Quest’anno al centro delle tante discussioni di letteratura ed editoria c’è il romanzo, un tema tradizionale rivisitato soprattutto grazie all’originalità d’impostazione dell’opera collettiva lanciata da Einaudi e diretta da Franco Moretti. Ma a segnare le terze pagine è stata anche una serie eccezionale di eventi internazionali (il vertice del G8 a Genova, la distruzione delle Twin Towers, la guerra in Afghanistan) e interni (l’insediamento e l’azione del governo Berlusconi), che ha modificato l’assetto consolidato e un po’ statico della cultura dei giornali. Si discute ancora una volta di intellettuali, ma a contatto stretto con le cose: questo leitmotiv delle pagine culturali acquista ora maggiore concretezza.
Di cosa si discute? Letteratura e editoria
Nel settore dei dibattiti letterari l’argomento senza dubbio più discusso è stato quest’anno il romanzo. Non l’immancabile tormentone sulla morte del romanzo, paventata, imminente, già avvenuta, ma una riflessione più aperta e produttiva. A proporre il tema è stata una costellazione di iniziative editoriali fra le quali spicca l’ultima grande opera Einaudi, Il romanzo a cura di Franco Moretti, di cui sono usciti i primi due volumi fra settembre 2001 e maggio 2002. In aggiunta, le due raccolte di interventi di Franco Cordelli dedicati ad autori italiani e stranieri (rispettivamente Lontano dal romanzo e religione del romanzo), Trasferte. Narratori stranieri del Novecento di Luigi Baldacci, i Quindici anni di narrativa di Giulio Ferroni (nell’aggiornamento dei volumi novecenteschi della Storia della letteratura italiana), e soprattutto le analoghe e concorrenti biblioteche ideali del romanzo proposte da «la Repubblica», prima, e dal «Corriere della sera» dopo. Ma un vero dibattito, un dialogo diretto ed esplicito, lo si ha solo a proposito dei libri curati da Moretti.
Certo, il grande impegno editoriale, la sigla Einaudi, l’appeal dell’argomento, il lancio internazionale (con presentazione a Londra e Parigi in quanto capitali del romanzo) garantiscono a priori un’ottima visibilità, ma sono l’impostazione originale del lavoro e il suo spirito antiaccademico che favoriscono letture non scontate e un confronto proficuo.
Dalla discussione emerge con chiarezza l’impostazione inconsueta e molto articolata del Romanzo – intervengono fra gli altri su «la Repubblica» Placido (23 dicembre), Asor Rosa (18 gennaio), Scalfari (21 gennaio), Siciliano (29 maggio), sul «Corriere della sera» Giovanni Raboni (22 febbraio). Nell’opera la vita delle forme romanzesche viene studiata su un vasto spettro temporale e geografico, valorizzando la varietà morfologica del genere senza escludere alcun livello della produzione letteraria. Come dice Moretti, «noi vogliamo mettere in cantiere una storia più lunga (dall’epoca ellenistica a oggi), più ampia (non solo europea), e anche, come dire, più “spessa” (dai testi d’avanguardia ai best seller dell’industria culturale)» («la Repubblica», 19 gennaio 2002). Il romanzo pratica una pluralità di approcci metodologici, senza dimenticare quanto sia importante il piacere della lettura, e attua una programmatica interazione fra studiosi italiani e stranieri – «lo sguardo degli altri è sempre un regalo» (Moretti) – con profili culturali molto differenziati, dallo scrittore Vargas Llosa all’antropologo Jack Goody, al teorico della letteratura Thomas Pavel. In molti articoli del dibattito ci si interroga sul futuro del romanzo: riaffiora così, in una versione più argomentata e meno cupa, quella riflessione sul tramonto del genere chiave della modernità, uno dei motivi più tradizionali delle terze pagine letterarie. Ma l’attenzione di «la Repubblica» e del suo fondatore non è forse del tutto disinteressata. Del resto, a stabilire un nesso esplicito fra l’opera einaudiana e «La biblioteca di Repubblica» sta la scelta di presentare la collana con un’intervista di Alessandro Baricco proprio a Franco Moretti (L’avventura del romanzo, «la Repubblica», 15 gennaio 2002). Un viatico felice per una collezione di straordinario successo: per festeggiare i dieci milioni di copie raggiunti dai primi diciannove titoli, venerdì 3 maggio il quotidiano dedica quattro pagine alla sua biblioteca novecentesca.
