Probabilmente è così: la modernità ha inaugurato un ciclo diverso dai precedenti. Tanto diverso da meritare il nome di condizione postmoderna. Ma forse i suoi interpreti e teorici hanno riscritto un po’ troppo frettolosamente la storia della modernità, dipinta come l’epoca delle Grandi Narrazioni, della fiducia nel Progresso e nella Ragione: quando al contrario è stata anche l’età del dubbio metodico, della scepsi analitica, della crisi dei fondamenti. Perplessità epistemiche e vertigini ontologiche non sono una scoperta recente. E la letteratura postmoderna ne riconduce semmai le espressioni, dal regno inospite dell’informale, entro la provincia familiare della figuratività narrativa.
Davvero si può essere, mi chiedo, postmoderni? Come «oggi» o «adesso», così il significato di «moderno» implica un indice temporale per sua natura mobile, che di volta in volta rinvia al presente in atto. Dopotutto, i primi a dirsi moderni («nani sulle spalle di giganti») furono uomini dell’età che poi avremmo denominato Medioevo. E per chi non ha maneggiato altra tastiera che non fosse quella del computer, il computer sarà semplicemente moderno, mentre la macchina per scrivere gli risulterà, né più né meno, premoderna. Insomma, ciascuno di noi vive in un’epoca che non può apparire altro ai suoi occhi se non come la «sua» modernità. Vero è che non basta fermarci a questo primo, elementare significato: all’incirca dalla seconda metà del Settecento, sull’asse lineare del tempo si è venuto stagliando un arco ben riconoscibile, il Moderno delle rivoluzioni economiche, sociali, intellettuali, politiche che hanno scandito gli ultimi secoli. Ma anche sotto questo profilo non mi sento del tutto sicuro di avere assistito, nel corso della mia non più brevissima esistenza, alla chiusura di quell’arco, a una coupure storica realmente epocale. Giacché proprio la continua modificazione della nostra forma di vita, a tal punto accelerata da diventare percepibile nel corso dell’esistenza individuale, costituisce precisamente la caratteristica distinti va del Moderno, e da allora tutte le generazioni ne hanno puntualmente vissuto l’esperienza.
Ciò non toglie che un mutamento profondo abbia avuto luogo e che diversa ne sia, questa volta, la qualità, secondo attestano i relativi parametri socioeconomici e psicosociali. Le transizioni cicliche della modernità erano state quasi sempre drammatiche, contrassegnate da convulsioni e traumi collettivi che insieme marcavano la cesura con il passato e cercavano risarcimento nella tensione proiettiva verso il futuro. Oggi la transizione sembra guidarci verso un presente dove appunto questo risarcimento è alla nostra portata.
La modernità ha bene o male adempiuto almeno alcune delle sue promesse, e almeno per buona parte di noi l’«accumulazione primitiva» da cui ha tratto le sue rapinose origini sta restituendo gli interessi maturati. Cambia la nostra forma di vita, ma nel segno di conquiste ormai consolidate che trovano infine la loro sublimazione in una tecnologia immateriale. All’hardware, al gigantismo macchinistico della civiltà industriale, è subentrato (non solo letteralmente) il software della civiltà telematica. L’angoscia dinanzi a un mondo disertato dagli dèi lascia il passo allo spaesamento vagamente euforico dinanzi a un mondo intriso di realtà virtuale.
Che si decida di battezzare questa condizione con un nome suo proprio, così da sancirne la peculiarità, e adottare il nome di Postmoderno, è solo un problema di convenzione. Più complicato è invece misurarsi, di là da queste banali considerazioni di fatto, con la variegata fenomenologia della cultura filosofica, artistica e letteraria che, in accordo alla convenzione, chiamiamo postmoderna. Anzitutto perché la cultura, nel senso anche soltanto lato di sistema dell’informazione e della conoscenza, costituisce giusto una componente «strutturale» di questa forma di vita, piuttosto che una sua manifestazione «sovrastrutturale». E poi perché i tentativi di descrizione (e autodefinizione) che ha cercato di fornirci conservano molti aspetti poco o per nulla chiari. Mi limiterò a passarne in rassegna alcuni tra i più controversi e discussi.
