La concretezza del vivere

Tra i libri dedicati alla questione afghana, spiccano due titoli: le Lettere contro la guerra di Terzani (sulla grande occasione perduta dall’Occidente dopo l’11 settembre) e Premiata macelleria Afghanistan di Vauro (bella dimostrazione della forza comunicativa del disegno, quando le parole non bastano). Rigogliosa anche la letteratura di memoria, che registra svariate prove di italianisti di vaglia. Notevoli, in particolare, i limpidi ricordi d’infanzia di Asor Rosa (L’alba di un mondo nuovo) e l’aspro cimento autobiografico di Luperini (I salici sono piante acquatiche).
 
Dal punto di vista delle tirature, non c’è dubbio che l’impronta più forte all’ anno appena trascorso sia stata impressa dal rovente pamphlet di Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio. Da sempre la celebre giornalista-scrittrice punta sull’appello ai sentimenti, sulle risorse della sovreccitazione emotiva: l’adozione di un genere testuale qual è quello dell’invettiva ne ha sicuramente valorizzato la veemenza oratoria, spianando la strada a un prevedibile successo di pubblico. Meno scontata, e per questo tanto più confortante, è la buona accoglienza riservata al libro che si è programmaticamente posto come l’anti-Fallaci, cioè Lettere contro la guerra di Tiziano Terzani: sette articoli-epistole – inviate rispettivamente da Orsigna, Firenze, Peshawar, Quetta, Kabul, Delhi, Himalaya – in cui il corrispondente del «Corriere della sera» e dello «Spiegel» riflette su cause e conseguenze degli attentati dell’11 settembre. Al di là delle singole affermazioni (sulle quali, com’è ovvio, la materia di discussione non manca mai) il pregio di queste pagine consiste nell’atteggiamento intellettuale che le ispira, fatto di pacatezza ragionativa, di apertura problematica, di una disponibilità insomma a intendere la mentalità e le idee altrui che, lungi da ogni scetticismo relativistico, dovrebbe costituire il presupposto necessario di ogni iniziativa politicamente e culturalmente fondata. Difficile, peraltro, dissentire dall’assunto da cui Terzani muove, cioè che di fronte all’imprevisto esplodere di un’emergenza terroristica senza precedenti l’Occidente si sia lasciato sfuggire un’ottima occasione per ripensare il proprio ruolo e la propria immagine rispetto al resto del mondo.
Ma il nutrito dossier afghano comprende altri titoli significativi, meno tradizionali dal punto di vista formale. Fra questi, merita diessere ricordato il libro di Vauro Premiata macelleria Afghanistan. Si tratta, è vero, di un volume di disegni: vignette, in massima parte, più alcune (rare) sequenze, come quella che apre la sezione «Prima dell’ 11 settembre». Una donna davanti a una casa, in attesa del figlio che sfidando il divieto dei taleban è andato a giocare con un aquilone; il vento gelido dell’inverno incipiente, che soffia dalle montagne e le punge gli occhi attraverso il burqa; la detonazione di una mina che esplode, «e allora capì che l’inverno non era arrivato in tempo». Non tutte le tavole, diciamolo subito, hanno la stessa efficacia. Vauro non possiede la spietatezza aforistica e l’inventiva fulminante di Altan; l’intera serie dedicata alla questione del Medio Oriente, ad esempio, fornisce corollari a una determinata posizione politica, senza scarti che sorprendano, senza colpi d’ala. Quello che invece funziona in maniera straordinaria sono i disegni dei personaggi: quei bambini monchi con le stampelle e i pantaloni annodati sotto i ginocchi; quei vecchietti male sbarbati, inturbantati e senza gambe, che si muovono su una tavoletta con le ruote; quelle figure dinoccolate, quei volti dagli occhi rotondi, ereditati dalla tradizione grafica dei comics e dislocati ora nel contesto di uno scenario insieme grottesco e apocalittico. Non mi pare che la non-fiction letteraria abbia saputo rendere con altrettanta forza espressiva la tragedia afghana; mentre disegni come quello riprodotto sulla copertina del volume di Vauro – un bambino mutilato, una circonferenza tratteggiata al posto della testa; titolo: Istruzioni per capire che cosa è la guerra; didascalia: «seguite la linea tratteggiata e applicatevi la foto di vostro figlio» – valgono da soli lunghe argomentazioni. Al pari, per fare un paragone cinematografico, della rincorsa in folla dei mutilati verso le grucce che gli aerei stanno paracadutando, nel Viaggio a Kandahar di Mohsen Makhmalbaf. Il rischio dell’esibizione retorica (nel caso del regista iraniano, il plateale ricorso al rallentatore) è in entrambi i casi – chiaro – dietro l’angolo. Ma è il prezzo da pagare quando ci si misura con temi di tale portata.