Come già in passato, quest’anno il Regesto dei dibattiti (compilato dallo spoglio di «Alias», «Avvenire», «Corriere della sera», «il Giornale», «la Repubblica» e «l’Unità») è anche un repertorio di temi ricorrenti: segnala argomenti affrontati da molti e indica diverse convergenze di interesse che non si sono però sviluppate in una discussione comune. Sul terreno letterario, oltre al confronto sul romanzo, si registrano infatti alcuni minidibattiti tutti interni alle singole testate e una serie di interventi in testate diverse apparentati dal medesimo oggetto. Sull’«Avvenire», un articolo di Berardinelli ha proposto il tema della scrittura un po’ stinta dei nostri scrittori più letti all’estero, che usano un italiano «anodino, piuttosto sterilizzato, un po’ troppo regolare, senza coloriture lessicali né variazioni ritmiche. Una lingua (si direbbe) da traduzione e per traduttori» («Avvenire», 18 dicembre 2001). Consentono in vario modo Bonura, Gibellini e Lagazzi («Avvenire», 19 dicembre 2001). Il motivo del linguaggio affiora anche nell’invito di Antonio Debenedetti a rileggere i libri di Natalia Ginzburg, che si conclude sull’ammirazione espressa da Raffaele Manica e da Filippo La Porta per la sua scrittura «chiara e semplice» («Corriere della sera», 22 agosto 2001). Di tutt’altro avviso è invece Franco Cordelli, che considera datata la semplicità della scrittrice, sulla base di una discutibilissima equazione fra comunicativo ed elementare, povero, mediocre, in fondo non letterario («Corriere della sera», 27 agosto 2001).
Non può sorprendere che il discorso sull’attualità della Ginzburg sia sollecitato dal calendario di ricorrenze che scandisce l’anno delle terze pagine (nel 2001 cadeva il decennale della sua morte). Analogamente questo calendario impone all’attenzione di molti giornali la figura e l’opera del Nobel Salvatore Quasimodo (cento anni dalla nascita). Un’opera poetica criticamente ridimensionata da Stefano Giovanardi in un ampio articolo apparso su «la Repubblica» (11 agosto 2001). Nel caso di Philip K. Dick la celebrazione di un anniversario (il ventennale della morte) non ha caratteri di ritualità: le sette pagine dedicate da «Alias» allo scrittore (16 febbraio 2002) e gli ampi e numerosi articoli apparsi su tanti quotidiani dimostrano un interesse fino a pochi anni fa impensabile per un autore di fantascienza. E la forza del grande schermo, e del merchandising che ha accompagnato la trasposizione cinematografica, a riportare all’attenzione delle pagine culturali 11 signore degli anelli e la saga di Harry Potter, due formidabili long seller «di genere» sui quali ragiona ad esempio Siegmund Ginzberg («l’Unità», 24 dicembre2001).
Altro meccanismo tradizionale, la discussione che si innesca a partire da una recensione severamente critica o da una vera e propria stroncatura. Il primo è il caso dell’intervento di Andrea Cortellessa su Gruppo ’63. L’antologia, a cura di N. Balestrini e A. Giuliani («Alias», 27 aprile 2002), che suscita la risposta virulenta e un po’ confusa dei curatori («Alias», 11 maggio 2002). Il secondo riguarda Susanna Tamaro stroncata da Salvatore Fancello su «Belfagor» (luglio 2001) e difesa da Fulvio Panzeri sull’«Avvenire» (31 agosto 2001).
