Editoria e università. Intervista a Enrico Decleva

In Italia l’interesse e lo studio della storia dell’editoria si sono sviluppati in ritardo rispetto ad altre nazioni (soprattutto Francia e Gran Bretagna). Negli ultimi quindici anni però la situazione si è progressivamente modificata. Lo dimostrano alcune significative iniziative di conservazione e valorizzazione dei fondi archivistici e la pubblicazione di importanti monografie su singoli editori. Oltre alla creazione di corsi e master (Milano e Bologna) destinati alla formazione di professionalità legate proprio al mondo della carta stampata e della comunicazione.
 
Enrico Decleva (Milano, 1941) è docente di storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano, dove dall’ottobre del 2001 riveste la carica di rettore. Da diversi anni s’interessa di storia dell’editoria, come testimoniano tra l’altro la biografia dedicata ad Arnoldo Mondadori e il volume da lui curato dedicato a Ulrico Hoepli.
 
Ber molti anni – e fino a non molto tempo fa – il mondo universitario ha mostrato scarso interesse per il mondo dell’editoria. Lei rappresenta un’eccezione. Come è nata la sua curiosità per l’industria del libro?
In realtà, mi sono occupato di editoria, e in particolare dell’esperienza di Mondadori, abbastanza per caso. Precedentemente, avevo un poco studiato l’editoria periodica, interessandomi di alcuni giornali – il «Corriere della sera» e «il Giornale» – ma sempre nell’ottica degli studi di storia politica, anche perché a quell’epoca l’attenzione degli storici contemporanei italiani era prevalentemente rivolta alla storia politica. L’ottica dominante non era certamente quella dell’attenzione all’impresa editoriale, ma quella relativa alle linee ideologiche e politiche di cui quei quotidiani erano l’espressione. Molti anni dopo, avendo io deciso di lavorare su una biografia, mi fu proposto di scrivere quella di Arnoldo Mondadori. Accettai e incomincia così a occuparmi di editoria. Solo dopo essermi avvicinato al mondo dell’editoria, mi sono reso conto di quanti elementi d’interesse vi fossero in questo settore. Detto ciò, va pure ricordato che l’attenzione per i fenomeni della comunicazione – anche come fenomeni di rilevanza storica – è relativamente recente, dato che solo negli anni ottanta si è fatta la connessione tra l’importanza del fenomeno e la necessità di considerarlo in una prospettiva storica. Non a caso, anche le storie delle radio e dei giornali sono tutto sommato abbastanza recenti. L’editoria libraria è arrivata per ultima.
 
Questo disinteresse per il settore della comunicazione, e in particolare dell’editoria, si può spiegare con il vizio idealistico-aristocratico di tanta cultura italiana, che ha sempre svalutato la dimensione concreta del lavoro editoriale?
Probabilmente sì. In passato, dominava l’attenzione prevalente per le idee e per il prodotto dell’autore, quindi la mediazione editoriale veniva trascurata quasi per principio, perché si pensava che fosse ininfluente. Tuttavia, questa prevenzione spiega soprattutto la disattenzione dei critici letterari verso l’universo dell’editoria.
 
Anche gli storici però hanno incominciato a interessarsene solo di recente…
È vero, con qualche eccezione, talvolta anche rilevante. Per gli storici però si poneva anche un problema di disponibilità degli archivi editoriali, molti dei quali purtroppo sono scomparsi o si trovano in pessime condizioni. Occorre poi ricordare che in altri paesi, dove gli studi sull’editoria si sono sviluppati prima che da noi, ha contato anche il fatto che spesso gli editori hanno incoraggiato e commissionato le storie delle loro case editrici. In Italia, questa abitudine è molto meno radicata, anche se qualche editore si è mosso in questa direzione. Gaspero Barbèra, ad esempio, le sue memorie le ha lasciate. Globalmente però l’attenzione per la propria storia editoriale ha conosciuto una minor diffusione rispetto al mondo anglosassone. Si tratta di una mancanza che ha certo contribuito alla generale disattenzione per la realtà delle case editrici.
 
