Nel panorama, abbastanza movimentato, della poesia sperimentale dell’ultimo anno spicca anzitutto Gli alleati viaggiatori di Giancarlo Majorino: che è certo una non inattesa conferma, ma pure stupisce per la capacità di reinventare ancora una volta il proprio stile, mescolando anti-discorsività, narratività e persino lirismo. Anche Jolanda Insana è ormai un’autrice conosciuta, almeno fra gli addetti ai lavori, ma forse un libro coeso come La stortura, insieme leggibile e trasgressivo, le consentirà di accedere a un pubblico meno elitario. Fra i nomi nuovi (e anche fra i piccoli editori) da segnalare Gabriele Pepe, per il vivace espressionismo di Parking Luna.
Certo nessuno si stupirà se, fra i libri di poesia ad alto tasso di sperimentazione usciti nel 2002, la prima segnalazione va all’ultima fatica di Giancarlo Majorino, Gli alleati viaggiatori: eppure vale la pena di sottolineare subito con molta energia la non comune capacità di rinnovarsi dello scrittore milanese, il vigore con cui ancora riesce a reinventare il proprio percorso poetico, ormai più che quarantennale. Anche Gli alleati viaggiatori si muovono in uno scenario urbano, in una concretissima e insieme universale «capitale del Nord», dove gli esseri viventi tutti, uomini o bestie, e spesso anche le cose, sono senza tregua sospinti in un moto senza requie, anzi in una vera e propria migrazione infinita, «entro greggi passaggi pedonanti o / granchio a granchio nell’auto»: immagine ahinoi troppo vera del nostro vivere nella tarda modernità. L’attacco del libro ne dà già anche il leitmotiv: «andavamo tutti»; e più avanti aggiunge «transitare / occorreva»: che suona come un’arguta versione, parodicamente viabilistica, del celebre navigare necesse est dannunziano. Nell’imperfetto di apertura si colgono già non pochi sapori dominanti del libro: la paradossale dimensione di passato onirico di un presente che pare avere a ogni istante i tratti dell’incubo (molto frequenti sono le atmosfere scopertamente o dissimulatamente infernali); l’iteratività (in senso narratologico prima che retorico); ma anche il respiro narrativo, anzi epico addirittura, di un movimento che, essendo non meno generalizzato che coatto, costituisce ipso facto anche lo spazio di una comunanza, di una solidarietà, di una pietas cosmica. Persino la costante animalizzazione cui il poeta sottopone uomini e cose contribuisce a questa pietas, sciogliendo i suoi tratti deformanti dentro l’oscura suggestione di una vicenda che, mentre è evidentemente moderna, parrebbe essere anche arcaica, quando non eterna: «ammusavamo nella nebbia fari abbassati piano / ci si annusava / lenti lenti tra fari bassi andando». Ci sarebbe molto da osservare sul fatto che, qui come in molti altri autori recenti (lo vedremo), le immagini di animali si vadano moltiplicando in modo esponenziale: ma sconfineremmo dalle note recensorie verso uno scenario socio-antropologico. Colpisce a ogni modo in Majorino il costante corto-circuito semantico fra un’immagine degli animali che ne rileva i tratti di alterità (cui si ricollegano sentimenti di angoscia, paura e disgusto) e il contemporaneo scattare di un profondo sentimento di fratellanza. Così come stupisce anche la ferma energia con cui il poeta riesce a dare corpo a un’epica del quotidiano, dell’eroismo antieroico che sorregge l’esistenza ordinaria, e l’ordinaria resistenza alla feroce banalità di una quotidianità vissuta magari in un «bilocale quasi come una tomba»: ma anche, si aggiunge subito, «certo meno orrenda», a scanso di patetismi fuori luogo.
Difficile rendere conto, in queste scarne note, della maestria formale, e persino (mi perdoni l’autore) della nuova maturità stilistica racchiusa in questi versi, che coniugano senza soluzione di continuità lacerti di colloquialità a misure metricamente regolari (specie endecasillabi), volta a volta riconoscibilissime o abilmente dissimulate. Accade persino che la frammentazione, l’antidiscorsività, la disarmonia programmatica si aprano all’improvviso a spazi di quasi disteso lirismo, contrappuntati sì anche da spezzature ritmiche, ma certo sempre trattenuti al di qua del sublime almeno dall’abbassamento stilistico: «per fortuna che ci sei tu camion della ruera / per fortuna che ci sei tu nettezza urbana che togli e incenerirai». Appare peraltro decisivo lo sforzo di dare conto delle mille voci del mondo, e sia pure impiegando «bizzarramente gonfia la voce scritta / foca di toni orali». Dove ritroviamo, ancora una volta, l’animale e l’umano, lo sberleffo e l’amore, nonché un atteggiamento programmaticamente duplice (simile a quello di Sereni) verso la poesia, sempre irrisa («scrivere di per sé rinscemisce» suona un verso di perentoria comicità) e però sempre riaffermata, quanto meno come obbligo morale di testimonianza, sforzo di capire e di far capire l’ineludibile realtà.