Anche quest’anno l’interesse per l’editoria si mantiene piuttosto vivace. Sembra ormai acquisita una concezione abbastanza articolata della realtà editoriale: le terze pagine si soffermano infatti su molti aspetti (funzioni, attori, oggetti) del percorso che trasforma il testo in libro. I rapporti autore-casa editrice: gli esordienti («il Giornale», 24 settembre 2001; «l’Unità», 26 giugno 2002) e gli scrittori affermati che cambiano sigla. Cancogni lascia Fazi («Corriere della sera», 6 ottobre 2001), mentre Bocca lascia la Mondadori: «non può uno che scrive tutti i giorni contro Berlusconi continuare a stare nella sua azienda sapendo che lui è molto presente» (così lo scrittore sul «Corriere della sera», 1 marzo 2002). In un’intervista l’amministratore delegato Gian Arturo Ferrari prende le difese della casa editrice («Corriere della sera», 5 marzo 2002). Altri articoli raccontano le figure di mediazione, che portano l’autore all’azienda e che seguono la lavorazione del testo, agenti letterari («il Giornale», 16 maggio 2002) ed editor («il Giornale», 28 agosto 2001). Sempre al «Giornale» si deve l’utile carrellata di piccoli editori di destra, da Herrenhaus a Liberilibri a Lietocolle (9 gennaio, 5 febbraio, 9 maggio 2002). Oppure l’attenzione va a collane che aprono, «Indicativo presente» di Sironi editore diretta da Giulio Mozzi («Corriere della sera», 13 giugno 2002), o chiudono, come «I coralli» Einaudi («Corriere della sera», 16 giugno 2002). O ancora ai meccanismi promozionali e al consenso dei lettori. Se è interessante la scelta dell’«Avvenire» di occuparsi del successo di un’edizione supereconomica (Tutte le poesie di Pascoli della Newton Compton ha raggiunto 10.000 copie, 1 febbraio 2002), l’atteggiamento dei quotidiani rimane molto tradizionale di fronte ad alcune nuove iniziative promozionali: la condanna delle dodici pagine di avvisi commerciali pubblicati in coda a Città e dintorni di Malerba è pressoché unanime («Corriere della sera», 6 luglio 2001; «Avvenire», 7 luglio 2001). Ha invece forma di vero e proprio dibattito la sequenza di articoli pubblicata dall’«Unità» con il titolo Poesia così Inutile così Sovversiva, in cui Beppe Sebaste, Gianni D’Elia, Lello Voce, Carlo Bordini, Marina Mariani rilanciano la forza critica e contestatrice della poesia, preziosa e insostituibile anche perché liberamente inventiva, non riducibile a una logica utilitaristica (13 marzo, 22 aprile, 29 aprile, 1 maggio, 8 maggio).
La spinta del contesto
Sulle terze pagine il periodo luglio 2001-giugno 2002 è stato caratterizzato da una straordinaria «pressione del contesto». La rilevanza eccezionale di una serie di eventi internazionali (il vertice del G8 a Genova, la distruzione delle Twin Towers, la guerra contro l’Afghanistan) e interni (l’insediamento e l’azione del governo Berlusconi) ha imposto una serie di temi e ha modificato l’assetto consolidato e un po’ statico della cultura dei giornali.
Gli avvenimenti hanno una veloce e massiccia ricaduta editoriale e ai numerosi titoli pubblicati i giornali danno per lo più grande risalto. Sono i libri sui fatti di Genova o quelli sulla globalizzazione, i libri dell’ 11 settembre e della guerra afghana (G. Chiesa, GS/Genova; G. Riotta, N.Y. Undici settembre; T. Terzani, Lettere contro la guerra; M. Hardt, T. Negri, Imperium. Il nuovo ordine della globalizzazione).
I quotidiani ospitano anche riflessioni articolate di scrittori e saggisti che a volte superano l’occasione giornalistica per assumere forma di libro. Accade così nel caso di Oriana Fallaci e di Alessandro Baricco, autori di due saggi d’attualità molto diversi: quella della Fallaci è un’invettiva emotivamente partecipata che semplificando e contrapponendo sostiene posizioni radicali sul rapporto Islam-Occidente; quello di Baricco è invece un discorso sulla globalizzazione pacato e affabilmente argomentato, che tende a chiarire distinguendo e precisando. Il 29 settembre 2001 la Fallaci pubblica il suo contributo sul «Corriere della sera» con un’evidenza senza precedenti: quattro intere pagine non erano mai state concesse a nessuno in tutta la storia della testata. Seguono nelle settimane successive cinque interventi autorevoli: Dacia Maraini, Sergio Romano, Tiziano Terzani, Giovanni Sartori, Giuliano Zincone, accompagnati dall’attenzione degli altri principali quotidiani. A dicembre il forum sul sito del «Corriere della sera» conta oltre diecimila interventi dei lettori. Il 13 l’apertura della cultura è dedicata per intero all’annuncio dell’uscita in volume: ampliata e corredata da una prefazione, la Lettera da New York è pubblicata da Rizzoli, e nell’aprile 2002 supera un milione di copie vendute. L’interesse dei lettori è poi mantenuto vivo dalla cronaca: si seguono le vicende giudiziarie del libro in Francia, querelato per diffamazione da alcune comunità religiose. Il pamphlet della Fallaci rappresenta dunque un caso eclatante di sinergia giornale-libro all’interno del medesimo gruppo editoriale. Un appoggio programmatico di cui Baricco non ha goduto: il suo Viaggio nella globalizzazione apparso in più puntate su «la Repubblica» è stato pubblicato, con il titolo Next, da Feltrinelli.
