Per la poesia l’equazione «diffusione nazionale = qualità» sembra essere un parametro di valutazione troppo sbrigativo. Non c’è infatti alcuna garanzia che una nuova raccolta solo perché pubblicata da un grande editore interessi un pubblico più esteso di quello raggiunto da un editore minore. Ciò che conta davvero non è certo un dato rozzamente quantitativo (il numero delle copie vendute) quanto il prestigio della tradizione su cui può contare il testo. Un prestigio costruitosi nel corso dei decenni sulla qualità delle opere pubblicate e sull’autorevolezza critica dei direttori e dei consulenti che hanno animato le numerose collane.
Nella Nota dei curatori premessa alla loro antologia Poeti italiani 1945-1995, Maurizio Cucchi e Stefano Giovanardi illustrano così il criterio secondo il quale sono stati selezionati gli autori degli ultimi anni: «Per le esperienze poetiche più recenti si è […] stabilito di prendere in considerazione solo i poeti che entro il 1995 avessero pubblicato almeno una raccolta presso un editore a diffusione nazionale. Pur nella consapevolezza delle difficoltà che soprattutto l’ultima generazione ha incontrato nell’accedere a canali editoriali “normali”, è sembrato doveroso offrire al lettore di un lavoro di questo genere la possibilità di verificare per suo conto il valore degli autori prescelti e la plausibilità delle tendenze individuate: una verifica che il “sommerso” dell’editoria a pagamento o dell’esoeditoria nelle sue varie forme non avrebbe potuto assolutamente consentire».
Nelle argomentazioni fornite lo confesso certi nessi logici continuano a sfuggirmi; una cosa però mi sembra chiara: questa Nota è un documento di non trascurabile interesse. Solo dieci o quindici anni prima, quale critico avrebbe tanto serenamente confessato di farsi orientare in modo decisivo, nelle sue scelte, dal prestigio puramente editoriale di certe opere? Quale critico avrebbe così incondizionatamente accreditato i canali editoriali maggiori («normali»), liquidando il resto come «sommerso»? Quale critico avrebbe indicato nella «diffusione nazionale» la griglia preliminare al proprio giudizio sulla qualità e sul rilievo di un’opera poetica?
Come è noto, le scelte di Cucchi e Giovanardi non hanno riscosso grandi consensi; l’equazione «diffusione nazionale=qualità», in particolare, è parsa a molti un parametro troppo sbrigativo per valutare la poesia di questi ultimi anni. In effetti, a dispetto della sua apparente oggettività, il concetto stesso di «diffusione nazionale» è piuttosto discutibile, specie se applicato alla poesia. A che cosa si riferisce? Alla distribuzione di cui una certa casa editrice dispone? Alla sua posizione nel mercato? Sappiamo bene che altro è la capacità distributiva di un’azienda editoriale nel suo complesso, altro è l’effettiva presenza nelle librerie delle sue collane di poesia, e in particolare delle singole novità. Detto in termini più spicci: non c’è nessuna garanzia specialmente oggi che una nuova raccolta, per il solo fatto di essere pubblicata da Mondadori o da Einaudi, interessi un pubblico più esteso di quello raggiunto da un libro uscito presso un editore minore; senza parlare poi delle vendite. Oltretutto, è noto che alcuni piccoli e medi editori dispongono da tempo di una distribuzione nazionale piuttosto efficiente, e che la circolazione dei libri di poesia è comunque del tutto anomala rispetto ai modelli «normali».
Evidentemente, non è questo l’aspetto decisivo. Quando Cucchi e Giovanardi parlano di «diffusione nazionale» pensano in realtà a tre o quattro grandi editori. A fare della presenza nelle loro collane di poesia un elemento qualitativamente discriminante non è certo un dato rozzamente quantitativo come l’ampiezza della distribuzione, l’effettiva presenza nelle librerie di Cuneo, Viterbo, Enna, o poniamo il numero di copie vendute: è il prestigio di una tradizione.
