Santa Mira. Fatti e curiosità dal fronte interno di Gabriele Frasca e Un amore dell’altro mondo di Tommaso Pincio bene esemplificano la necessità del confronto, anche e soprattutto da parte di una narrativa sofisticata, con le forme e i temi delle comunicazioni di massa. Quanto più tende a una dimensione arciletteraria, tanto più un romanzo fortemente autoconsapevole ha bisogno del puntello mitopoietico dei media elettrici ed elettronici.
Che la critica letteraria italiana abbia accolto per lo meno con distrazione un libro come Santa Mira. Fatti e curiosità dal fronte interno di Gabriele Frasca, è uno di quegli eventi che la dicono lunga sulla lungimiranza dei nostri addetti ai lavori, con ogni evidenza resi pigri dagli uffici stampa dei maggiori editori e forse anche da una scarsa elasticità “generica” (essendo Frasca rubricato fra i poeti, i suoi scritti non competono a chi s’occupa di narrativa). D’altronde, d’un capolavoro a mio avviso si tratta, magari d’un “piccolo” capolavoro (non certo però quanto a dimensioni, viste le sue 300 e più fittissime pagine). Il rilievo potrebbe essere argomentato in diversi modi e su diversi livelli. A partire dalla qualità della tessitura stilistica e rappresentativa: se è vero che – in conformità a strategie in senso lato gaddiane – forme di alta letterarietà sono parodizzate dall’incontro con la bassa prosa del parlato e dei dialetti; e una focalizzazione interna variabile sui molti degradati personaggi dà spesso vita a veri e propri monologhi interiori: a scandire, quanto alla storia, dodici ore vissute da un pugno di abitanti di Santa Mira, cittadina del Sud italiano da cui il 24 aprile 1999 continuano a levarsi in volo gli aerei NATO impegnati nella guerra del Kosovo. E poi si dovrà anche tener conto degli intenti storico-ideologici del volume, in conformità certo a quel curiosissimo saggio, La scimmia di Dio, che Frasca pubblicò nel 1996: una specie di escatologia gnostica che porta alle estreme conseguenze alcuni spunti presenti nella narrativa di Philip K. Dick (e di Thomas Pynchon), in particolare l’idea che dalla seconda guerra mondiale siano usciti vincitori se non gli eserciti per lo meno i valori del nazifascismo, e che pertanto la nostra realtà sia affetta da un male tanto più materialisticamente fondato quanto più nascosto e onnipervasivo. Non a caso, a sottolineare la politicità dell’opera, Santa Mira si accanisce contro quella che genericamente chiameremmo «intellettualità di sinistra»: i quarantenni sposi Dalia e Gaudenzio, lei dottore di ricerca in cinema (e impegnata a preparare un concorso per ricercatore atteso da un decennio), lui storico dell’arte e funzionario della locale Soprintendenza, perennemente alla ricerca di finanziamenti per i suoi progetti di mostre e cataloghi. Squallidi figuri i due, ex «rivoluzionari» del 1977, arenatisi sulla quotidiana, cinica gestione della propria miseria, e complici, anzi motori di più generali fallimenti e catastrofi, allegorizzati da una guerra che ormai è divenuta normalità, componente ambientale qualitativamente non diversa dai rumori del traffico e dall’inquinamento dell’aria.