La ripercussione del crollo delle torri gemelle sui lettori e sugli scrittori viene immediatamente recepita e fatta oggetto di riflessione dalle pagine culturali: dopo 1’ 11 settembre si legge di più (Aumentano le vendite: 16% su Internet e oltre 3% in libreria. La saggistica va meglio della narrativa, dice l’occhiello dell’articolo di Giuliano Vigini, «Corriere della sera», 18 ottobre 2001), mentre l’immaginazione letteraria e cinematografica si sente quasi messa in scacco dalla realtà fiction. Ecco come cambiano i romanzi d’azione dopo le Twin Towers, intervista di Antonio Monda al direttore della «New York Review of Books» Robert Silvers, «la Repubblica», 20 gennaio 2002) e l’editoria per ragazzi si interroga su Come spiegare ai più piccoli il mondo dopo l’11 settembre («l’Unità», 24 novembre 2001). Subito diversi scrittori sentono il bisogno di interrogarsi sulla necessità di un confronto con la prepotenza degli avvenimenti e su quel che resta da dire a narrativa e poesia dopo l’11 settembre (Paolo Di Stefano, La nuova sintassi del romanzo, «Corriere della sera», 24 ottobre 2001; Giorgio De Rienzo, Mettiamo in versi l’orrore di Kabul, «Corriere della sera», 25 novembre 2001). Il 24 novembre 2001 si svolge al Teatro dell’Arte di Milano un affollato convegno organizzato da scrittori, Scrivere sul fronte occidentale. Attorno agli atti, pubblicati da Feltrinelli, si sviluppa un dibattito dai toni accesi: Enzo Di Mauro («Alias», 1 giugno 2002) accusa di rassegnazione e sterile autoreferenzialità gli autori degli interventi, suscitando la risposta di Tiziano Scarpa, che «Alias» pubblica il 15 giugno accompagnata dalla replica di Di Mauro e da un pezzo di Cortellessa. Dopo gli articoli di «Il Sole-24 Ore» e del «Foglio», Loredana Lipperini su «la Repubblica» (30 luglio 2002) fa il punto conclusivo della discussione, ridando anche la parola a Voltolini, curatore del volume con Antonio Moresco. Al lettore comune che ha seguito il dibattito cercando di farsi un’idea del libro resta un’immagine sfocata e parziale: tutta la discussione si concentra su pochi nomi (quattro o cinque su ventisette) e su poche righe dei loro discorsi, quasi si trattasse del manifesto di un gruppo compatto di intellettuali. L’iniziativa si presentava invece come la risposta a un’emergenza, un bisogno di capire come un evento eccezionale possa mutare idee di letteratura e pratiche quotidiane di scrittura, come incida sulle «consuetudini mentali» della nostra società culturale. Sul tavolo grandi temi (rapporto letteratura-realtà, fine della storia, limiti del postmoderno, nuovo impegno) affrontati in una prospettiva che lascia spesso trasparire componenti esistenziali ed emotive. Il volume ci presenta quindi una molteplicità, anche contraddittoria, di riflessioni, sensazioni, proposte, da parte di voci spesso molto diverse fra loro. Scarpa replica alla stroncatura di Di Mauro definendo il suo pezzo «ingeneroso, scorretto e falso». E in effetti il taglio così unilaterale della prima recensione e l’impostazione a tesi del discorso di Cortellessa sono i meno adatti a rendere conto dei pregi e dei limiti di un libro per sua natura così variegato e programmaticamente disomogeneo.