Fra i libri di poesia usciti nel 2002 spicca senz’altro anche l’ultima opera di Jolanda Insana, La stortura, che è andata fortunatamente raccogliendo non pochi consensi, culminati nel premio Viareggio (ex aequo con Ludovica Ripa di Meana, Kouros). La «stortura» del titolo sembra essere anzitutto una stortura fisica, una malattia, che significativamente riguarda le mandibole e le arcate dentarie, cioè, in parole povere, la bocca. La Insana riesce a dare un potente, fulminante spessore simbolico a un dato che parrebbe un’ovvietà: come spesso accade con le cose fondamentali e però consuete, non riflettiamo mai sul fatto che la bocca serve allo stesso tempo a nutrirei e a parlare. La «stortura» in questione rende così problematiche proprio le attività che fondano il nostro essere nel mondo: cioè anzitutto il processo digerente, che sorregge la nostra materialità, a cominciare dalle «buie viscere» (Auerbach avrebbe parlato di «realismo creaturale»…). Ma la «Stortura» disturba anche sia la generica capacità di comunicare, di interagire con gli altri, sia la più specifica abilità del poetare: «non ho accesso alla parola l e quando con fatica dico fame l faccio vento e non posso masticare Il è un’ossessione la bocca». La forza profonda ed elementare della congiunzione fra il nutrirsi e il parlare sovrappone così continuamente, quasi senza residui; il reale e il simbolico, il materiale e l’immaginario; e consente alla poetessa messinese di fare un discorso sul corpo, e sull’irriducibile singolarità dell’io, ma insieme di proiettare senza impacci l’assolutamente privato sulla dimensione pubblica. La malattia, insomma, finisce per diventare senz’altro il male, cioè il male del mondo.
L’operazione è rafforzata anche dall’immissione di un’altra sovrapposizione strategica: quella fra il corpo dell’essere umano e il corpo della terra, attraverso l’immagine del giardino, che l’io poetico coltiva con passione e dedizione, fors’anche con un po’ di disperazione. E di nuovo il giardino, non meno della bocca, è qui duramente materiale prima di essere un simbolo. Inoltre il suo radicamento referenziale fa scattare innumerevoli micro-racconti relativi alle comuni attività della coltivazione (piantare, zappare, concimare, «raschiettare», raccogliere…), con un costante effetto di understatement. D’altro canto è proprio l’immagine del giardino a far salire la carica polemica, accendendo un’intonazione più alta, che non teme di diventare apertamente politica: «dopo Cernobyl nascono fragole giganti / alberi metà pino e metà abete / agnelli a cinque zampe [. . . ] / vigilare disinquinare / restituire il letto ai torrenti / l’acqua agli abbeveratoi / l’erba ai conigli / a questo serve la ricchezza / è questa la ricchezza che serve / [.. .] svégliati e svuota il letamaio / il concime serve per il mangime / con la bocca si fa confessione per essere salvati».
Anche questo libro pullula di animali, che peraltro offrono continue occasioni per esplorare e approfondire l’area semantica e simbolica del mangiare, che diventa, volta a volta, ingoiare, divorare, rosicchiare, spolpare, intonandosi con un bestiario amplissimo, dai pescecani ai maialini, e dai porcospini alle scimmie, con uno spazio privilegiato per gli animali piccolissimi, brulicanti e magari francamente disgustosi: formiche pulci lombrichi zecche gechi zanzare-tigre e persino «topi chiaviconi».