Sul versante della letteratura memorialistica, un titolo di rilievo è Patrie smarrite di Corrado Stajano. La rievocazione riguarda i luoghi di origine dei genitori: da una parte l’entroterra siciliano, Noto, dall’altra la pianura padana, Cremona. In particolare, l’autore del Sovversivo si sofferma su due momenti: l’arrivo degli Alleati nel luglio 1943 e l’affermazione del fascismo cremonese, dominato dalla rozza figura di Farinacci. Il discorso è analitico, documentato, a volte eccessivamente minuzioso. Ma sull’impegno a ricostruire le motivazioni degli avvenimenti aleggia un pathos funerario: quegli ambienti, nelle loro peculiarità storiche e geografiche, sono di fatto scomparsi entrambi. Il crollo a Noto della famosa cattedrale barocca, l’inquinamento delle acque del Po acquistano valore simbolico; e lo sforzo dell’autore di connettere le due radici della propria identità originaria lascia spazio alla consapevolezza della propria sostanziale estraneità rispetto all’Italia di oggi. Non meno pessimistica è la visione del mondo che ci consegnano le pagine del nuovo libro di Luigi Pintor, Il nespolo. Anche in questo caso domina il senso di distacco dal presente; ma la frattura era già stata registrata nei volumi precedenti della serie (Servabo, La signora Kirchgessner) . Ora, l’adozione di un procedimento lato sensu diaristico, o «mensuaristico» (un capitolo per ogni mese, lungo il triennio 1997-1999), sembra corrispondere a un’attitudine postuma, piuttosto che testamentaria: anche se nello stesso tempo fomenta qualche divagante ed estemporanea considerazione su di sé («Fuma più delle sei sigarette l’ora previste e s’interroga indifferentemente sulle parentesi, sulla condotta delle democrazie nella guerra civile spagnola, sull’etimologia della parola marameo»), che delinea un profilo di personaggio reattivo, ironico, e ben vigile di fronte ai fatti d’interesse pubblico, nonostante l’impressionante serie di lutti privati.
Un settore della produzione autobiografica che è venuto acquistando una consistenza non solo quantitativamente notevole è quello delle memorie degli intellettuali umanisti, e in particolare degli studiosi di letteratura italiana. Del succinto e quasi impaziente bilancio esistenziale stilato dal vitalissimo nonagenario Giuseppe Petronio (Le baracche del Rione Americano) colpisce soprattutto l’icastica ricostruzione delle condizioni materiali e morali di vita in una periferia del profondo Sud, nei primi decenni del secolo XX: un paesaggio culturale e umano tanto diverso dall’attuale da suggerire considerazioni d’ordine antropologico, oltre che sociologico o storico. L’idea di una netta soluzione di continuità rispetto alla vecchia Italia rurale e contadina, repentinamente scomparsa durante lo scorso secolo, emerge chiaramente anche da L’alba di un mondo nuovo di Alberto Asor Rosa: in particolare, dai capitoli dedicati ai lunghi soggiorni estivi presso il borgo di Artena, sulle pendici dei Monti Lepini (notevolissime le pagine dedicate agli animali, domestici e selvatici, grandi e piccoli e minuscoli). Per il resto, l’autobiografia di Asor Rosa appare tuttavia improntata a un tranquillo, ordinato rimemorare, e a un’ironia critica venata di nostalgia. Il libro narra l’infanzia e la prima adolescenza dell’autore nella Roma degli ultimi anni del fascismo e della guerra, dal punto di vista di un superiore, stabile grado di saggezza e coscienza: tanto che, in prima approssimazione – e tenendo conto della chiarezza dell’informazione, del nitore di ricordi e ritratti – lo si potrebbe ascrivere a una sorta di «classicismo» autobiografico, nel quale emozioni e inquietudini non scalfiscono la levigatezza forbita della scrittura.
Completamente diverse, per ispirazione e strategia, le memorie di Romano Luperini, I salici sono piante acquatiche. Suddiviso in quattro parti cronologicamente non lineari, il racconto si presenta aspro, spigoloso, dissonante: le diverse fasi dell’esistenza del protagonista sono rievocate per momenti cruciali, situazioni staccate, bagliori. Scarso l’indugio sull’età della formazione: dei primi anni di vita si parla soprattutto in rapporto alla figura paterna, l’attenzione maggiore è riservata alle vicende dell’età adulta. Il risultato è un tracciato esistenziale corrucciato e disarmonico, ma assai intenso; e, al di là delle spiccate peculiarità individuali del protagonista (incluse circostanze quali l’atavico legame con la campagna toscana o i viaggi in Nordamerica) , rappresentativo non solo di una condizione di tormentata modernità, ma, più precisamente, del destino di una generazione per la quale l’impegno politico ha forse rappresentato sul piano umano (se non su quello intellettuale) un investimento complessivamente mal remunerato.
Degna di nota, in tutte queste memorie, è poi l’abbondanza di «cose»: di realtà materiali, luoghi, oggetti, a cui vengono affidati nell’economia del racconto ruoli importanti – il che non accade, o almeno non accade con altrettanta spontaneità e naturalezza, in molta nostra narrativa d’invenzione, dove gli oggetti concreti appaiono sovente arredi occasionali e seriori di architetture mentali. Del resto, una delle principali ragion d’essere della letteratura di memoria consiste proprio nel richiamo alla concretezza dell’esistenza. Nell’evidenza con la quale i ricordi restituiscono il sostrato materico dello scorrere del tempo, sia esso continuo o frastagliato, rallentato o precipitoso, e separato dal nostro presente da più o meno vertiginose cascate.