Quel prestigio si è costruito, nel corso di decenni, sulla qualità delle opere pubblicate, sull’intelligenza e sull’autorevolezza critica dei direttori e dei consulenti che animavano le collane. Allo «Specchio» Mondadori, alla «bianca» Einaudi, alla «verde» Garzanti per citare solo le principali contribuivano più o meno direttamente figure del livello di un Sereni, di un Pasolini, di un Fortini; le scelte nascevano da ipotesi critiche meditate, di largo respiro, da un dibattito vivace e continuo; i cataloghi rispecchiavano ab bastanza fedelmente e tempestivamente quanto di meglio offriva la poesia contemporanea; la loro ampiezza li metteva in grado di dare spazio a una molteplicità di autori e di tendenze.
Cucchi e Giovanardi si comportano come se negli ultimi vent’anni la situazione fosse rimasta sostanzialmente immutata, come se le grandi collane fossero ancora lo specchio fedele (ed esclusivo) della poesia di oggi. D’altra parte, non possono negare «le difficoltà che soprattutto l’ultima generazione ha incontrato nell’accedere a canali editoriali “normali”».
Quali sono i motivi di queste difficoltà? Se cercassimo di approfondirli, risalendo la corrente del secondo Novecento poetico, ci troveremmo di fronte uno scenario forse un po’ più complesso, articolato e contraddittorio di quello che ci viene proposto nel «Meridiano».
In «Poesia ‘94», Roberto Deidier delinea tre fasi di una storia dell’editoria italiana di poesia dal dopoguerra a oggi.
La prima, che arriva fino agli anni Sessanta, è caratterizzata secondo Deidier da un rapporto organico tra grandi collane e piccole case editrici. In quegli anni, editori minori come Scheiwiller svolgono la funzione di scopritori (o riscopritori) di autori e di opere di poesia, le loro iniziative sono spesso di stimolo agli editori maggiori. L’attenzione dei critici è assidua e a largo raggio, e non fa distinzione tra pubblicazioni «di serie A» e «di serie B»: gli esordienti vengono presi in considerazione (per stroncarli, magari) senza pregiudizi editoriali.
La seconda fase corrisponde al cosiddetto «boom» della poesia, e coincide grosso modo con il decennio 1970-1980. In questo periodo, scrive Deidier, «i piccoli editori iniziavano a perdere la loro funzione storica, al punto da chiudere, trasformarsi o cessare di pubblicare esordienti, mentre le collane di Feltrinelli, Einaudi, Guanda mostravano improvvisamente aperture insolite». Nel 1974 Einaudi accoglieva l’opera prima di Patrizia Cavalli, Le mie poesie non cambieranno il mondo, nella collana bianca, nel 1976 Maurizio Cucchi pubblicava il suo primo libro, Il disperso, direttamente nello «Specchio» Mondadori; nel 1980 Valerio Magrelli, giovanissimo, esordiva da Feltrinelli con Ora serrata retinae. E si potrebbero fare altri esempi.
Al nuovo scenario editoriale corrisponde in quegli anni un mutamento significativo che investe il pubblico e la circolazione dei libri di versi. Readings, festival, iniziative spettacolari di vario genere cominciano ad affiancarsi alla lettura «privata». Senza perdere del tutto i suoi caratteri elitari, la poesia italiana sta raggiungendo nuovi lettori, in un clima di grande fermento intellettuale e di rapida crescita culturale.
Negli anni Ottanta terza fase di questa vicenda il «boom» della poesia è in riflusso. Ma in riflusso è, più in generale, l’interesse per la cultura, per l’arte, per la politica. E la stagione del disimpegno, nella quale mette profonde radici anche in Italia l’antintellettualismo di cui si stanno oggi raccogliendo i frutti. La poesia ne fa le spese più di altri generi letterari. Certo, le grandi case editrici continuano a pubblicare libri di versi, ma gli spazi si restringono progressivamente, soprattutto per gli autori esordienti, o addirittura si chiudono, come nel caso di Feltrinelli. Per la prima volta nella storia dell’industria culturale italiana, i problemi di bilancio e di marketing affiorano clamorosamente in primo piano, spesso offuscando le questioni più propriamente letterarie. Le istanze del «mercato» colonizzano il senso comune, irridendo ogni altro valore come futile e parassitario. La poesia scopre di essere un ramo dell’editoria, fonte di scarsissimi profitti quando non di perdite, un fiore all’occhiello sempre più scomodo e sempre meno prestigioso.
