Dopo qualche esperimento in altre direzioni, l’insegnamento dell’italiano sembra unanimemente ritornato a un’impostazione rigorosamente normativa. Dna scelta certamente dovuta a ragioni di carattere didattico, ma anche alla responsabilità avvertita dai docenti di arginare la tendenza sempre più diffusa a esprimersi male. È difficile però destreggiarsi tra il reale livello di competenza linguistica degli studenti, le metodologie meno tradizionali, la necessità di non ignorare le nuove situazioni comunicative e di adeguarsi a indicazioni ministeriali ora preriformistiche, ora controriformistiche.
I libri di testo, si sa, al tempo stesso riflettono e promuovono i modi più diffusi di insegnare una materia. Un esame dei prodotti di editoria scolastica relativi allo studio dell’italiano (almeno di quelli che occupano la parte alta della classifica delle adozioni) rivela una sostanziale uniformità di impostazione e, di conseguenza, permette di ipotizzare che da qualche tempo si sia definita una prassi didattica prevalente diffusa su tutto il territorio nazionale. Prassi didattica, peraltro, che appare non priva di qualche, se non proprio incoerenza, almeno confusione: dato, tuttavia, che non stupisce più che tanto, se si tiene conto che i docenti devono trovare nel loro lavoro concreto il punto di equilibrio fra il reale livello di competenza linguistica già acquisita dagli studenti, le metodologie di approccio meno tradizionali ormai affermate nell’ambito degli studi linguistici, la necessità di non ignorare le nuove situazioni comunicative proprie della società odierna e di adeguarsi, almeno in una certa misura, a indicazioni ministeriali ora preriformistiche, ora controriformistiche, che da anni si susseguono in modo convulso, talvolta caotico, quasi sempre velleitario. Per non parlare di programmi elettorali, poi divenuti di governo, per la scuola basati sulla proclamata centralità di tre «I», nessuna delle quali però corrispondente a «Italiano»: e l’assenza della «quarta I», omissione intenzionale o esito di lapsus involontario, assume in ogni caso un significato poco incoraggiante che non aiuta a illuminare la situazione.
Strumento principe per una «riflessione sulla lingua» (come ormai si usa dire nei documenti ministeriali) è il libro di grammatica, in adozione alle medie inferiori e al biennio delle superiori. La grammatica ha superato il momento difficile vissuto negli anni settanta e in parte degli ottanta, quando un numero non trascurabile di docenti pensava di poter fare a meno di una morfosintassi sistematica: la presa d’atto di una estraneità degli studenti rispetto a livelli appena un po’ evoluti dell’uso linguistico ha determinato un ricorso di nuovo quasi unanime all’aiuto di questo strumento. Gli anni difficili per le grammatiche erano stati stranamente caratterizzati da coraggiosi tentativi da parte di autori e editori di proporre testi che prescindessero dallo schema classico della grammatica rigidamente normativa, fino a immettere sul mercato opere di impianto strutturalistico-saussuriano. Questi esperimenti non hanno avuto un seguito durevole e, nell’attuale panorama editoriale dominato dalle morfosintassi normative di impianto tradizionale, l’attenzione agli aspetti sociali, psicologici, strutturali e così via della lingua è presente in modo laterale e non incide sull’impostazione di fondo.
I motivi di questo «ritorno all’ordine» morfosintattico sono numerosi e non tutti facilmente individuabili. Uno, però, è indiscutibile per la sua concretezza pragmatica ed è costituito dalla necessità di fornire agli studenti «categorie linguistiche» facilmente trasferibili nell’apprendimento delle lingue straniere: per i livelli di competenza linguistica che l’insegnante di inglese, francese o tedesco si propone realisticamente di far acquisire a scuola, parlare di sostantivi, aggettivi o pronomi relativi è più economico e produttivo che parlare di espansione della frase minima o di sostituenti, e spesso i colleghi di lingue straniere chiedono a quello di italiano di fornire una base «teorica» in linea con le loro esigenze didattiche. Una spia di questo stato di cose è la presenza nelle grammatiche di schede di comparazione fra l’italiano e le altre principali lingue europee, con in testa ovviamente l’inglese.
Ma un libro scolastico di grammatica oggi non si limita alla morfosintassi e un ampio spazio, coincidente quasi sempre con un tomo distinto, viene dedicato ai testi: che cosa si deve intendere per testo, quali sono i principali tipi di testo e le caratteristiche di ciascun tipo, quali le strategie di lettura e di composizione in rapporto al tipo. Una grammatica che non comprenda una consistente parte sui testi oggi rischia di non ottenere risultati lusinghieri sul piano delle adozioni, né alla media inferiore né al biennio. Ci sono almeno due motivi di carattere didattico alla base di questa richiesta da parte dei docenti. Il primo nasce dalla consapevolezza ormai ineludibile che insegnare a fare i temi è cosa ben diversa dall’insegnare a scrivere. Il tema esiste solo a scuola e, sempre meno, ai concorsi pubblici: è un tipo di scritto che nella realtà non capita né di leggere né di dover produrre e limitarsi a insegnare a scrivere temi significa sancire una distanza fra la scuola e il mondo. Il secondo motivo è di carattere più pratico, ma è legato al primo: poiché, partendo da queste stesse considerazioni, anche il nuovo esame di Stato non fa più coincidere lo scritto di italiano con il tema, gli insegnanti avvertono la responsabilità di preparare per tempo gli studenti a produrre anche gli altri tipi di scritto previsti.