E lo scarso interesse per la storia culturale quanto ha pesato?
Anche questo ritardo ha certo influito. Da noi hanno prevalso la storia politica e quella militare oppure l’attenzione per la storia culturale, intesa però come storia delle idee e non delle strutture culturali. Su questo terreno, l’Italia sconta un certo ritardo, come pure nell’ambito della storia delle imprese, che è essenziale per fare storia dell’editoria. Bisogna tuttavia distinguere tra età contemporanea e età moderna, visto che gli studi su Manuzio non mancano. E l’editoria novecentesca a essere stata particolarmente trascurata, forse perché era considerata una realtà di scarso peso e quindi meno importante da indagare. Inoltre, negli anni sessanta e settanta i temi offerti dalla storia contemporanea italiana erano talmente tanti che non si sentiva il bisogno di andare a cercarne altri. In fondo, il nesso tra storia e politica ha monopolizzato a lungo il lavoro degli storici, tanto è vero che in alcuni casi si è arrivati alla storia dell’editoria proprio attraverso la storia della politica. E il caso di Gabriele Turi che, indagando la cultura del regime fascista, ha iniziato a interessarsi di editoria, scoprendo alcune figure d’imprenditori editoriali più indipendenti e originali.
 
Almeno da una quindicina d’anni la situazione però è cambiata e l’attenzione per l’editoria è in crescita costante…
È indubbio, lo provano alcune significative iniziative di conservazione e valorizzazione delle carte, come pure la pubblicazione d’importanti monografie su singoli editori. Ma c’è stato anche un allargamento di prospettive. Gli studi infatti non si concentrano più solamente sul titolare dell’azienda, ma s’interessano a un più vasto contesto aziendale e operativo. Insomma, in questi anni si è fatta strada una maggiore consapevolezza della centralità del lavoro editoriale. Inoltre, sul piano storiografico ci si è resi conto della ricchezza di potenzialità di queste ricerche, che possono abbordare il mondo editoriale su versanti diversi: quello dell’autore e della storia letteraria, quello dei rapporti con il pubblico e con il mercato, quello degli scambi con la politica e l’ambiente culturale. Proprio la possibilità di potersi muovere su più piani, cercando di riconoscere il contributo particolare di ciascuno d’essi, è uno degli aspetti più interessanti di questi studi.
 
Il ritardo che avevamo rispetto ad altri paesi oggi è stato recuperato o siamo ancora indietro?
Per alcuni versi siamo indietro, visto che, ad esempio, in Italia non abbiamo ancora una storia dell’editoria completa e approfondita come quella che è stata pubblicata in Francia. Quelle pubblicate da noi non sono certo paragonabili per dimensioni e approfondimento. In realtà, per molti editori mancano proprio gli studi preliminari. Quindi il lavoro da fare è ancora molto, anche se forse le dimensioni e le potenzialità della nostra editoria resteranno sempre inferiori a quelle di paesi come la Francia e l’Inghilterra, e di conseguenza anche gli studi sull’industria editoriale alla fine continueranno a essere meno importanti.
 
Esiste qualche peculiarità dell’approccio degli storici italiani al mondo dell’editoria?
Non ho una conoscenza abbastanza approfondita per poter esprimere valutazioni di questo tipo, ma forse è vero che i nostri storici hanno mostrato un’attenzione particolare per le connessioni della storia dell’editoria con la storia della politica. Va poi ricordato che da noi tali studi sono sempre stati più occasionali, mentre in Francia o in Inghilterra sono state organizzate ricerche più sistematiche. In Italia, la situazione mi sembra destinata a rimanere a macchia di leopardo.
 
Quali sono i settori o i periodi più scoperti?
Alcuni editori importanti non sono ancora stati sufficientemente studiati, ma è anche vero che, per alcuni di loro, non è detto che sia facile farlo, vista l’assenza di archivi. Treves, ad esempio, meriterebbe di essere studiato più a fondo, ma la situazione archivistica non lo rende possibile. Inoltre, bisognerebbe avviare qualche studio di genere, indagando alcune tipologie editoriali e il loro intreccio, al di là delle singole storie aziendali. Ad esempio, sarebbe molto interessante studiare alcuni ambiti di mercato che, nel complessivo sottosviluppo dell’editoria italiana, hanno avuto un indiscusso ruolo di traino. Penso all’editoria scolastica, che è un settore ancora tutto da indagare, o all’editoria per l’infanzia, ma anche alla cosiddetta letteratura rosa. Una storia che riuscisse a mettere in relazione gli aspetti ideativi e produttivi con il mercato di riferimento sarebbe molto interessante. Naturalmente per questi settori c’è un problema di reperibilità della produzione, che, a differenza della varia e della saggistica, non sempre è stata conservata dalle biblioteche.
 