Una difficoltà preliminare nasce dal modo in cui spesso – abbastanza spesso perché si possa legittimamente parlare al riguardo di una diffusa vulgata -, seguendo le orme di Foucault, Lyotard, Derrida e altri maestri, i teorici del postmoderno hanno per antitesi rappresentato la cultura Moderna: come l’età delle Grandi Narrazioni, del Soggetto Centrato, del Dominio della Tecnica, dove la Ragione Occidentale avrebbe attinto i suoi trionfi lungamente incubati dalle plurimillenarie Origini della Metafisica. L’imputazione di una siffatta monolitica compattezza a un’epoca tanto tormentata risulta anche a un primo sguardo una palese forzatura, se non una semplificazione caricaturale. Ovviamente i teorici del postmoderno non nascondono certo di aver mutuato questa rappresentazione dalla tradizione del «pensiero negativo» di Nietzsche e Heidegger, e dunque l’antitesi si risolve semmai nella selezione, entro l’eredità ricevuta dalla cultura moderna, di un tutt’altro che marginale filone antimodernista. Il punto è che ad essa si accompagna anche una drastica rimozione’, la rimozione del criticismo analitico che pure è una componente cruciale del Moderno.
«Paragonando la filosofia antica colla moderna, – scriveva nel lontano 1823 un acuto osservatore, – si trova che questa è tanto superiore a quella, principalmente perché i filosofi antichi volevano tutti insegnare e fabbricare: laddove la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare» (Zibaldone di pensieri, 21 maggio 1823). E questa, in altri termini, la ragione che stabilisce i limiti della ragione e ne sottopone a più severo scrutinio i costrutti. E se allora Leopardi citava ad esempio la critica mossa da Locke contro la teoria cartesiana delle idee innate, non sarebbe difficile allegarne molti altri, di portata altrettanto strategica. Non si può, voglio dire, dimenticare che il Moderno è anche l’età del dubbio metodico, e non solo del cogito, che il soggetto «centrato» era uscito già alquanto vacillante dalle pagine del Trattato sulla natura umana di Hume (1739-1740); che la crisi dei fondamenti ha messo fine alla «grande narrazione» della scienza positivista proprio perché logici e matematici erano venuti escogitando un uso più rigoroso del ragionamento deduttivo; che l’epistemologia neopositivista è stata confutata, analogamente, in forza di argomentazioni più razionali; quanto alla critica dell’essenzialismo metafisico, di cui i filosofi postmoderni sembrano rivendicare il copyright, non sarebbe difficile ricostruirne una genealogia un po’ diversa: basterebbe gettare un’occhiata a stagioni e regioni del pensiero neanche troppo remote. In ogni caso, con questa rimozione non solo otteniamo un’immagine deformata del Moderno, facendone un comodo bersaglio polemico, ma rischiamo anche di disperderne il più prezioso lascito intellettuale.
Non dissimile è la situazione per quanto concerne la teoria e la critica letteraria, se guardiamo alla loro espressione più tipicamente postmoderna, il Decostruzionismo: anche perché si tratta di un orientamento che ama esibire e magnificare le proprie credenziali più generalmente filosofiche, e che non a caso si richiama a Derrida come alla sua maggiore auctoritas. Qui peraltro il termine post quem appare più circoscritto e ravvicinato, coincidendo in buona sostanza con lo Strutturalismo degli anni sessanta e settanta (o tutt’al più estendendo l’obiettivo polemico al New Criticism del secondo dopoguerra). In compenso, la migrazione dall’ortodossia strutturalista all’eresia poststrutturalista è stata guidata proprio da alcuni protagonisti di quegli anni, a cominciare da Roland Barthes (La morte dell’autore, 1968; Dall’opera al testo, 1971). Ne sortirà, beninteso, una trasformazione radicale. All’idea del testo come sistema dove «tout se tient», attualizzazione di possibilità combinatorie depositate ab aeterno nel Sistema del linguaggio, subentra l’idea del testo come concrezione provvisoria di una Scrittura erratica, dovei significanti si disseminerebbero in costellazioni instabili e nebulose imprevedibili; all’idea del significato come risultante di un calcolo predeterminato, subentra l’idea del significato come differimento e deriva inarrestabile; alla trama limpida, forse un po’ rigida ma pur sempre trasparente, entro cui lo scienziato della letteratura «in camice bianco» (come lo descriveva Fortini) fissava e ordinava i suoi protocolli osservativi, subentra il caleidoscopio delle apparenze fluttuanti, allusive e illusive, che la lettura dischiude dal testo e che al tempo stesso lo oscurerebbero dietro il loro velo: «lo scopo fondamentale della decostruzione consiste infatti, propriamente, nel pensare la differenza, la distanza che separa la nostra interpretazione dagli oggetti a cui essa si applica» (Maurizio Ferraris, La svolta testuale, p. 45).