Si tratta indubbiamente di una apertura positiva, operata prima spontaneamente da docenti, autori di testi scolastici e editori, e poi istituzionalizzata dall’autorità ministeriale. Risulta però difficile capire perché le trattazioni teoriche sui testi debbano essere da un lato così ampie e minuziosamente classificatorie da risultare quanto mai pesanti, dall’altro quasi sempre puramente prescrittive, con l’indicazione di compiere in sequenza operazioni logico-linguistiche che costituiscono appunto ciò che lo studente non sa ancora fare. Vediamo, a titolo di esempio, come in linea di massima si tratta il riassunto. La parte teorica insiste sul fatto che consiste in un testo che deve essere più breve di quello di partenza, ma che deve mantenerne le informazioni cardine, che deve sostituire con termini generici ma sintetici le parti analitiche e così via. Segue la parte prescrittiva: individuare i concetti essenziali, esprimerli in modo sintetico e collegarli con un adeguato ricorso ai connettivi. Si riporta poi il testo di un racconto brevissimo e se ne propone un riassunto come esempio-campione. Ora, caro studente, tocca a te. Ma chi ha esperienza di insegnamento sa quanto tempo e lavoro occorre perché gli studenti imparino a individuare i concetti essenziali, a porli in relazione e a esprimere linguisticamente le relazioni. E poi, se il testo da riassumere non è un racconto? Vale ancora lo stesso esempio-campione? Insegnare adeguatamente in un ristretto numero di pagine a prendere appunti, stendere relazioni e riassunti, scrivere testi informativi e argomentativi, elaborare commenti a testi letterari, saggi brevi e quant’altro non è certo facile e probabilmente non è possibile; ma allora viene da chiedersi a quale uso siano destinate queste parti sui testi. La speranza è che servano come un filo conduttore che l’insegnante integra con un graduale lavoro specifico.
Sulle parti teoriche si può osservare ancora l’identificazione (e quindi l’indebita sovrapposizione con tutta l’approssimazione e la confusione che ne deriva) tra le astratte tipologie testuali (testo narrativo, espressivo, informativo…), che sono categorie ideali «pure», e le forme testuali (romanzo, diario, relazione…), che riflettono la varietà dei testi concreti che sono quasi sempre «spuri» per la compresenza di più tipologie testuali. Tale identificazione (unita forse a un’eccessiva propensione per le distinzioni da entomologo) può avere contribuito a una vera e propria proliferazione delle tipologie testuali, all’inizio sobriamente classificate sulla base delle funzioni linguistiche di Roman Jakobson.
La riflessione sulla lingua ha nella grammatica la sua sede privilegiata, ma non l’unica. Anche le antologie stanno subendo un processo di metamorfosi e sempre più al carattere di strumento per esercitare la lettura critica di testi letterari affiancano quello di stimolo per un approfondimento delle conoscenze linguistiche. Addirittura si sta delineando un’area di contatto tra grammatiche e antologie costituita proprio dalla parte su conoscenza, fruizione e produzione di vari tipi di testi. Quasi tutte le antologie, infatti, presentano un tomo sui «testi d’uso» (contrapposti ai testi letterari) che non differisce nella sostanza dal suo omologo grammaticale. Se suscitava molte domande la parte sui testi presente nelle grammatiche, ancor di più ne suscita il fatto che uno studente finisce per trovarsi in mano qualcosa di analogo anche quando usa l’antologia. Ma anche questa è una spia: dell’importanza che gli insegnanti danno al sapersi destreggiare con testi diversi che rispondono a necessità comunicative diverse.
Nelle antologie, poi, compaiono spesso proposte operative (alcune molto intelligenti per efficacia didattica) intese ad arricchire il patrimonio lessicale degli studenti e a far acquisire costruzioni sintattiche meno elementari di quelle normalmente usate dai giovani. Nei casi migliori si propongono riflessioni sull’allontanamento dalla lingua standard non tanto per ribadire che uno scrittore vero si può permettere libertà negate allo studente, ma per far cogliere la maggiore efficacia espressiva. Tutto sommato, dunque, la scuola ha ben presente che le «I» dovrebbero essere almeno quattro e cerca di opporsi al dilagare di un italiano povero e approssimativo, anche se qualche perplessità su alcune modalità di questa «resistenza» sono legittime. Quasi moderni monaci che cercano di salvare un patrimonio, come i monaci medievali anche gli insegnanti possono commettere qualche errore: e se i monaci del medioevo con i loro errori ci hanno pur fatto giungere i testi antichi, c’è speranza che la scuola riesca a tenere dignitosamente in vita la lingua italiana, preservandola dall’idealizzazione dei dialetti celebrata da alcuni (fino ad auspicare un loro uso nelle sedi istituzionali) e dalle decisioni di una ventilata commissione per la correttezza della lingua che altri vorrebbero costituire e affidare a poco ciceroniani Presidenti del Consiglio.