Da un punto di vista metodologico, quali sono le maggiori difficoltà che si incontrano quando si affronta il mondo delle case editrici?
Uno dei problemi maggiori è la complessità delle componenti che interagiscono nell’editoria, nei cui confronti occorre sempre tener presente storia economica, storia culturale e biografia personale dell’imprenditore. Inoltre, non bisogna mai dimenticare che l’editore non è l’autore, distinzione che rende sempre difficile dire fino a che punto le responsabilità di ciò che stiamo studiando sono dell’editore o di qualcun altro. Insomma, è sempre necessario calibrare le diverse componenti che intervengono nella pubblicazione di un libro, visto che indubbiamente il ruolo editoriale è sempre intrecciato con altri. Si tratta di far emergere ogni volta lo specifico dell’editore.
 
Per gli storici sarebbe utile una teoria dell’editoria sufficientemente articolata?
Certo, se ci fosse, gli storici la utilizzerebbero o almeno si confronterebbero con essa. Non so però se sia così facile elaborarla. Naturalmente occorre tener presente anche il problema dei tempi storici, visto che, seppure alcune peculiarità sono rimaste le stesse da Manuzio ai giorni nostri, le epoche storiche incidono sempre sulle tipologie e sui modelli del lavoro editoriale. Di conseguenza, la tipologia dell’editore è estremamente varia e non facilmente riconducibile a un discorso teorico unitario che non sia estremamente generale. Ogni volta, quindi, si tratta di individuare lo specifico di una vicenda editoriale, facendo riferimento a competenze che sono al contempo storiche, economiche e culturali. E per questo che, dal punto di vista del lavoro storiografico, quello editoriale è un ambito estremamente ricco, anche se non vorrei attribuirgli un’importanza più grande di quella reale. Arnoldo Mondadori non è più importante di De Gasperi, e anche dal punto di vista economico la dimensione dell’editoria in Italia è rimasta sempre contenuta. Nondimeno, quello editoriale resta un settore significativo, soprattutto per coloro che leggono e s’interessano alla cultura.
 
E non solo, visto che l’editoria contribuisce a formare la cultura generale di un paese…
Indubbiamente. Senza dimenticare che l’industria editoriale non si esaurisce nel mondo del libro.
 
La famosa affermazione di Garin «Non si fa storia della cultura senza fare storia dell’editoria» resta valida in un contesto in cui il libro sembra aver perso la sua centralità all’interno del sistema culturale?
L’apoteosi del libro è indubbiamente all’inizio del secolo scorso. In seguito, altri mezzi di comunicazione ne hanno insidiato il primato, come la radio, il cinema, la televisione, la rete. Per ognuno di questi passaggi bisognerebbe però verificare quanto della cultura e dei modi di produzione legati alla carta stampata e al libro si siano trasferiti e trasformati con il cambiamento di supporto. Insomma, si deve sempre partire da Manuzio. E un po’ come studiare il latino rispetto alle lingue romanze. Detto ciò, il ruolo di mediazione culturale proprio dell’editoria continua a essere importante e ad agire anche laddove sembra essere inesistente. In più, c’è da tener presente il mutamento dei modelli culturali di riferimento. Negli anni cinquanta e sessanta, il modello di riferimento era chi scriveva, oggi invece, almeno per i giovani, è colui che media. E ciò perché la trasmissione e la mediazione culturale assumono ogni giorno di più un ruolo centrale nella nostra società. Il che concorre a spiegare il crescente interesse per l’editoria riscontrabile negli ultimi anni.
 