Dopo il 14 maggio 2001 in Italia le politiche culturali della coalizione di centrodestra hanno spesso segnato le terze pagine: i contenuti e le modalità d’intervento di varie iniziative del governo hanno prodotto frequenti reazioni nel mondo intellettuale, di dissenso, critica, dura contestazione, registrate con maggiore o minore attenzione e rilievo a seconda delle testate, per lo più nettamente schierate secondo le aree politiche di appartenenza. Si succedono così articoli sulla sostituzione di alcuni direttori «non allineati» di istituti italiani di cultura all’estero (scoppia il caso Mario Fortunato, direttore della sede di Londra, difeso da un manifesto di intellettuali anglofoni – fra i primi firmatari S. Rushdie, H. Pinter, D. Lessing e I. McEwan – pubblicato su «The Independent» e ripreso da «la Repubblica» il 21 febbraio 2002), sulle dimissioni di Giuseppe Chiarante da vicepresidente del Consiglio nazionale per i Beni culturali in segno di protesta contro lo svuotamento di poteri dell’organismo da lui diretto («Corriere della sera», 25 maggio 2002), sullo scarso interesse del governo per il giorno della memoria, sulla ristrutturazione-destrutturazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche, sulla «Patrimonio Spa», invenzione degna della fantasia ironica di Stefano Benni. Temi questi ultimi che, come l’«editto bulgaro» del presidente del Consiglio contro Biagi, Santoro e Luttazzi, vengono discussi anche in altre sezioni dei quotidiani. Con decine di pezzi (e l’eco della stampa straniera) è stato seguito il Salon du Livre di Parigi (22-27 marzo 2002) nel quale il nostro paese era ospite d’onore, appuntamento preceduto e costellato di polemiche. Dopo le riserve di Catherine Tasca, ministro della cultura e della comunicazione, e di alcuni settori dell’editoria francese sul fatto che il governo italiano possa rappresentare effettivamente la cultura nazionale, Berlusconi rinuncia a partecipare direttamente all’evento. Alcuni scrittori di spicco (Tabucchi, Consolo, Camilleri, Maraini) dichiarano di voler essere presenti solo a titolo personale (anche Eco fa sapere che ci sarà, ma solo come invitato del suo editore Grasset). Mentre qualcun altro, come Carlo Sgorlon, li accusa di aver avviato una polemica ideologica. Una dura contestazione impedisce al sottosegretario alla cultura Vittorio Sgarbi di tenere la sua inaugurale lectio magistralis. Dopo il notevolissimo interesse editoriale (in tre mesi tradotti sessanta titoli, quanto nei tre anni precedenti) e il largo consenso di pubblico, a chiudere la manifestazione all’insegna della polemica ci pensa Berlusconi, definendo clown «quegli intellettuali che vanno in giro per il mondo a sparlare del loro paese» («la Repubblica», 27 marzo 2002).
Sabato 2 febbraio 2002, piazza Navona. Durante una manifestazione Nanni Moretti prende la parola e accusa di inadeguatezza i dirigenti della sinistra. La sua richiesta di un ceto politico che «sappia parlare all’anima, alla testa, al cuore degli elettori» («la Repubblica», 5 febbraio 2002) dà voce a un disagio diffuso. Subito l’evento occupa le prime pagine, il segretario del Ds Fassino scrive una lettera aperta al regista («l’Unità», 4 febbraio 2002), rapidamente si moltiplicano le reazioni nel mondo politico e culturale, i giornali cominciano ad ospitare un’affollata e mossa cronaca-riflessione sul nuovo impegno degli intellettuali. Anche sulla spinta di un altro fatto recente, la marcia dei trecento docenti universitari il 25 gennaio a Firenze. A contatto con l’attualità un leitmotiv delle terze pagine acquista maggiore concretezza. Da Paul Ginsborg a Moretti, scrive la senatrice Vittoria Franco, «gli intellettuali sono tornati a occupare uno spazio politico di primo piano: di leadership» («l’Unità», 10 febbraio 2002). Appelli e manifestazioni (dal Palavobis al girotondo attorno al senato durante la discussione della legge Cirami e oltre) danno forte visibilità a problemi e nuovi protagonisti: «sono gli unici massmedia che la sinistra può usare contro quelli telematici, dimostrano la sua variegata esistenza, resistenza e ruolo nella società» (Francesca Sanvitale, «la Repubblica», 23 febbraio 2002).