Il decennio successivo quello appena trascorso vede una intensificazione delle tendenze descritte. Il credito della poesia scende ai minimi storici. Quotidiani e settimanali arrivano a ridurre pressoché a zero le recensioni di nuovi libri di versi (compresi quelli «a diffusione nazionale»), gli spazi editoriali si restringono ulteriormente. Oltre ai classici e ai nomi più eminenti del Novecento, le grandi collane superstiti continuano a pubblicare col contagocce quasi soltanto i libri di poeti emersi al più tardi nei primi anni Ottanta: gli esordi accreditati dai canali «normali» sono pochi, e spesso hanno scarso seguito presso la critica e i lettori. Se dovessimo basarci sui cataloghi delle grandi case editrici, saremmo portati a concludere che negli ultimi vent’anni e si esclude il revival del dialetto nella poesia italiana non sia successo niente di nuovo: la situazione è ibernata.
Chiunque abbia seguito la produzione in versi degli ultimi dieci-quindici anni sa che non è così. La fine di secolo si presenta, anzi, come un periodo di importanti trasformazioni; la più rilevante è forse l’acutizzarsi della crisi della Neoavanguardia e dello sperimentalismo, che avevano condizionato in modo decisivo la scena italiana a partire dagli anni Sessanta. Tramontato il mito del Moderno, e in assenza di nuove poetiche dominanti, il panorama si apre, si arricchisce di esperienze diverse. Sono scritture che si muovono ormai ciascuna sulle proprie gambe, allo scoperto, senza il fuoco di protezione di ideologie ed estetiche «di squadra». I nomi più rappresentativi di questa fase sono ormai ben noti a lettori e critici, ma sarebbe inutile cercarli nei cataloghi delle grandi collane. A registrare i fermenti poetici degli anni Novanta meno appariscenti di quelli dei decenni passati, ma non meno rilevanti — è un arcipelago di piccole e piccolissime case editrici sparse in tutta la penisola: Crocetti, Jaca Book, Marcos y Marcos, Marsilio, Sestante, Empirìa, Donzelli, Pegaso, Campanotto, Book, Fazi, e molte altre che non possiamo elencare.
Dal punto di vista del mercato, il revival della piccola editoria poetica non è certo un dato macroscopico; resta comunque un sintomo dell’incapacità delle grandi collane tutte ripiegate «in difesa», e ridotte all’osso da tagli e ristrutturazioni di dare conto dei mutamenti in corso.
Probabilmente il pubblico della poesia non è cresciuto in questi anni, ma non è neppure diminuito quanto farebbero pensare certe strette editoriali. Numeri non ne ho; e se anche li avessi, direbbero poco su un mercato «di nicchia» come questo. Più che contare i consumatori di versi, sarebbe forse utile capire chi siano oggi i lettori di poesia soprattutto quelli nuovi, o potenziali e come siano cambiati. Le rare novità proposte dalle grandi collane sembrano rivolgersi al pubblico di dieci-quindici anni fa; chi, come Bompiani con la collana «InVersi» (diretta da Aldo Nove), ha creduto di identificare un nuovo target «giovanile» della poesia e ha cercato di sedurlo con proposte tardo-avanguardistiche in veste pop, ha dovuto prontamente ricredersi. Nonostante la «diffusione nazionale» e il massiccio sostegno pubblicitario e giornalistico, gli autori proposti da Nove hanno riscosso interesse e consensi assai inferiori a quelli di cui da tempo godono poeti confinati nel cosiddetto «sommerso». Evidentemente, la circolazione della poesia italiana di oggi passa per canali sempre meno «normali».