenses di buona qualità, per capirci.)
Gli altri tasselli sono: nascita a maggio 2000 della Casa delle Letterature vicino a piazza Navona, in quella che era la biblioteca dell’Orologio; nell’inverno 2002 primo Salone della piccola e media editoria al palazzo delle Esposizioni; apertura della sala della Protomoteca in Campidoglio per festeggiare scrittori come Ian McEwan o Abraham B. Yehoshua di passaggio a Roma; debutto di nuove librerie in contesti simil-istituzionali, come quella nel Parco della Musica; potenziamento delle biblioteche comunali; incentivi finanziari a chi apre librerie in periferia. Abbiamo mescolato, in questo elenco, ciò che è frutto dell’iniziativa pubblica in senso stretto, con realtà, come quella del Salone dell’editoria all’EUR, nate sulla spinta dei privati (l’Aie) e con l’appoggio delle istituzioni. E l’effimero con il permanente. Nello stesso modo spurio, aggiungiamo un’altra manciata di tasselli: la rassegna «Librincampo» che nell’estate 2003 in un mese ha convogliato 400 000 spettatori, due premi letterari, il Sandro Onofri al reportage narrativo e il premio decretato dai lettori delle biblioteche comunali. E, perché no, la presenza nella capitale di un drappello di critici letterari sui quarant’anni (dobbiamo chiamarli «giovani critici»?) – Colasanti, Cortellessa, La Porta, Manica, Massimo Onofri – eterogenei per formazione, ma accomunati da un tratto che possiamo chiamare «militanza retrospettiva», la rilettura cioè di scrittori vivi o da poco morti, purché outsider, come Parise o La Capria.
Abbiamo detto tutto, per dare il quadro di una città in cui la letteratura gioca un ruolo inedito? No. Ci si sarà accorti che nell’affresco non compaiono realtà sessantennali come il premio Strega. E questo è voluto, perché sono realtà residuali. Ma manca qualcos’altro di essenziale: gli scrittori e gli editori. Parlare di loro significa porsi una domanda fondamentale: quella che abbiamo di fronte è una nuova forma di consumismo, magari augurabile e garbato, oppure a Roma tira, per la scrittura che nasce dall’immaginazione, un’aria buona, creativa? Insomma: a Roma, dopo tre decenni di morte civile dello scrittore, sta rinascendo un clima come quello degli anni cinquanta, sessanta e primi settanta, dei Moravia e i Bassani? Oppure questa, del Duemila, è tutta un’altra storia?
Ci arriviamo. Prima ascoltiamo Gianni Borgna, da dieci anni assessore capitolino alla Cultura, cioè assessore sia con le giunte Rutelli sia con la giunta Veltroni. Borgna spiega che quella Roma dei cinquanta e i sessanta se la ricorda: da ragazzino per mano alla madre andava a prendere la cioccolata al caffè Aragno, nella cui terza saletta si riuniva uno di quei cenacoli. Gli altri cenacoli erano ai due bar di piazza del Popolo e al baretto del Babuino, nelle trattorie di via della Croce e via dell’Oca, mentre l’icona di Vincenzo Cardarelli in cappotto estate e inverno si stagliava a via Veneto. Da assessore però, chiarisce, non si è ispirato affatto a questa memoria infantile. Che coincide, d’altronde, con un’oleografia collettiva di quei beati anni. «Quelli erano gruppi, clan, cenacoli di scrittori, che oggi non esistono più. Ma è anche vero che a quell’epoca dei lettori non si sapeva niente: chi leggeva era un pubblico anonimo che non veniva sondato attraverso le indagini di mercato. Ed era un pubblico che aveva scarsa confidenza con l’apparenza fisica degli autori: i mass media erano pochi, io da ragazzo leggevo Montale, ma mica sapevo che faccia avesse», osserva. La sua politica, dunque (che, sottolinea, è stata abilissimamente supportata da Maria Ida Gaeta, direttrice della Casa delle Letterature), nasce da tre osservazioni: in anni in cui il tradizionale e nazionale mezzo di informazione, la televisione, diventa sempre più trash, c’è spazio, nei Comuni, per eventi culturali di peso; il pubblico metropolitano oggi è sempre più predisposto allo svago colto; i media ci hanno abituato all’incontro «ravvicinato» con l’artista che amiamo, e allora l’incontro può diventare vero, fisico, in luoghi che rimediano alla nuova solitudine di chi scrive e di chi legge.
