Se ci limitiamo a guardare alla diffusione della lettura nella popolazione italiana -ola spesa libraria pro capite i dati ci porterebbero alle solite conclusioni più o meno apocalittiche. Anche perché tra il 1999 e il 2000 gli italiani hanno ricominciato a leggere di meno. All’interno di questo scenario vi sono però segnali che lasciano intravedere importanti trasformazioni di processo in atto nelle aziende della filiera, nella distribuzione, nei processi di formazione e di riqualificazione professionale, nella stessa legislazione del settore. Decisiva diventa la capacità di saper trasformare le debolezze del sistema in opportunità di sviluppo.
L’annuale appuntamento di Tirature rappresenta ormai l’occasione per fare il punto sugli ultimi dodici mesi trascorsi di editoria. Un punto che per un verso risulta di fin troppo facile definizione, contraddistinto com’e da un mercato ormai da molti anni caratterizzato da una velocità di crescita decisamente modesta. Tale non solo da impedire al settore di recuperare le distanze che lo separano da paesi e mercati tradizionalmente più sviluppati, ma da rendere minacciata la posizione competitiva del nostro paese all’interno dello scenario internazionale dell’industria dei contenuti editoriali.
Per di più con un importante, e preoccupante, sintomo di novità. Dopo un decennio in cui la lettura degli italiani aveva fatto registrare modesti ma continui segnali di crescita, tra il 1999 e il 2000 l’andamento si capovolge di segno: nel 1999 il numero di lettori inizia a scendere dal 41,9% al 38,3% e i dati relativi allo scorso anno confermano una sostanziale stabilità di questo valore. In un solo anno una perdita secca del 3,6% (Tab. 1). Possiamo aggiungere a questi lettori quelli che Istat ha definito «lettori morbidi»: persone che dichiarano di aver letto nel corso dell’anno solamente libri di narrativa rosa, gialli, fantascienza, oppure consultato un manuale o una guida turistica, ecc. Nel 1995 questa popolazione rappresentava il 13% degli italiani con più di sei anni di età. Anche se in realtà pure qui la penetrazione della lettura avrà avuto andamenti non diversi dobbiamo supporre rispetto alla situazione generale. Dobbiamo attendere il rilascio dei dati dell’indagine quinquennale sulla lettura per avere conferma di questa stima, ma è probabile che l’indice di lettura del nostro paese sia oggi attestato al 51,2%.
Il segnale che viene da questi dati confermati anche da un altro istituto di ricerca, la Doxa, sulla lettura infantile sembra essere chiaro: l’acquisizione di lettori occasionali e marginali che è consentita dal lento aumento dei tassi di scolarità non può essere considerata dalle imprese editoriali e dalle librerie, come un dato certo sul quale adagiarsi. Sono infatti necessarie idonee innovazioni di prodotto in grado di accompagnare i nuovi e occasionali lettori verso comportamenti di lettura più abitudinari. Oltre, naturalmente, alla riforma di una scuola, un sistema della formazione oggi incapace di «produrre» lettori abituali.
D’altra parte, come si vede, i lettori forti rimangono in questi anni sostanzialmente stabili sull’insieme della popolazione, con andamenti altalenanti e volendo essere ottimisti con un saldo tutto sommato positivo dal 1995 a oggi di ben 270 mila individui che sarebbero andati ad aggiungersi alle persone che compongono quel mercato della lettura che contribuisce a tenere in piedi una parte non trascurabile della filiera editoriale composta da editori e cataloghi di qualità, piccole case editrici di cultura e di ricerca, librerie di assortimento.
Questo scenario aiuta a comprendere il basso livello della spesa mensile pro capite per l’acquisto di libri che si attesta attorno alle 7.300 lire. Oppure il fatto forse più preoccupante di una famiglia, che non sembra considerare il libro come un acquisto in qualche modo indispensabile per il futuro dei propri figli: una recente indagine di AC Nielsen CRA sui libri acquistati dalle famiglie (era stata presentata a Bologna nel marzo scorso in occasione della Fiera del libro per ragazzi) aveva rivelato come ben il 33,6% dei genitori non avesse acquistato nell’anno precedente alcun libro non scolastico per i propri figli.