Se gli intellettuali di sinistra scendono in piazza, quelli di destra ragionano sull’identità della propria cultura. Recensioni, interviste e cronache danno conto di libri (M. Veneziani, Una cultura della destra-, o Marco Ferrazzoli, Che cos’è la destra), di numeri speciali di riviste (Eclissi o tramonto dell’intellettuale? è il titolo di «Ideazione» in edicola a maggio 2002), di iniziative (su tutte la «Proposta di un manifesto per la cultura» lanciata a Firenze da Marcello Dell’Utri il 15 giugno 2002) messe in campo dal mondo intellettuale conservatore italiano in un tentativo di far pesare di più la propria presenza, nel confronto con la sinistra e anche nel rapporto con i propri referenti politici. E uno schieramento abbastanza articolato che con alcuni dei suoi rappresentanti più significativi occupa importanti spazi sui maggiori quotidiani, dal «Giornale» al «Corriere della sera». Sono gli opinionisti organici (decisamente allineati come Ferdinando Adornato e Paolo Guzzanti, o meno conformisti come Marcello Veneziani), e i cosiddetti indipendenti, da Pierluigi Battista a Ernesto Galli Della Loggia, da Angelo Panebianco a Paolo Mieli e Sergio Romano. Sulla cultura di destra, sui suoi orientamenti attuali e sulla sua tradizione anche letteraria, si interrogano intellettuali dello schieramento avverso, come Michele Salvati (La destra in cerca di identità, «la Repubblica», 11 aprile 2002), Giovanni Raboni (I grandi scrittori? Tutti di destra, «Corriere della sera», 27 marzo 2002) e Alfonso Berardinelli (Ma Céline era di sinistra (senza saperlo)?, «Avvenire», 2 aprile 2002) che in poco spazio brilla per l’acuta problematizzazione. Segno significativo di una nuova intraprendenza degli intellettuali di destra è stata la lettera inviata da Panebianco e Galli Della Loggia a Ezio Raimondi, presidente dell’associazione culturale «il Mulino», nella quale i due studiosi rivendicavano maggiore attenzione verso alcuni temi politico-culturali cari al centrodestra: thatcherismo, revisionismo storico, riforma della prima parte della Costituzione (S. Fiori, «la Repubblica», 19 dicembre 2001; S. Filippi, «il Giornale», 3 febbraio 2002).
«Da noi viene usata una memoria parziale, insieme effimera e ridondante: la memoria è infatti usata come un’arma politica e dura il tempo di una campagna elettorale», dice Barbara Spinelli, «non è un orizzonte in cui collocare l’esistenza collettiva, ma un’operazione strumentale» (intervista di S. Serafini, «Avvenire», 14 settembre 2001). Ormai tradizionale terreno di scontro, anche quest’anno la mole degli articoli e delle discussioni sulla rilettura del nostro passato (dal Risorgimento alla Resistenza) è ingente. Si è ragionato – con spregiudicatezza e gusto del dettaglio scomodo o con serietà problematica – di totalitarismo, di foibe, dei limiti dell’unificazione, della sorte dei comunisti italiani in URSS, del figlio scomodo di Togliatti, di Quel marxista di nome Mussolini («Avvenire», 29 agosto 2001). Ma si è anche discusso di revisionismo, sulla spinta del discorso del Presidente Ciampi per il 25 aprile. Un sintomo recente dell’importanza della posta in gioco, e della disinvoltura nel trattamento della storia, sono le dichiarazioni del presidente della Rai, che fra gli obiettivi delle reti pubbliche ha indicato un’opera di complessiva revisione storiografica.
Le forme della comunicazione
Ulivo, scoppia il caso Moretti, titola il 3 febbraio 2002 l’apertura di «la Repubblica». E l’esempio più evidente di «sconfinamento dalla terza pagina», un fenomeno caratteristico di quest’annata determinato dalla forte pressione del contesto contemporaneo. Molto più spesso del solito le prime pagine hanno ospitato, per la loro rilevanza politica o socioculturale, interventi di scrittori e intellettuali a commento di importanti avvenimenti di attualità. I giornali che si sono valsi più spesso di firme di scrittori sono stati «la Repubblica», dando spazio a numerosi autori stranieri, e «l’Unità», con il ricorso abituale a scrittori italiani, alcuni dei quali si sono proposti come nuovi anchor-writer di sinistra, fra di loro Antonio Tabucchi, Francesca Sanvitale e Gianni d’Elia.