La stortura è peraltro anche un libro molto strutturato, di non comune coerenza costruttiva: il che consente all’Insana di, per così dire, caricare i toni senza forzarli, contando sull’inerzia, o forse sarebbe meglio dire sull’abbrivio sviluppato dalla struttura poematica. Il linguaggio, dal canto suo, mescola un dettato spezzato ma spesso ingannevolmente discorsivo, al limite della colloquialità, con una fittissima orchestrazione verbale, che frulla e rifrange il lessico, appoggiandosi visibilmente su cospicui apporti espressionistici: come, ad esempio, il dispiegamento fin dal titolo di nessi consonantici disarmonici (del tipo vietato da Dante nel De vulgari eloquentia), a mimare insieme deformità sofferenza e polemica, anzitutto morale: «la memoria frivola scarta e scolla appunti l scuce i lembi del vestito e ne fa sbréndoli». Ma forse ancora più caratteristicamente espressionistici sono sia l’uso sistematico dei prefissi in «S-», separativi e intensivi («sdimenticando», «smummiata», «sdiluvio»), sia la formazione mediante suffissi di nomi astratti per grammatica, ma concretissimi nella sostanza (come «scribacchierìa», «dentisterìa»). Se aggiungiamo le striature di lessico arcaizzante, in un contesto di costante evocazione della sofferenza fisica, si capisce come Raboni abbia giustamente accostato La stortura addirittura a Jacopone da Todi: «dissero / non possa mai né bere né mangiare / né tua scribacchierìa fare / né i monconi salvare e la bocca sbilenca rabberciare». Alla fine, proprio la deformazione finisce però per riaffermare con ancora maggiore energia la dignità della parola, nonostante tutto: «sono qui e non sono ammutolita e sciacquo il tempo / per acquistare tempo».
Tra la folla dei volumi di poesia pubblicati da editori minori, spesso difficili da reperire, ci sono non pochi autori interessanti. Fra questi, mi è parso di cogliere un’identità stilistica molto ben individuata in Gabriele Pepe, autore di Parking Luna. Dal volume e dallo stesso vivace sito on-line dell’editore non sono riuscito a ricavare dati sull’autore reale: ma forse è così che funziona di solito il rapporto fra il lettore e il testo di letteratura. Da alcuni elementi mi verrebbe da dire che Pepe ha più o meno quarant’anni (perché per esempio un testo recita «Crescevamo» riferito ai tempi di Carosello): ma sono illazioni basate sul pregiudizio, storicamente assai probabile ma in linea di principio tutt’altro che sicuro, che l’io poetico non debba essere lontano dall’io biografico. Carosello a parte, uno dei punti di forza di Parking Luna sta nell’esibizione, parimenti spudorata, di riferimenti colti (letterari, ma anche filosofici) e di tasselli derivati sia dai media di massa, sia da scienza e tecnologia, tutti volutamente rimescolati e giustapposti: «Verrò da te porgendo / Reliquie di un abbraccio / Il circolo mutante / Di costole cablate». Per quanto non esente da qualche sospetto di acerbità (o quantomeno di troppo programmata oltranza), il linguaggio di Pepe produce una vivacissima miscela di toni, per la quale (così come per l’Insana, ma per motivi diversi) l’etichetta «espressionismo» pare non inadeguata. Sono molti i passi che fanno pensare al Rebora dei Frammenti lirici («Periferiche macchie di sterpaglie […] Sciamavano / Di chiassose devastazioni canaglie. Schioccavano / Di lame e lungimiranti fionde») o a Campana.
Nella ricca tastiera stilistica di Pepe spiccano subito sia lo sfruttamento intensivo dei suoni aspri e chiocci, sia l’inventiva lessicale, che si avvale di una rilevante vena neologistica, orientata soprattutto verso registri comici, fin dai titoli. Si veda per esempio Spot’n ’roll: «Così giovincelli in ferromaglia [… ] Si aggirano iniqui / Nei dintorni del cervello / A zonzo sulla cornea pixellata / Struzzerellando! Struzzerellando!»; una coppia echeggiata, pochi versi dopo, da un simmetrico «Cangureggiando! Cangureggiando!».
Ancora bestie, manco a dirlo, a conferma di quanto si diceva poc’anzi. Ma l’aspetto che più mi ha colpito nel linguaggio di Pepe è la ricchezza delle soluzioni ritmiche, a cominciare dalla costante, temeraria sfida alla monotonia dei parisillabi, con l’ottonario in testa («Nelle vulve della sera / tra le sponde del mio letto»), su su fino ai versi doppi («Dorata placenta del tuorlo del mondo»). Altrettanto degne di nota sono le sequenze di versi brevi, specie di settenari (come nella notevolissima poesia eponima), che esibiscono la norma metrica proprio mentre inibiscono il sublime. È chiaro che al fondo della poetica di Pepe si colloca un massiccio, intenzionale recupero di strutture regolari, o meglio ostentatamente regolari. L’ossessivo sovrapporsi di biologico e scientifico, o tecnologico, finisce così per raddoppiarsi nel singolare effetto, tra armonizzante e meccanizzato, prodotto da cadenze metriche irrigidite; così accade ad esempio nell’ironico, memorabile enjambement che chiude una terzina di Banane luminose: «(Ma insolente nel ciclo circadiano / Rimango rifugiato come tigre / di peluche nel parco inanimato)».