Lei ha studiato i casi di Arnoldo Mondadori e Ulrico Hoepli. Cosa ci insegnano queste due storie editoriali esemplari?
La storia di Mondadori è la storia del passaggio da un’editoria fondamentalmente artigiana a un’editoria industriale, la quale però – almeno nella fase di Arnoldo – continua a far leva sulla qualità, pur tentando sempre di conquistare nuovi lettori. Per Mondadori, non bastava produrre testi, occorreva realizzare un mercato più vasto. Il caso di Hoepli è diverso e in parte legato a una tipologia straniera, quella tedesca. Egli preferiva rivolgersi a una clientela qualificata e internazionale, mantenendo le tirature basse e puntando su una produzione costosa. Su un altro versante, però, con i suoi manuali, Hoepli ha inventato un canale di diffusione per un’infinità di testi a funzione pedagogica, creando così una collana che corrisponde a una fase precisa dell’evoluzione storica italiana. In fondo, paradossalmente, l’editore più interclassista dell’Italia liberale è stato proprio Hoepli, i cui manuali finivano in ogni tipo di biblioteca, da quella di D’Annunzio a quella del piccolo artigiano. La vicenda editoriale di Hoepli rinvia ancora una volta al problema centrale dell’editoria italiana, vale a dire la necessità della creazione di un mercato. Questo è stato sempre il problema costante di un’editoria – e quindi di una cultura – tutto sommato più forte e ricca delle sue reali possibilità operative. Il nostro mercato, infatti, è sempre stato troppo ridotto rispetto alle potenzialità ideative e produttive del mondo editoriale.
 
Mondadori e Hoepli appartengono a quel modello editoriale lombardo – di solito contrapposto a quello toscano-piemontese – che ha finito per imporsi nell’editoria italiana…
Gli editori che si sono imposti sono quelli che hanno accettato l’imprenditorialità, pur con tutte le difficoltà legate al mercato di cui ho detto. A questo proposito, va però ricordato che Mondadori è riuscito a diventare l’editore che è diventato grazie soprattutto ai periodici. I libri da soli non sarebbero bastati.
 
Nel dopoguerra, per almeno tre decenni, ha avuto molto prestigio il modello dell’editore di cultura, più attento al valore culturale e politico della sua produzione che al mercato…
Un editore non preoccupato del mercato deve avere alle spalle qualcuno che lo sostenga economicamente, come è stato il caso di Alberto Mondadori o di Giulio Einaudi. Altrimenti alla fine non ce la fa, perché i conti prima o poi si pagano. E ciò vale per tutti. Anche il piccolo editore deve sempre porsi il problema delle dimensioni del suo mercato di riferimento, cercando di comprendere a quali condizioni può sopravvivere, sfruttando evidentemente le potenzialità dell’evoluzione tecnologica che consente di ridurre i costi. Da questo punto di vista, gli sviluppi dell’editoria elettronica sono destinati a sconvolgere alcuni equilibri tradizionali del mondo editoriale, ad esempio nel rapporto tra autori ed editori.
 
Nell’eterno conflitto tra i soldi e le idee, per molti anni sono sembrate contare solo le idee, mentre oggi – quasi per una sorta di radicale contrappasso – si ha l’impressione che contino quasi esclusivamente i soldi. Non le sembra?
È un’impressione che condivido. Va detto però che anche all’epoca in cui dominava l’editoria d’idee (un modello editoriale che ha costretto diversi editori a gettare la spugna) esisteva pur sempre anche un’editoria più attenta al mercato e alle vendite. Il panorama era quindi più equilibrato di quanto si possa pensare. Oggi invece la situazione mi sembra tutta sbilanciata. Non a caso molte delle case editrici importanti degli anni cinquanta, sessanta e settanta sono ormai solo delle sigle di proprietà di grandi gruppi. Naturalmente c’è anche un problema di quantità della produzione. Infatti, a quel tempo, le case editrici che hanno inciso sulla formazione culturale di intere generazioni (Laterza, La Nuova Italia, Einaudi, ecc.) pubblicavano molto meno di oggi e i loro libri potevano avere una funzione importante anche con tirature modeste, le cui vendite si prolungavano nel tempo. Erano imprese culturali, che spesso però possedevano un settore scolastico che contribuiva a compensare i bilanci. Inoltre, erano l’espressione di un’editoria ancora molto artigianale, dove magari il proprietario correggeva anche le bozze. Quando poi su strutture di questo tipo si sono innestati i modelli dell’industria e del marketing, la situazione spesso non ha retto, perché le dimensioni di queste case editrici non erano industriali né avevano lo spazio per espandersi. E qui si torna al problema di fondo dell’estrema debolezza del mercato italiano.
 