Il peso degli avvenimenti e la varietà delle loro implicazioni, oltre a determinare una diversa articolazione dello spazio del giornale e a dare nuova rilevanza al ruolo degli uomini di cultura, modellano il calendario ritmandolo con «speciali» a una settimana, a un mese, a sei mesi dall’attentato a Manhattan. Anche le forme risentono insomma dell’impatto dei fatti. Il ragionamento utilizza generi più o meno tradizionali, dalle ampie interviste (anche in serie, come la decina di Interviste tra pace e guerra pubblicata da «la Repubblica» a partire dal 13 ottobre 2001) ai lunghi pezzi di riflessione, tra prima e terza pagina, di celebri intellettuali e artisti di varia provenienza geografica e specializzazione – storici, sociologi, filosofi, esperti dei massmedia, scrittori, politologi, scienziati (S. Huntington, P. Virilio, J. Habermas, N. Chomsky, M. Piattelli Paimarini, G. Vidal, A. Roy). Oppure assume forme meno consuete, espressivamente più connotate: lettere, appelli, apologhi (Pietro Citati, L’Italia vista dalla baia di Ross, «la Repubblica», 15 agosto 2001), monologhi (H.M. Enzensberger, Monologo di un uomo confuso, «la Repubblica», 3 novembre 2001), poesie (le Poesie per New York di V. Magrelli, M.L. Spaziani, A. Merini, W. Wadsworth, M. Luzi, «la Repubblica», 3 novembre 2001), racconti impegnati d’invenzione. Un genere quest’anno piuttosto frequentato, non solo sui quotidiani: se Tabucchi firma sull’«Unità» il racconto Ho paura di sognare (8 dicembre 2001), la casa editrice e/o chiama nove suoi autori – da Massimo Carlotto a Elena Ferrante – a scrivere un testo narrativo sul tema del conflitto d’interessi per una «sessione letteraria» svoltasi a Roma nel maggio 2002, mentre il numero di «MicroMega» del luglio-settembre 2002 è articolato in due sezioni: Il giallo e l’impegno (fra gli altri A. Camilleri, C. Lucarelli, N. Ammaniti, L. Ravera) e Poesia civile (G. Raboni, S. Benni, P. Cavalli).
Riflessioni saggistiche, testi creativi, inchieste giornalistiche, reportage fotografici si presentano ai lettori con un’inusuale varietà di formati e supporti: dal fascicolo monografico di rivista (Genova 20, 21, 22 luglio 2001, numero speciale fotografico di «Diario», 3 agosto 2001), al libro illustrato (Le parole di Genova, a cura di A. Ginori, fotografie di T. D’Amico), al volume allegato al quotidiano (Non siamo in vendita. Voci contro il regime, a cura di S. Scateni e B. Sebaste), alla videocassetta (Palavobis, «l’Unità»), ai cinque cd audio di cronache genovesi pubblicati da Radio Popolare.
Questo è stato infine l’anno dei «girotondini», del «partito dell’apocalisse», degli «indignati», tre neoformazioni che registrano a livello lessicale alcuni dei fenomeni d’impegno degli intellettuali e della società civile di cui si è parlato. Si tratta di battesimi tendenziosi, enfatici o beffardi, che impiegano il diminutivo e l’iperbole, o nel caso degli «indignati» assolutizzano un solo tratto di comportamenti complessi e consapevoli, per dare dell’avversario e delle sue ragioni un’immagine impoverita, esasperata, irrigidita. L’imporsi nel linguaggio di termini come questi produce una specie di «precategorizzazione» negativa dell’oggetto del discorso, che non solo finisce per influenzare il dibattito ma anche e soprattutto la percezione collettiva degli avvenimenti. Nella lingua dei giornali l’adozione delle etichette unilaterali si accompagna al diffondersi di termini «elastici», di parole il cui significato viene dilatato in modo abnorme e disinvolto: conservatore, regime, totalitarismo, liberalismo, su tutte revisionismo. Sono parole che diventano argomento di disputa, sulle quali non si è capaci o non si intende trovare un accordo che favorisca una comunicazione vera ed efficace. In questo contesto, i tentativi di chiarimento e puntualizzazione (sempre efficaci quelli di Bruno Bongiovanni nella sua rubrica domenicale dell’«Unità» Storia e antistoria) restano sopraffatti dal rumore di fondo. A trasformare in tipo intellettuale questa plasticità da plastilina delle parole sembra provvedere la rivalutazione dei «voltagabbana», degli intellettuali che cambiano idea, proposto da Paolo Mieli sulla «Stampa» (8 settembre 2001), motivo ripreso dopo il dibattito che ne è seguito (fra le prime risposte quella di Eugenio Scalfari, «la Repubblica», 15 settembre 2001) dal pamphlet dell’ex direttrice dell’«Indipendente» Pia Luisa Bianco, Elogio del voltagabbana. Origine e storia di un tabù.