Al di là delle differenze che si possono trovare tra le diverse indagini sulla lettura e sui consumi culturali degli italiani, il dato qualitativo di fondo che emerge evidente è uno solo. Solo una parte compresa tra non più della metà degli italiani (per chi è ottimista) e un terzo, manifesta un uso consapevole di più strumenti e mezzi informativi (libri, giornali, TV, radio, Internet, periodici, ecc.), scegliendo di impiegarli di volta in volta per quello che possono offrire. In questi anni la maggior disponibilità di reddito delle famiglie nel nostro paese ha saputo tradursi almeno per una buona metà della popolazione italiana semplicemente e solo in una maggiore disponibilità di attrezzature e di dotazioni tecnologiche, non certo in una maggiore capacità di accedere a più canali informativi e a più linguaggi.
Tutte le ricerche confermano l’esistenza di un divario tra quanti hanno un rapporto stabile con i vari mezzi e format editoriali sanno scegliere quando e come utilizzarli, per quale uso di ricerca e recupero dell’informazione, o per quale tipo di svago, ecc. e quelli che ne fanno solamente un uso saltuario, monomediale, contribuendo a disegnare la geografia di un paese in cui una metà dei cittadini (o un terzo) possiede le risorse culturali e tecnologiche per approfittare delle opportunità offerte dalle tecnologie. Mentre l’altra metà (o due terzi) pur possedendo una non esigua dotazione di media all’interno delle loro abitazioni, e anche di libri acquistati o ricevuti in regalo con qualche giornale, giacché il 77 % delle famiglie (fonte: Censis, 2001) possiede in casa dei «libri» accusa pesanti handicap determinati più che da carenze di mezzi materiali, da deficit nelle competenze culturali e linguistiche, nelle motivazioni comportamentali, nelle abitudini cognitive.
Così che i dati relativi al fatturato del settore continuano a mostrare trend di crescita modesti anche se a più velocità: elevati (4-8,8%) per tutti i prodotti editoriali su supporto digitale e in pressoché tutti i tipi di canali e forme di vendita; interessanti per alcuni settori specializzati della produzione come il libro per ragazzi (-1-4,4%); modesti e sostanzialmente allineati con i tassi inflattivi per il libro di varia (3.810 miliardi di fatturato nei diversi canali e forme di vendita) e il comparto scolastico educativo (1.183 miliardi di lire); in calo per un segmento invece strategico per l’editoria italiana come quello dell’export (1,2%). Il tutto per una stima 2000 del settore che avrebbe raggiunto (con un 41,0%) i 6.732 miliardi di fatturato.
La stessa produzione tra il 1999 e il 2000 rappresenta da un altro punto di vista questo scenario: i circa 52 mila titoli pubblicati sembrerebbero essere il valore di riferimento della capacità produttiva dell’editoria italiana nell’attuale situazione di mercato. Come si vede (Tab. 2) è il valore di produzione su cui si è «inchiodata» l’editoria italiana negli ultimi quattro-cinque anni. Se teniamo conto del fatto che la crescita nel numero di titoli pubblicati per mille abitanti rappresenta un indicatore sintetico della capacità di sviluppo di un sistema editoriale (la sua capacità di rispondere con linee d’offerta alle trasformazioni e alla crescita della domanda e dei bisogni di lettura) vediamo, da un’altra angolazione, lo scenario che avevamo descritto dal punto di vita della domanda di lettura.
Non a caso vediamo poi che lo stesso numero di copie stampate e immesse dalle case editrici nei diversi canali di vendita altro indicatore delle potenzialità di assorbimento del mercato, presunte dall’editore passa, tra il 1995 e il 2000, da 289,2 milioni di pezzi a 260,5 milioni, con una perdita secca di quasi 29 milioni di copie in meno in cinque anni. Un meno 54,3% che ingloba certamente gli effetti di un mercato a «crescita lenta», ma anche, ed è il dato positivo da richiamare, maggiore attenzione della casa editrice a tutte le componenti gestionali, al controllo finanziario, e all’uso di tecnologie di stampa a bassa tiratura che in questi anni si sono diffuse nelle imprese editoriali e nella filiera della stampa.