I confini ristretti del nostro mercato hanno prodotto nell’editoria italiana una marcata dipendenza dai capitali extra-editoriali. Lo ha segnalato anche lei in un saggio che figura nel volume collettivo La mediazione editoriale…
È un fenomeno storico. Nel mondo editoriale sono sempre coesistiti due atteggiamenti diversi. Da un lato, abbiamo Hoepli, il quale, tranne all’inizio, quando ha avviato l’attività facendo debiti in famiglia, per il restò si è sempre autofinanziato, associando all’attività editoriale l’attività libraria, vale a dire un’attività commerciale. Hoepli non ha mai fatto un passo più lungo della gamba e non ha mai corso rischi, tanto è vero che non aveva neppure uno stipendio. Insomma, il suo è un atteggiamento molto poco imprenditoriale, almeno secondo certi modelli. Dall’altro, abbiamo invece Mondadori che rappresenta il caso inverso, giacché ha vissuto a lungo grazie ai capitali esterni, ad esempio quelli di Borletti. In seguito, è diventato padrone di se stesso, ma tutta la fase del rilancio della casa editrice è legata ai finanziamenti IMI e in seguito alla Borsa. La sua attività esprime una dimensione pienamente industriale che ha avuto successo, grazie anche alle dimensioni dell’impresa, che possiede una cartiera e fa lavori in conto terzi. Mondadori è un’impresa che svolge diverse attività tra cui anche i libri, i quali, da soli, non sarebbero certo bastati a raggiungere una tale dimensione industriale. Ora il problema dei capitali è risultato molto oneroso per alcune case editrici che, senza avere la dimensione di Mondadori, si sono impegnate in investimenti importanti, ad esempio all’epoca dei primi tascabili, pagando in seguito prezzi molto elevati. Proprio le conseguenze negative degli investimenti fatti in passato hanno prodotto l’attuale situazione, caratterizzata dalla prudenza e dalla scarsezza d’innovazioni, dove si preferisce puntare tutto sui best seller.
 
Così oggi buona parte dell’editoria italiana appartiene a gruppi la cui attività primaria non è più legata ai libri…
È un dato di fatto, le cui conseguenze possono essere sia positive sia negative. In un contesto del genere, infatti, possono esservi comportamenti che danno luogo a eccellenti prodotti editoriali, condotti in piena libertà e con grande efficacia dal punto di vista dell’esito, come pure possono verificarsi forme d’impoverimento culturale. Di per sé il dominio dei capitali extraeditoriali non è negativo né positivo; si tratta di vedere quali sono gli attori e come svolgono il loro ruolo. E però vero che oggi le grandi iniziative editoriali sembrano scarseggiare. L’ultimo prodotto editoriale di grande rilievo è stata forse YEnciclopedia Europea fatta dalla Garzanti negli anni settanta. Oggi imprese di questo genere sono quasi impensabili, visto che le case editrici devono realizzare rapidamente il rientro degli investimenti. Di conseguenza, diventa più semplice comprare o tradurre.
 
Questa situazione la preoccupa?
Siamo di fronte a una situazione senza alternative. Purtroppo, l’editoria libraria non è in grado di autoalimentarsi più di tanto. Quindi necessita di altre attività – editoriali o extraeditoriali che la finanzino. Il che spiega anche la vasta area dell’editoria sovvenzionata in modo più o meno diretto da istituzioni di vario genere.
 