Benché la macchina interpretativa messa in campo dal decostruzionista sia in pratica la stessa, a differenza dello strutturalista a lui interessano le resistenze e gli ostacoli che il testo le oppone, le antinomie e le contraddizioni occulte con cui ne sabota il funzionamento: «l’attività ermeneutica diviene a questo punto una domanda senza risposta; vale anzitutto come esercizio ontologico, come indicazione dell’incommensurabilità del comprendere rispetto all’oggetto della comprensione» (Ferraris, p. 45). Metafora, in breve, dello scacco teoretico a cui va incontro, ben al di là della critica letteraria, ogni tentativo di accedere al Senso e alla Verità nell’era disincantata della Fine delle Ideologie. Il fatto è che questo disincanto sottende una concezione del linguaggio come realtà autonoma e indipendente, un Grande Codice che «agisce» il soggetto e proietta dinanzi al suo sguardo un mondo fantasmatico, un’intrascendibile Semiosfera di «testi», o «rappresentazioni» («Representations» è il nome della rivista di un altro movimento poststrutturalista, il cosiddetto New Historicism). Noi non parliamo, ma siamo parlati dal linguaggio: sarà questo il tormentone più insistito del pensiero postmoderno. Salvo che si tratta di una concezione largamente anticipata proprio dalle posizioni «antiumanistiche» di certo strutturalismo (soprattutto francese: Althusser, Lacan, ancora Barthes) e fondamentalmente condivisa, nonostante i reciproci anatemi, da entrambi i contendenti.
Certo, il tono si fa ora più vaticinante e intimidatorio, come si addice alla celebrazione dell’heideggeriana Parola che Parla: «l’uomo progressivamente perisce a misura che più forte brilla al nostro orizzonte l’essere del linguaggio» (Michel Foucault, Le parole e le cose, p. 412); «il n’y a pas de hors-texte» (Jacques Derrida, Della grammatologia, p. 182). Ciò che un tempo era un «dato» traslucido e autoevidente, ora è indecifrabile «brusio della lingua», dove il Segno si limita a esibire se stesso, «traccia» della Differenza Ontologica che lo separa da un’insondabile alterità. Ma anche lo scienziato in camice bianco non scherzava: anche per lui «il soggetto è parlato», nientemeno, «dalla dinamica delle funzioni segniche» (Umberto Eco, Semiotica e filosofia del linguaggio, pp. 53-54); anche la sua Semiosi Illimitata frapponeva a ogni nostro incontro con quelle orribili Cose là fuori, nell’impuro universo extralinguistico, la casta e impenetrabile cortina di una semantica ridotta a parafrasi del segno sotto forma di altri segni. Un’immagine così animistica del linguaggio, dobbiamo riconoscerlo, è il più consimile equivalente teoretico della postmoderna realtà virtuale. Peccato che nessuno abbia poi avuto cura di spiegarci da quale arcano interstizio dell’Essere emanino queste funzioni segniche, o scenda sulla nostra testa la Parola che Parla. E l’«essenzialismo metafisico» di cui il mondo è stato vittoriosamente spogliato ha così trovato nuova dimora, con unanime soddisfazione di ortodossi ed eretici, in questa nuova sorta di Verbo increato.