Ma attenzione. Se andiamo a guardare altri settori contigui al libro la situazione non è poi di molto diversa. I lettori di almeno un quotidiano (compresi quelli sportivi) alla settimana sono il 57% della popolazione con più di 11 anni di età; nel 1995 erano il 63% (fonte: Istat, Multiscopo). Nel 1998 erano state distribuite (vendita più noleggio e allegati a giornali) circa 42 milioni di videocassette; nel 2000 tra videocassette e DVD siamo scesi a 41,8 milioni di pezzi (fonte: Simmaco per Univideo). La musica registrata nel 2000 avrebbe realizzato una crescita di unità vendute rispetto all’anno precedente compresa tra un +3,25% (fonte: Siae) e un + 2,3 % (fonte; Musica &. Dischi).
Tutto ciò non vuol dire che il settore dell’editoria libraria non presenti importanti segnali di novità. Novità che stanno in zone del comparto e che toccano aspetti a cui in genere si presta minore attenzione ma che tracciano il quadro di una filiera in forte evoluzione strutturale per rispondere a trasformazioni tecnologiche e cambiamenti nei comportamenti di consumo del pubblico dei lettori. Ad esempio è assai significativo il fatto che i libri pubblicati con allegati supporti digitali rappresentino ormai il 2,5% della produzione libraria complessiva, quasi triplicandosi in cinque anni. E importante perché dietro un dato di questo tipo c’è una riorganizzazione dei processi interni al lavoro editoriale; ci sono investimenti in aggiornamento e riqualificazione degli addetti, un diverso modo dell’editore di guardare a ciò che produce, una concezione del prodotto editoriale in direzione di «sistemi di prodotto» più complessi che non il semplice (e solo) «libro». I primi risultati di una indagine condotta nei mesi scorsi dall’AIE sull’organizzazione produttiva di 77 case editrici (Progetto Mastermedia) sta mostrando come le nuove tecnologie digitali e di rete stiano avendo effetti non solo (e non tanto) in innovazioni di prodotto quanto in profonde innovazioni nei processi produttivi che vanno nel senso di una maggiore flessibilità nella gestione dei contenuti editoriali oltre che di contenimento dei costi di ideazione e sviluppo dei prodotti.
Si comprende così la ragione per cui in questi anni è aumentata la partecipazione del personale delle case editrici ad attività di aggiornamento professionale: nel 2000 l’AIE aveva erogato oltre 5.400 ore corso/allievo; nel 2001 si dovrebbero superare le 14 mila. La stessa università sta avviando master e corsi post-laurea in editoria (a Bologna, all’Università Statale di Milano, al Politecnico in editoria multimediale).
Oppure il fatto che, pur esaurendosi il fenomeno dei «supereconomici», una quota consistente della produzione libraria continua a esser composta da collane e da titoli economici o semi-economici: il 28% dei titoli e il 41,3% delle copie stampate e distribuite nei canali commerciali dalle case editrici italiane hanno un prezzo di vendita che non supera le 15.000 lire a indicare un orientamento «mass-market» che è comunque acquisito dalla nostra editoria.
Negli ultimi anni, e soprattutto tra il 2000 e il 2001, si è accelerato anche nel nostro paese il processo di sviluppo di grandi catene di librerie e megastore. Nel 2000 su circa 1.300 librerie già il 23% facevano parte di catene. Nei prossimi due-tre anni si dovrebbe toccare secondo i progetti di sviluppo dei diversi operatori il 54%, con tutto ciò che comporterà in termini di razionalizzazione distributiva e di maggior appeal che questi nuovi punti vendita potranno avere sul pubblico dei clienti meno assidui, ma anche come qualche editore teme di condizionamento delle sue politiche distributive ed editoriali.
Dal 1° settembre è entrata in vigore una legge che regolamenta lo sconto massimo di vendita al pubblico dei libri e che definirà un quadro competitivo più certo tra libreria e grande distribuzione (ma vi è anche chi sostiene che uno degli effetti sarà invece di accentuare la contrazione nelle vendite del mercato di varia). Un quadro competitivo maggiormente regolamentato che soprattutto per la libreria indipendente potrà costituire un fattore di spinta per procedere a un rinnovamento delle sue strutture.