Per molto tempo si è pensato che l’editoria fosse un mestiere che s imparava facendolo, motivo per cui non esistevano scuole che insegnassero il mestiere d’editore. Da qualche anno, invece, la situazione sta cambiando, come dimostra anche la creazione di corsi destinati alla formazione delle professionalità legate all’editoria…
Durante l’età d’oro otto-novecentesca, la nostra editoria, che era ancora in gran parte legata alla tipografia, poteva contare su un’alta qualificazione professionale dei tipografi, dei correttori e degli altri mestieri legati alla preparazione e alla fabbricazione del libro. A quell’epoca non mancava la pedagogia conseguente, attraverso le scuole del libro ma anche attraverso la ricerca dell’eccellenza del prodotto finito. Si pensi che uno degli elementi della fortuna editoriale di Hoepli fu la scelta di delegare la correzione delle bozze al tipografo, riducendo così drasticamente le spese redazionali. Ciò gli permetteva di avere una redazione molto esigua, nonostante il gran numero di opere pubblicate. Naturalmente, questo sistema non sarebbe stato possibile se i tipografi non avessero lavorato con grandissima cura. In seguito però abbiamo assistito a poco a poco all’impoverimento del mestiere, anche se, fino agli anni cinquanta e sessanta, la struttura interna delle case editrici è rimasta sufficientemente robusta per garantire l’elevata qualità dei risultati. Più tardi, gli editori hanno iniziato a ridurre sempre di più le loro redazioni, impoverendo di conseguenza la qualità dei prodotti finiti. E quando si sono resi conto che il problema della qualità stava diventando grave, sono corsi ai ripari esternalizzando alcune funzioni editoriali. Dopo essere state praticamente soppresse, queste funzioni venivano reintrodotte nel ciclo produttivo, ma all’esterno dell’azienda. Naturalmente, hanno continuato a esistere anche alcune isole felici, in cui si è continuato a lavorare come in passato, sebbene ciò non fosse sempre economicamente vantaggioso. Negli ultimi anni, le conseguenze di tale evoluzione hanno favorito la ricerca di una maggiore professionalità, anche perché ci si è resi conto che alcuni mestieri del libro sono ancora importanti e non trascurabili. A ciò hanno contribuito anche alcune realtà culturali e accademiche, che hanno spinto in questa direzione, dopo aver constatato che alcune edizioni di testi lasciavano troppo a desiderare. Oggi, l’esigenza di avere testi curati meglio è diffusa e sentita, sebbene non sempre si traduca nella realtà dei fatti. In una società che, complessivamente, è sempre meno capace di leggere e di scrivere, il bisogno di persone in grado di preparare come si deve i testi è una necessità avvertita anche negli ambienti scientifici e informatici, dove si manifesta sempre più la disponibilità a collaborare con i laureati in lettere, che non sono più considerati come dei parenti poveri.
 
Anche l’editoria sente questo bisogno di maggiore qualità?
Penso di sì, se non altro come bisogno indotto dall’esterno e come necessità di una maggiore professionalità da costruire nel tempo. La qualità dei risultati si costruisce a poco a poco. Ora, l’editore può cercare di ottenerla con persone capaci oppure no. Se trova persone capaci, è più probabile che scelga queste. E ciò vale anche per l’editoria elettronica, la quale risparmia sulla carta, ma non deve risparmiare sulla lavorazione e sulla preparazione del testo. Anche l’editoria elettronica ha bisogno di bravi redattori. Insomma, sono molti gli editori che avvertono la necessità di intervenire concretamente su questo terreno. Ecco perché negli ultimi tempi sono nati diversi corsi e master di editoria, tra cui anche quello che abbiamo avviato all’università di Milano.
 
Qual è stata la risposta degli editori a queste iniziative?
Il nostro master per redattore editoriale è nato solo da un anno, quindi per adesso siamo ancora agli inizi. Prima di fare un vero bilancio, bisognerà vedere quali saranno gli sbocchi professionali concreti per coloro che lo hanno frequentato. Finora, l’accoglienza degli editori è stata molto positiva, come credo che sia avvenuto anche per il master di Bologna organizzato da Umberto Eco. Gli editori si sono dimostrati disponibili sia a intervenire come docenti, sia a ospitare gli stages indispensabili alla formazione. Inoltre, almeno in linea di principio, si sono anche detti disponibili a trasformare almeno una parte di tali stages in forme di assunzione o di collaborazione. L’editoria è però un’attività che economicamente ha margini modesti, quindi gli sbocchi occupazionali sono abbastanza limitati. Ecco perché il nostro master ha accolto il primo anno solo venti persone, mentre per il secondo arriveremo al massimo a venticinque-trenta. Purtroppo non esistono spazi per uno sviluppo più ampio. Nell’editoria non ci sono posti vacanti per tutti gli ottocento candidati che volevano partecipare al nostro master.
 
Come spiega questo successo? Il mestiere dell’editore esercita ancora tanto fascino?
In effetti, questa professione continua ad affascinare molti giovani e meno giovani. Più in generale, il mondo della comunicazione e della trasmissione della cultura interessa molte persone che desiderano un’attività di tipo culturale. L’insegnante non è più una figura di richiamo per i giovani, l’editore-invece sì. Inoltre, quella editoriale è considerata un’attività alla portata di chiunque abbia un minimo di cultura. Molti però non si rendono conto che non si tratta certo di un mestiere con cui ci si arricchisce.
 