Eppure, se dovessi puntare su un pregio di questo straordinario libro, sceglierei un altro aspetto – quello che con una parola valorizzata da Frasca anche in sede teorica chiamerei la sua profonda intermedialità. A differenza di quanto avviene nei modelli letterari novecenteschi privilegiati da Santa Mira e in esso frequentemente omaggiati (oltre ai nomi ricordati, aggiungiamo almeno i prevedibili Joyce e Beckett, nonché gli italiani D’Arrigo, Manganelli e Pizzuto), qui la parola scritta deve positivamente confrontarsi con i segni delle comunicazioni di massa. Si potrebbe persino affermare che il romanzo di Frasca costituisca una sorta di saggio sulla presenza e l’efficacia dei mass media nell’attuale società. E non solo – sia chiaro – perché la narrazione è talvolta saturata dalla parodia, in qualche caso un po’ scontata, dei tic radiotelevisivi più conosciuti (il divismo dei conduttori, i quiz, le «letterine», i tormentoni di successo); ma perché Frasca in effetti costruisce una parte non trascurabile della propria opera sulla fiducia nelle possibilità espressive delle immagini in movimento, della musica registrata, della radio, della televisione – in genere dei media elettrici – secondo una prospettiva di pensiero che attinge direttamente all’opera di McLuhan. Insomma: se la guerra è innanzi tutto negatività e distruzione, e non può che costituire il principale sintomo di un mondo gnosticamente decaduto, altrettanto non va detto per le comunicazioni di massa, che anzi sono in grado di fornire alcune via di fuga dall’inautentico contemporaneo. Testimone muto, e proverbialmente anonimo, di uno degli episodi più importanti dell’opera è, non a caso, the Skull – il teschio -, musicista del misterioso gruppo rock americano dei Residents, a cui è affidato quello che nel sistema assiologico dell’opera è forse il contenuto primario: «Sveglia!». E cioè: si faccia di tutto per propiziare quella forma d’umanità da cui gli abitanti di un’altra Santa Mira, californiana, si erano separati quasi cinquant’anni fa, in seguito all’arrivo di orribili baccelloni, body snatchers alieni; così come è narrato, si sa, nell’Invasione degli ultracorpi di Don Siegel – in un film appunto, non certo in un’opera letteraria.
Né si può affermare che Frasca sia isolato in questa sua diagnosi, e che l’incontro della letterarietà alta di impianto tradizionale con la produzione che una volta si sarebbe detta di consumo sia una procedura da lui solo praticata oggi in Italia. Anche il protagonista di Un amore dell’altro mondo, di cui è autore Tommaso Pincio, Homer Boda Alienson, va incontro a una vera e propria svolta esistenziale allorché un «filmato» televisivo lo avverte che dormire è un pericolo, che durante il sonno entità extraterrestri possono occupare il nostro corpo e possederlo. Anzi, Pincio si spinge anche più in là, poiché ci mostra come la pellicola di Siegel, vista in televisione da un bambino americano degli anni sessanta, perda in qualche modo il proprio carattere di finzione: e si trasformi in una realtà seconda, estensione (avrebbe detto McLuhan) della sensibilità individuale, alla stregua d’un istinto indotto, tribalizzazione cognitiva ovvero raffreddamento di quel medium caldo che viceversa è il cinema. E così, nello stesso mese del 1967 in cui nasce Kurt Cobain, futuro leader del gruppo punk grunge dei Nirvana, il novenne Homer decide di difendersi dagli ultracorpi smettendo di dormire; salvo ricominciare diciotto anni dopo quando la sua vita si congiungerà con quella del suo doppio artistico. In definitiva: anche la scrittura malinconica, introspettiva, “catatonica” dell’affascinante Pincio, che vira verso un neosublime inteso a contestare le mescolanze tonali tipiche del postmoderno (e in ciò, beninteso, è agli antipodi del mescidatore Frasca); anche questo stile, questa gestione della voce e del punto di vista, che fin troppo docilmente si lasciano risucchiare dai piani alti del sistema letterario: anche tutto ciò, dunque, per ottenere i propri migliori risultati ha bisogno della televisione, della radio, del rock, e del loro incrocio (la vita di Cobain ha come incessante colonna sonora e visiva i programmi di MTV). La poetica e la pratica stesse dell’«Avantpop», alle quali va forse ascritto Un amore dell’altro mondo (mi riferisco alla collana dell’editore Fanucci così denominata e al suo «Manifesto», ivi apparso nel 2000, quale postfazione al secondo romanzo di Pincio, Lo spazio sfinito), si fondano sulla necessità di valorizzare, manipolandole, le principali regole e icone dei generi e delle forme di massa: senza però scoronarle, bensì sfruttandone con astuzia le capacità mitopoietiche.
Il pathos (caldo da un lato, freddo dall’altro) che ne deriva, e che accomuna libri per altri aspetti lontani come Santa Mira e Un amore dell’altro mondo, potrebbe essere – chissà? – l’inizio di un diverso, intelligentissimo modo di concepire una narrativa di impianto arciletterario, che alla cultura e alla memoria del lettore continui a chiedere il massimo impegno. Una narrativa, vale a dire, suscettibile di reggersi su interpretanti e valori forti la cui efficacia estetica si è paradossalmente formata in domini insieme extraletterari e extraistituzionali – gli unici, forse, in grado di garantire la futura vitalità del nostro immaginario.