Al grido di battaglia di Bart Simpson – «Eat my shorts!» – si sono aggregate tante piccole pesti televisive dal turpiloquio esagitato, in un crescendo di trasgressione linguistica e regressione narcisistica. Dai poppanti Rugrats agli infanti di South Park, agli adolescenti Beavis e Butt-Head… Licenziata l’ironia pensosa dei Peanuts e di Calvin e Hobbes, negli ultimi anni i bambini dei cartoni animati riflettono e amplificano grottescamente le tare di generazioni adulte ripiegate verso l’infantilismo degli affetti e dei consumi, coniugando sofisticazione rappresentativa e appetibilità di massa.
La più recente ondata statunitense di cartoni animati, a partire grosso modo dagli anni novanta, è incentrata su figure di ragazzini dal temperamento per lo meno precoce. Con I Simpson, Beavis e Butt-Head, South Park, e in certa misura persino con I Rugrats, vengono alla ribalta pargoli non solo estranei a ogni virtuosità, per quanto avventurosa, ma propensi piuttosto al gesto rozzo, spregevole e deviante. Ne riescono tratteggiati modelli di comportamento tutt’altro che esemplari, in funzione di una comicità eticamente scorretta. Una certa monellesca insubordinazione non sarebbe certo una novità nel panorama della produzione estetica rivolta all’infanzia. Il fatto è che la vocazione antiautoritaria degli attuali bambini «animati» si associa alla manifestazione di bisogni e criteri assai poco infantili, anzi decrepitamente adulti: che sfociano spesso in un cinismo e un gusto della sopraffazione iperbolici. Atteggiamenti siffatti sono resi tollerabili per un verso dalla totale semplicioneria che ne costituisce il presupposto, per l’altro dal riso che ne scaturisce. Non sono mancati tuttavia interventi di censura più o meno subdoli, dettati magari dagli interessi economici degli stessi committenti.
L’adolescente è un protagonista tradizionale delle opere d’animazione, in quanto tramite idoneo, per omologia anagrafico-esistenziale, a sollecitare la disponibilità immedesimativa del pubblico in erba. Come accade anche nella letteratura per l’infanzia, la tenera età dei personaggi è simmetrica alla tenera età dei destinatari prescelti. Ma con Bart Simpson e compagni, l’anticonformismo delle prospettive, l’improprietà delle tematiche affrontate e la relativa complessità delle soluzioni stilistiche richiedono un pubblico fornito di maggiore spregiudicatezza e più ampie competenze rispetto a quello schiettamente infantile. Non si tratta di opere concepite con intento precipuo per i bambini: anzi, il genere d’animazione seriale realizzato per la tv punta ora a guadagnarsi uno statuto di maturità artistica proprio rimarcando con piglio provocatorio alcuni tratti della sua originaria fisionomia bambinesca. Il cartoon d’autore dunque, oltrepassata ogni vincolante delimitazione infantile, attraverso il mezzo televisivo si adegua e attinge a una circolazione popolare: è in grado di coniugare sofisticazione rappresentativa e appetibilità di massa.
In confronto ai cartoni precedenti, si eleva l’età media degli spettatori, che vengono reclutati soprattutto tra i tardoadolescenti e i giovani. Per converso, i protagonisti ringiovaniscono: senonché nella riaffermazione infantilistica del loro primato vitale, essi finiscono con l’annettersi esigenze e ambiti d’esperienza propri dell’età adulta. Si assiste così a un’«adultificazione» degli antieroi più piccoli mirata a un’appagante regressione degli spettatori più grandicelli o affatto cresciuti. Non si tratta tuttavia di una regressione volta a meglio instradare un pubblico dotato di maggior potere d’acquisto sulle nuove vie del consumo aperte dalle televisioni commerciali. Il recupero di una fanciullaggine scandalosa soccorre piuttosto a straniare attraverso lo sguardo del puer-senex alcune delle questioni che più premono nell’immaginario collettivo. Proprio l’universo dei consumi, i suoi canali di propagazione e i suoi oggetti simbolici stanno spesso al centro delle vicende, in modo da gettare una luce satirica sulle aspirazioni e le aberrazioni della classe media a tale riguardo.
Il disegno è semplicistico più che elementare, ma la naiveté ostentata urta con i contenuti dissacranti dei dialoghi e delle situazioni, così da demistificare un’immagine dell’infanzia pelosamente edulcorata e iperprotettiva. La grazia essenziale della «linea fine» è sconvolta dalle cuspidi e gli increspamenti di figure cartilaginee, spigolose e insieme duttili: come capita con i Simpson, che esibiscono un colorito itterico, capigliature «incorporate» e occhioni tondi stipati ed esorbitanti. A un’analoga impostazione di fondo, il disegno di South Park aggiunge una bidimensionalità prescolare, a base cromatica più che grafica, fatta di corpi senza profili, tutta giocata sulle forme geometriche piatte, i campi di colore uniformi e vividi, l’animazione ingessata propria delle sagome di carta snodabili. Il tratto tremolante e molliccio dei Rugrats, invece, si dimostra idoneo a riprodurre la gibbosità dei loro crani implumi, la sproporzione delle membra, insiste insomma sull’esteriorità sgraziata della prima infanzia, perfettamente solidale con le sue deficienze cognitive. Ma è solo il disegno di Beavis e Butt-Head che ambisce a essere davvero repellente, con il suo andamento oscillatorio e seghettato, le deformità anatomiche proprie di fisionomie lombrosiane: occhi piccoli, enormi teste oblunghe, nasi adunchi, denti aguzzi, complessioni gracili e incarnato ocraceo.