Aggiungiamo noi che dagli anni novanta si affaccia il nuovo bacino di utenti: quello creato dalla scolarizzazione di massa. E che il tratto dei nuovi eventi culturali è, rispetto a quelli d’antan, mettiamo i leggendari «Martedì dell’Eliseo», di essere di massa appunto e non di élite, e spettacolari (anche se con garbo).
Ma bisogna poi parlare dei personaggi che fin qui sono entrati in scena solo come merce: gli scrittori. L’aria nuova che si respira a Roma ha qualche nesso con la loro creatività? Francesca Sanvitale, classe 1928, milanese e romana d’adozione, giudica: «E assolutamente positiva l’attività di nuove istituzioni come il Festival o la Casa delle Letterature. La Casa, in particolare, produce mostre, piccoli convegni, ricerca a ritmo continuo. Il Comune, insomma, fa benissimo il suo lavoro. Ma quello che manca a Roma è un quid più bizzarro, la società vera di chi scrive. Il “salotto” è stato in altri anni un’invenzione milanese: io mi ricordo il dileggio con cui si parlava di quei “salotti romani” che, in realtà, non esistevano. Sono pochi gli scrittori che hanno tempo e concentrazione da perdere nella vita mondana. Moravia andava a letto alle undici. Ma c’era un ambiente in cui si discuteva, la polemica era viva, le riviste facevano vero dibattito culturale. Oggi questo non c’è più. Perché siamo divorati dal “fare” e non c’è più tempo. Personalmente comunico più per telefono con colleghi e amici che vivono in altre città, che con quelli che abitano a Roma come me e che non saprei quando incontrare. Dietro il palcoscenico, io vedo grandi solitudini».
Fulvio Abbate, classe 1956, autore di Zeromaggio a Palermo, palermitano trapiantato a Monteverde, rispolvera un classico del Situazionismo, Della miseria del mondo studentesco, uno dei testi che prepararono il Sessantotto francese, per etichettare come «conformismo di sinistra» quello che spinge migliaia di persone ad ascoltare a Roma una sera di giugno David Grossman che legge un suo testo in ebraico. «Ricordo come un’esperienza esistenziale importante, anarchica, il Festival dei Poeti di Castelporziano negli anni settanta. Il Festival delle Letterature comporta un terribile rischio: trasformare in divo anche lo scrittore. Non vedo, in giro, esperienze che favoriscano la nascita di nuove sensibilità», giudica.
Pure, per misurare la lungimiranza di quanto di nuovo, a Roma, si organizza in campo letterario, c’è un altro criterio. Crescono gli editori? E soprattutto: crescono i lettori? Giuliano Vigini, patron dell’Editrice La Bibliografica, snocciola questi dati: a Roma città nel 2003 erano censiti 688 editori, a Milano 710; a Roma si stampa l’11 % dei titoli complessivi, a Milano il 45,8%; Roma assorbe il 13-14% delle vendite nazionali, Milano il 15-16%. Questo significa che l’editoria della capitale è in crescita maggiore, in rapporto agli anni precedenti, di quella milanese. Che a Milano restano i «grossi» ma è a Roma che fioriscono i medio-piccoli. E che Roma, in termini di acquisti in libreria, è cresciuta di un paio di punti in percentuale negli ultimi anni e tallona da vicino Milano. Anche se Milano, «capitale dell’editoria», continua a giocarsi i suoi due tradizionali atout: il bacino di lettori del Canton Ticino, e la presenza in città dei maggiori industriali del ramo.
Rincorse tra le due «capitali» a parte, questo cosa significa? Che nella città di Massenzio cresce il numero degli individui che entrano in libreria e scelgono un titolo. Sia il Festival, sia il Campidoglio, sia tutt’altro, qualcosa spinge qualche romano in più ad aprire il «suo» romanzo, il «suo» saggio, fosse pure il «suo» manuale di giardinaggio, e a immergersi nella più intima e dialogante delle attività. A leggere.