Vi è anche la nuova legge 248/2000 (la cosiddetta legge antipirateria) che potrebbe, se correttamente applicata, agire sul fenomeno delle fotocopie (571 miliardi di lire di mancato fatturato a prezzo di copertina) in due direzioni: ridurre i fenomeni più macroscopici di pirateria, grazie alla norma che limita la legittimità delle fotocopie per uso personale; e nel contempo incrementare il fatturato che gli editori ricavano dalla cessione dei diritti di fotocopiatura, oggi in Italia quasi del tutto inesistente. Sotto questo profilo, è significativo come in Italia la raccolta di royalties sull’attività di reprografia sia di soli 20 mila euro annui, a fronte, ad esempio, dei 35 milioni di euro del Regno Unito, dei 30 milioni in Germania, 10 in Spagna e quasi 5 in Francia. In altri termini se in altri paesi, specie quelli del Nord Europa, lo sfruttamento dei diritti sul mercato delle fotocopie è una fonte non trascurabile di ricavi aggiuntivi per gli editori, in Italia la fotocopiatura rappresenta una pura e semplice perdita per l’intera filiera.
Voglio dire che alcuni fenomeni che rappresentano debolezze e minacce per la sopravvivenza stessa dell’editoria italiana possono anche venir guardati come opportunità per il suo stesso sviluppo. Una delle ragioni della non lettura di libri, dell’elevato numero di deboli lettori che hanno con il libro e la libreria dei rapporti occasionali sta nel fatto che la popolazione dei 36-55enni (oltre a quella «anziana»), cioè la popolazione inserita nei processi produttivi del nostro paese, è anche quella in cui le competenze alfabetiche cioè le competenze necessarie per leggere testi in prosa (articoli di giornale, annunci, lettere, racconti, ecc.) sono a elevato «rischio», come ha recentemente mostrato una delle più importanti indagini condotte in Italia dal Cede, nell’ambito di una rilevazione internazionale Ials-Sials in 21 paesi Ocse.
Gli aspetti che caratterizzano i risultati dell’indagine condotta su un campione rappresentativo della popolazione adulta tra 16 e 65 anni possono venir così rapidamente sintetizzati. Presenza di ampi settori della società italiana a «rischio alfabetico» nelle fasce post-scolarizzate e nella fase del primo ingresso nel mondo del lavoro; in quelle dei 36-55enni; nelle fasce più anziane. Scarsa partecipazione della popolazione a livelli di istruzione post-secondaria e povertà del contesto socio-culturale in cui ancora vivono quote consistenti di popolazione.
In termini di valori assoluti vogliono dire 3,3 milioni di giovani 16-25enni, oltre 10 milioni di 46-55enni, ecc. Ma questo è anche un possibile mercato per l’editoria italiana (come lo è quello della formazione professionale dentro e fuori il lavoro, dell’apprendistato, ecc.: in analogia con quanto avviene negli altri paesi d’Europa). Cioè questa situazione esprime anche una domanda di strumenti editoriali e di servizi per recuperare il deficit alfabetico (ma anche quello relativo al calcolo matematico, ecc.) di oltre 32,3 milioni di persone. Come ha di recente evidenziato il Censis a commento di questi dati, siamo in presenza di una parte della società italiana culturalmente molto debole che fatica a decodificare gli elementi di innovazione e a metabolizzare l’incertezza sul futuro. Un quadro che oltre a spiegare le grandi paure e incertezze collettive che attraversano la società italiana indica una frattura sempre più ampia esistente nel nostro paese tra comportamenti di consumo (culturali, ma non solo) evoluti e primitivi. Per di più se si disaggregano i risultati per titolo di studio si scopre che quasi un diplomato su due (43,9%) non è esposto a rischio alfabetico (supera il livello 2: «Possiede un limitato patrimonio di competenze di base»). Un risultato che ben rappresenta il livello di volatilità delle abilità e delle competenze acquisite nei cicli scolastici e dell’incidenza che potranno avere i fenomeni nell’analfabetismo di ritorno.
Per inciso: se ricalcoliamo un po’ empiricamente la penetrazione della lettura non più su tutta la popolazione italiana, ma solo su quella in possesso delle competenze alfabetiche necessarie per poter leggere i libri, scopriamo che la percentuale di lettori si colloca tra il 70-72%. Cioè al livello degli altri paesi del Centro Europa!