I Simpson di Matt Groening esordiscono sulla Fox Network nel 1987, anche se assumeranno cadenza e durata regolari solo a partire dal 1990. Nella serie, ancora una parte fondamentale è rivestita dalle generazioni adulte: nondimeno il padre Homer rivaleggia con la prole nell’assumere comportamenti minorili, ludici e irresponsabili. La famiglia media della provincia statunitense si dimostra un concentrato di idiotismi e idiozie che esula da qualsiasi medietà topica, laddove un modello antitetico di famiglia dabbene è offerto dai Flanders, gli stolidi vicini di casa votati al culto del verbo evangelico. Mentre nella componente maschile di casa Simpson il padre Homer e il figlio Bart coagulano i motivi della sregolatezza e la fannullaggine, la componente femminile, composta dalla madre Marge e la figlia Lisa insieme alla più piccola Maggie, fornisce un apporto di eccentrica posatezza. Le tensioni interne alle mura domestiche, tra i sessi e le generazioni, così come quelle esterne, inerenti i rapporti sociali ed economici, sono suscitate e ricomposte grazie a questa spartizione di ruoli. Abbastanza spesso le infrazioni dei principi basilari di convivenza, perseguite con compiacimento nel corso del singolo episodio, sono smentite dalla risoluzione degli avvenimenti. Gli stessi Bart e Homer possono convertirsi inopinatamente a una spicciola morale positiva. Esiti del genere, se talora riconfermano l’opportunismo dei protagonisti, più frequentemente denunciano un posticcio senso dell’affiatamento familiare, per quanto stralunato. D’altronde è lo stesso meccanismo della narrazione seriale che impone un recupero dell’equilibrio al termine di un episodio, affinché nel successivo la trasgressione possa nuovamente deflagrare, con effetto di accumulo indeterminato. In ciò, la concatenazione narrativa della serie animata si rivela omologa ai meccanismi del consumo economico, dove il soddisfacimento momentaneo del bisogno è funzionale al riprodursi del bisogno medesimo e dunque dell’intero ciclo di produzione. Nei Simpson lo spirito pervasivo dei consumi è incarnato da Krusty il clown, ovvia controfigura del multinazionale fantoccio Ronald McDonald. Il suo marchio onnipresente contraddistingue le specie merceologiche più disparate, dagli hamburger, all’acido solforico, ai test di gravidanza. Ma l’ossessivo ghigno di Krusty interviene, piuttosto che a umanizzare il volto del capitalismo globalizzato, a deridere i processi incontrollati di espansione industriale, riducendoli alla stregua di basse furberie circensi.
Su un piano di più amabile divertimento si pongono I Rugrats, i «topi da moquette», i bimbetti che sgattaiolano per i pavimenti di casa e anche di fuori, facendola sotto il naso a genitori distratti o apprensivi. La serie è stata ideata da Arlene Klasky e Gabor Csupo nel 1991 per la televisione Nickelodeon. La scena qui è occupata in misura preponderante dai piccolissimi protagonisti. Il capobanda Tommy Pickles, i gemelli Phil e Lil, in continua disputa tra loro, il pauroso e miope Chuckie, la bieca smorfiosa Angelica sono arditi lattanti in fasce o mocciosi saputelli tra l’uno e i quattro anni. Diversamente dai Simpson e dai successivi bambini «animati», il fulcro delle loro vicende non risiede nello straniamento creato dall’attribuzione di un’ottica adulta a soggetti infantili. Con I Rugrats, la visione ingenua dei poppanti è condivisa a scopo non di provocazione anticonformista, ma di buffa spassosità. A far ridere stavolta sono le deduzioni e i comportamenti equivoci o inadeguati che i trottolini assumono nell’atto di commisurarsi a una realtà quotidiana in larga parte ancora sconosciuta. Già il ristretto perimetro dell’abitazione familiare racchiude straordinarie occasioni di scoperta e fonti inavvertite di pericolo; figurarsi poi quando l’ingegno turbolento dei piccoletti può esercitarsi in ambienti extradomestici. Vittime dello scompiglio, comunque, finiscono per essere gli adulti imprevidenti – più i padri sbadati che i nonni arruffoni ma scaltri -, mentre i novellini riescono involontariamente a imporre la loro candida irruenza.