Si capisce che qualcuno abbia finito per perdere la pazienza, sintetizzando il tutto come una teoria che, dopo aver identificato la letteratura con la letterarietà, riduce la letterarietà «alla scrittura, la scrittura al linguaggio, e il linguaggio, in un ultimo parossismo di frustrazione, a chiacchiera sul silenzio» (Hayden White, The Absurdist Moment in Contemporary Literary Theory, p. 262). Ci limiteremo a osservare che anche questa volta il tragitto sarebbe stato un po’ meno precipitoso se solo avesse incrociato la strada frattanto seguita, entro la tradizione epistemologica della filosofia analitica del linguaggio, da autori come Quine, Goodman, Putnam o Davidson (per tacere dei più lontani Wittgenstein, Austin, Grice…). Come che sia, non è però il caso di attardarci in postume recriminazioni. L’ermeneutica negativa del decostruzionismo ha in fondo avuto scarsa eco in Italia, e Derrida è assai più letto dai nostri filosofi che non dai nostri critici letterari. Si dovrebbe anzi dire che, salvo eccezioni notevoli e però abbastanza isolate (Luperini, Ceserani, e pochi altri), l’accesa discussione suscitata altrove dal poststrutturalismo, nelle sue molteplici e varie declinazioni, non ha pressoché avuto riscontro nel bel paese: dove al contrario è stata proprio la letteratura come tale a presentarsi con tempestività al nuovo appuntamento, iscrivendo nel canone stesso del postmoderno internazionale alcuni dei suoi nomi più rappresentativi, da Calvino a Eco a Tabucchi.
Ma sulla letteratura postmoderna si profila, in generale, un discorso un po’ diverso da quello sin qui condotto. Il ritratto al vetriolo che Hayden White ci presentava della teoria decostruzionista, se si prescinde dalla catastrofe finale e dal sarcasmo che gli dà colore, coglieva in effetto una tendenza largamente documentata anche in altre posizioni teoriche del poststrutturalismo, ossia la tendenza a immergere il corpus dei testi letterari nel corpus più ampio dei «testi» tout court, quale ne sia il genere discorsivo o il medium espressivo – e insomma ad assorbire i Literary Studies nei Cultural Studies (come è noto, negli Stati Uniti ne è derivata tra l’altro una radicale ristrutturazione di interi dipartimenti universitari). Pure, quando non si traduca sic et simpliciter in un’indiscriminata dissoluzione della letteratura nell’oceano della Comunicazione (a furia di Pensare la Differenza si finisce talvolta per non vederne più alcuna), in linea di principio la cosa non sembra necessariamente deprecabile. Dopotutto, ciò che accomuna la letteratura ad altre modalità della nostra esperienza, simbolica o non simbolica, dovrebbe interessarci non meno di ciò che la contraddistingue.
Non vi è dubbio che la letteratura postmoderna rifletta a suo modo una tendenza affine, almeno in alcune delle procedure che le sono tipicamente ascritte: dalla contaminazione straniante dei generi, reciprocamente relativizzati e debitamente ironizzati, al fitto reticolo dei riferimenti intertestuali e intermediatici. Né si tratta solo di questo. Come sappiamo, si è cominciato a parlare di postmoderno in ambito architettonico, con la ribellione al razionalismo funzionalistico del Bauhaus e della sua scuola: ma per quanto cerebralistico, il modernismo letterario ha avuto tutta un’altra storia. «Il faut être absolument moderne», annunciava l’imperativo di Rimbaud; perciò, proseguiva, occorre «trovare una lingua»: e fosse la lingua onnivora della Novità, della trasgressione sperimentale, o fosse la lingua ascetica della Purezza, della distillata quintessenza dell’Arte, mentre erigeva su questa trincea, contro la Modernità degradata della razionalità economica e strumentale, il mito dell’autonomia categoriale, della specificità e dell’intransitività del messaggio estetico, la letteratura modernista ha pure dato voce alle inquietudini e ai turbamenti più profondi che l’avventura dell’uomo d’Occidente recava con sé. Opacità del significante, perplessità epistemiche e vertigini ontologiche sono state all’ordine del giorno da quel dì, ben prima che i teorici postmoderni ne facessero la loro insegna. E semmai la letteratura postmoderna ne riconduce le espressioni, dal regno inospite dell’informale e dell’illuminazione epifanica, entro la provincia più familiare del figurativo e della rappresentazione narrativa.