A Milano, come è maturata la scelta di creare un master di editoria?
Come facoltà di Lettere, ci siamo resi conto che quella dell’editoria è una delle prospettive professionali privilegiate per un laureato che non voglia abbracciare la strada dell’insegnamento. Quindi era giusto offrire un percorso di specializzazione ulteriore. Come ateneo milanese, inoltre, siamo convinti che il settore dei beni culturali, dell’editoria e della comunicazione sia per noi un settore strategico, visto che a Milano le connessioni con queste realtà produttive sono abbastanza naturali. Oggi, l’università italiana sta attraversando una fase di trasformazione in cui, oltre alla specializzazione, anche le relazioni con il mondo esterno stanno rapidamente aumentando, nel tentativo di proiettare gli insegnamenti in un orizzonte occupazionale più preciso. Da questo punto di vista, a Milano, i settori professionali dell’editoria e della comunicazione rappresentano una prospettiva realistica, sebbene non costituiscano gli assi economicamente più forti della città. Sono però gli assi culturalmente più significativi, e quindi un’esperienza come la nostra a Milano si giustifica pienamente. Oltretutto, nella nostra città si è attenuata prima che altrove la forte proiezione verso l’impiego pubblico, che era un atteggiamento tradizionale del laureato in lettere. Qui infatti si è sviluppato un atteggiamento più imprenditoriale, sia attraverso attività svolte in proprio sia attraverso il lavoro dipendente ma all’interno di un’azienda culturale. L’università deve accompagnare questa evoluzione. La preparazione del laureato in Lettere è per ora ancora abbastanza generalista da poter consentire le diverse attività a cavallo tra editoria, comunicazione e pubblicità, attività per altro i cui confini non sono sempre bene definiti. In futuro, l’università dovrà essere ancor più decisamente orientata alla realtà produttiva, il che significa che, per quanto riguarda la laurea in Lettere, accanto alla formazione orientata all’insegnamento, bisognerebbe crearne anche una più specialistica orientata al mondo del giornalismo, dell’editoria e della comunicazione. Vedremo se ci sarà lo spazio per farlo.
 
Qual è il bilancio provvisorio del primo anno di questo vostro master?
Mi pare che complessivamente il modello abbia funzionato, e infatti le modifiche che apporteremo per le prossime edizioni saranno modeste. Vorrei però sottolineare che questo master non è stato organizzato solo dall’università, ma è nato in collaborazione con la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e con l’Associazione Italiana Editori. Essere riusciti a realizzare tale collaborazione mi sembra particolarmente importante, anche perché ciò consente all’università di acquisire competenze che sono esterne alla facoltà di Lettere. Credo che sia un esempio positivo d’integrazione dell’università con i settori di riferimento che stanno al suo esterno. Tuttavia, questa disponibilità vivrà nel futuro, al di là della novità del primo anno, solo se gli editori riconosceranno il fondamento e Futilità della nostra iniziativa. Va poi detto che, probabilmente, oltre agli aspetti propri della formazione, il mondo editoriale ha anche apprezzato che il suo mestiere venisse preso in considerazione dal mondo universitario. Si tratta di un riconoscimento che sicuramente valorizza l’editoria, per troppo tempo trascurata dal mondo accademico.
 
Avete altri progetti in questo ambito?
Vorremmo realizzare un centro per la conservazione, l’acquisizione e la valorizzazione del libro, dell’illustrazione e della comunicazione editoriale. Quindi non solo gli archivi editoriali, come già fa la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, ma proprio i prodotti editoriali. Cercheremo quindi di acquisire – quando possibile – collezioni significative di libri e di periodici, valorizzando contemporaneamente collezioni che già abbiamo. Proveremo a muoverci soprattutto sul terreno di quei testi che di solito nelle biblioteche non ci sono, dai libri per l’infanzia ai periodici illustrati, dalla letteratura popolare al fumetto, al libro scolastico. Vorremmo poi riunire questo patrimonio in un unico luogo, mettendolo a disposizione degli studiosi. Come per le facoltà scientifiche si comprano apparecchiature, così per le facoltà umanistiche cercheremo di comprare fondi di questo genere. La differenza è che le apparecchiature diventano obsolete nel giro di pochi anni, mentre questi documenti si valorizzano nel tempo.