Con Beavis e Butt-Head, cartone creato da Mark Judge nel 1992 per Liquid Television e in seguito prodotto da MTV e Viacom NewMedia, si eclissa significativamente ogni tutela parentale: la coppia di idioti adolescenti impazza ai danni propri e dell’adultità esterna alla cerchia familiare. Se i Rugrats detengono la facoltà della parola, contro ogni verosimiglianza pediatrica, viceversa i cresciutelli Beavis e Butt-Head sono avviati a una sorta di riduzionismo ecolalico. Il loro universo mentale è incardinato a quelle quattro parole sconce che adattano a tutte le necessità, infarcendole di risatine, interiezioni e rutti isterici. Il turpiloquio monomaniaco è il sintomo di un’ansia di crescita frustrata. Beavis e Butt-Head sono coartati dai media a modalità di consumo «mature», si tratti di pornografia, stupefacenti o atti di violenza insensata. Tendono a relazionarsi, anziché con i loro coetanei, con gli adulti di cui scimmiottano usi e costumi (unica eccezione, o quasi, la compagna di scuola Daria, la sarcastica fanciulla occhialuta alla quale Sam Johnson intitolerà una serie autonoma). Tuttavia l’attrito con il mondo maggiorenne per un verso esaspera la loro autostima da bulletti scalcagnati, per l’altro fa debordare i loro tic in vere e proprie dissociazioni mentali. Ogni avventura della coppia di metallari piantagrane si divide tra un momento di teledipendenza domestica e un momento di estroversione distruttiva. La novità strutturale della serie consiste nell’essere integrata al genere del videoclip: infatti quando Beavis e Butt-Head non sono impegnati in lavoretti occasionali o male imprese gratuite, si danno a commentare con battute insulse e salaci i video musicali trasmessi in tv. Ed è spesso lo spettacolo televisivo a ispirare la loro prassi esterna: Beavis e ButtHead non assimilano passivamente i contenuti massmediatici, ma si impegnano a tradurli in azione concreta secondo una loro sprovveduta e disastrosa estrosità.
In South Park, congegnato nel 1997 da Trey Parker e Matt Stone per la televisione Comedy Central, il vocabolario non si amplia di molto rispetto a quello di Beavis e Butt-Head ma cresce, assieme al numero dei personaggi fissi, la gamma delle dinamiche relazionali. Il quartetto dei protagonisti suggerisce un quadro clinico piuttosto disturbato dell’infanzia occidentale: Eric Cartman è un piccolo obeso, Kyle Brofslovski un ebreo complessato, Kenny McCormick tende alla dislalia nevrotica, soltanto Stan Marsh, dalla parvenza vagamente charliebrownesca, sembrerebbe un bambino equilibrato, se non fosse che vomita ogniqualvolta la sua amichetta Wendy gli rivolge la parola. E mediante la spontaneità di questi sboccati ottenni che problemi morali scabrosi e aspetti notevoli del costume statunitense possono essere trattati con dissennatezza sbarazzina: omosessualità, handicap, eutanasia, ingegneria genetica, missioni umanitarie, festività religiose vengono frammischiate a irrefrenabili insorgenze scatologiche, danno agio di manifestarsi alle pulsioni libidiche più scoordinate, a inconsulti scatti di aggressività, e allo stesso tempo sono innestate su trame risibili che rifanno il verso ai luoghi comuni dell’immaginario cinematografico. L’innevata cittadina del Colorado che dà il titolo alla serie diventa così epicentro di calamità dalla rilevanza planetaria, che tocca ai quattro bimbetti affrontare alla meglio. Seppure essi agiscono da inconsapevoli eroi, è comunque riservata a uno di loro la funzione di capro espiatorio. L’introverso Kenny, infatti, muore quasi in ogni episodio; muore talora anche più di una volta, sempre in maniera sfigatamente atroce; e la crudezza splatteresca dei decessi si correla in proporzione diretta alla sobrietà della stilizzazione figurativa.
Dai Simpson a Beavis e Butt-Head a South Park, comune è uno spiccato carattere di meta-animazione: la tv e più in generale il circuito massmediatico, oltre a essere i naturali luoghi di nascita di questi bambocci, vengono tematizzati come sedi e termini necessari dei loro desideri, delle loro esistenze. All’interno dei Simpson s’inscrive il cartone animato di Grattachecca e Fichetto (Itchy & Scratchy), come pure in South Park trovano spazio lo show dei petomani Trombino e Pompadour (Sparky & Sylvester) e i siparietti di Mr Hanky, lo stronzo parlante che sbuca dal water in veste di testimonial pubblicitario. Anzi, l’attenzione dei ragazzi sembra a tal punto catalizzata dai loro beniamini televisivi, che i genitori si organizzano per bandire dall’etere porcherie così antieducative: replica satirica alla demonizzazione di cui sono fatti segno i prodotti estetici meno accomodanti, non ultimo lo stesso South Park. Accanto a ciò, occorre considerare il fitto citazionismo filmico e musicale, il doppiaggio divistico, la presenza «disegnata» di insigni personaggi pubblici, messi così sullo stesso piano di protagonisti d’invenzione non proprio brillanti. Si capisce allora come questi cartoni animati intessano una sorta di enciclopedia della semisfera audiovisiva, della quale rappresentano non solo osannate propaggini ma anche valvole di controllo autocritico.