Saranno pure contaminati e relativizzati, parodiati e messi «tra virgolette» – fatto sta che noi assistiamo al ritorno dei generi, con i loro statuti di leggibilità, coesione sintattica e coerenza semantica. Come sappiamo, del resto, nessuna delle tecniche care alla letteratura postmoderna è o protesta di essere nuova in sé (a guardare i regesti che ne sono stati proposti, verrebbe talvolta da concludere che nulla meglio delle Operette morali possa essere addotto a perfetto paradigma del postmoderno): nuova è piuttosto la sindrome, la loro combinazione sistematica e la latitudine della loro diffusione. Ma ciò che sembra certo è che la letteratura, di là da ogni double coding, toma bene o male a parlare quella che Mallarmé qualificava come «la lingua della tribù». Abbiamo ormai capito che la forma-racconto non rispecchia la natura delle cose: non per questo, come la stessa narratologia strutturalista poteva anche suggerire, cessa di essere una delle forme originarie con cui la nostra mente organizza la nostra esperienza. Esaurita la tensione agonistica delle avanguardie, è infine la distinzione tra letteratura «d’arte» e letteratura «di consumo» a perdere la sua efficacia inibitoria: il che almeno autorizza il lettore a riassaporare il gusto della vecchia «sospensione dell’incredulità», e magari, chissà, dell’ancor più antica catarsi… Con i rischi del caso: che in quanto gli viene offerto il pathos esistenziale lasci il passo al cinismo (postideologico, la ricerca della parola necessaria e inaudita alla scaltrezza mercantile. Ma un minor disprezzo aristocratico per la conversazione profana e qualche pretesa in meno di isolazionismo estetico, a vantaggio anche solo di un onesto artigianato stilistico e di un più laico concetto di arte, ecco qualcosa che tutto sommato potrebbe valere la posta.
Non sarà, in ogni caso, il ritorno dell’eguale. Licenziata «l’arcadia dell’anti-personaggio», resta da capire quantum mutatus ab ilio ci venga oggi incontro il «personaggio-uomo» a cui si rivolgeva la nostalgia di Giacomo Debenedetti. L’ipertrofia narcisistica del Sé che la società affluente ci consente di coltivare (e che non è esattamente il liberatorio Tramonto del Soggetto preconizzato dal Pensiero Debole) non ha comunque cancellato del tutto un’ostinata memoria di precarietà e insicurezze che esperienze recenti si sono incaricate di risvegliare: né ci protegge più che tanto, come abbiamo dovuto constatare, dai conflitti assiduamente esportati in altre plaghe del mondo. Perché la modernità è ancora in corso, se non altro sotto specie, come usa dire, di «globalizzazione». La storia ha smentito chi prevedeva la fine imminente della Storia. Forse anche nel presente dilatato della postmodernità ci toccherà fare i conti con l’irreversibilità degli accadimenti. Né in fondo, se appena adattassimo alla circostanza un celebre monito di Giovanni Vailati, la morale sarebbe oggi diversa: «asserire che tutto è testuale non ci esime dal dover poi introdurre come distinzione tra le varie specie di “testi” le medesime distinzioni che prima erano espresse dai termini “parole” e “cose” (Il pragmatismo e i vari modi di dire niente, p. 136). Quanto alla letteratura, sia quella che le capiterà di essere: purché non si fidi troppo dei critici postmoderni. A noi basterà che riesca anche in futuro ad essere nostra contemporanea, e che ancora ci riesca di sentirla tale.