Da anni, e forse irreversibilmente, i premi letterari hanno perso in rappresentatività e in autorevolezza. Il lauro che cinge la fronte dei premiati è ormai un simbolo vuoto e i lettori non seguono quasi più le indicazioni che provengono dalle giurie. Eppure in Italia il numero dei premi continua ad aumentare in modo inversamente proporzionale al loro prestigio e al loro valore reale. Tra le tante «storture» del sistema il criterio corporativo del «quest’anno il tal premio tocca a…», l’esclusione dalla competizione dei titoli che hanno avuto una clamorosa risposta di pubblico, la scarsissima informazione da parte della televisione.
Mantova, fine estate. La serata è un incanto, fresca, dolce, settembrina. Quest’anno gli organizzatori della settimana che più di ogni altra regala, soprattutto agli addetti ai lavori editoriali, l’illusione di essere in un paese civile di lettori forti, motivati, davvero interessati ai libri e ai loro autori, pare abbiano fatto un patto con il padreterno perché tutto fosse perfetto, perfino il clima. Per cinque giorni, l’afa sudaticcia della pianura padana non si è fatta sentire. In piazza delle Erbe, fra un tortello di zucca e uno stracotto di cavallo, si chiacchiera con soavità del più e del meno. All’improvviso, dai salottini romani trapela un’importante notizia: «Hai sentito? Vincenzo Cerami sta per lasciare l’Einaudi perché non gli hanno fatto vincere lo Strega». L’indiscrezione non sembra bloccare l’appetito a nessuno. E ancora: «Chissà se Starnone, dopo lo Strega, vince anche il Campiello, la settimana prossima…». Risposta, piuttosto prevedibile: «Ma no, lo vince Peppo [Giuseppe Pontiggia, effettivo vincitore dell’annuale gara lagunare, ndr] ... Una fettina di torta sbrisolona?». Fine dei commenti riservati ai due maggiori premi letterari nazionali. Nessuno ha pronunciato una parola di più. Segno che il pettegolezzo è un genere «letterario» in via di estinzione? Che la civiltà mantovana preserva dalle voci di portineria? O che i premi e i loro vincitori inducono a distinguere fra i bassi istinti, a tutto vantaggio dell’appetito?
Ogni domanda è evidentemente retorica.
Da anni, quando si parla di certami letterari, una consapevolezza disillusa sanziona che qualcosa si è rotto, forse irreversibilmente, nella loro rappresentatività, nell’autorevolezza, nella funzione di indicatori di qualità. Il lauro che cinge la fronte dei premiati è ormai un simbolo vuoto. I lettori non seguono quasi più le indicazioni che provengono dalle giurie che premiano scrittori nuovi e antichi. I premi non spingono granché la vendita dei libri.
E se si volesse datare questo scollamento, andrebbe verosimilmente ricondotto in quella metà degli anni Novanta che hanno visto l’inesorabile acquisizione di una consapevolezza analoga: il carattere obsoleto, ormai consunto, poco rappresentativo della società letteraria. Nello stesso periodo, forse non a caso, si sono consumate profonde trasformazioni anche nel mercato editoriale, sia dal punto di vista produttivo sia da quello del consumo.
Ma senza troppo divagare, riproponiamo un test che spesso circola fra chi si occupa di editoria. Quali sono i vincitori delle ultime edizioni del Campiello? In genere gli sguardi si fanno vagolanti. Paradossalmente, la nostra memoria storica pare più robusta se ci si allontana nel tempo. «In che anno ha vinto Giuseppe Berto il Campiello?» ci si chiede a dimostrazione che, nel tempo, qualcosa è davvero cambiato. Qualche istante per attivare le informazioni: «Mi pare nel 1964» è la risposta esatta che arriva otto volte su dieci, risposta che, certo, è aiutata a sopravvivere nel ricordo anche dalla piccola epica che a distanza di quasi quarant’anni continua a circondare quel libro, rifiutato da alcuni editori, perfino dai lettori della Rizzoli, e che invece arrivò in libreria per la forza di un titolo la cui suggestione collettiva fu intuita dal vecchio Angelo, più che dai suoi funzionari. I quali, poveretti, rischiarono seriamente il licenziamento dopo che II male oscuro raggiunse in una manciata di settimane le centomila copie, vendute grazie al primo posto al Campiello, in quell’anno alla seconda edizione, essendo stato fondato solo l’estate precedente. Ma anche questa è ormai nozione acquisita: gli anni Sessanta, almeno nella prima metà, videro un felice connubio fra lettore, industria editoriale e società letteraria, triangolazione che nel presente appare sempre più precaria, sfilacciata in schegge centrifughe. Tranne che nel corso della illusoria, e benefica, settimana settembrina del Festivalletteratura di Mantova, dove non si premia nessuno se non la curiosità culturale, e più specificamente letteraria, dei lettori.
Intanto, nella penisola il numero dei premi aumenta in modo inversamente proporzionale al loro prestigio e al loro valore reale. Lo segnala Max Bruschi in un pregevole capitolo dedicato ai premi letterari che compare nel secondo volume dell’aggiornamento dedicato al Novecento dalla Letteratura Garzanti.
«Secondo le stime, si sarebbe arrivati a superare la fatidica quota 2.000», avverte Bruschi, il quale non si sogna nemmeno di immettersi nel traffico di questa «tangenziale da grande metropoli», come definisce la selva oscura della premiopoli contemporanea. Ma seleziona per tipologie e opta, piuttosto, per ripercorrere nascita e sviluppo di quei sei premi (Bagutta, Viareggio, Accademia dei Lincei-Fondo Feltrinelli, Strega, Campiello, Bancarella) che per loro natura fanno riferimento ai circuiti più tradizionali della società letteraria e scientifica più elitaria (il Premio dei Lincei, il Bagutta e il Viareggio, per semplificare) o al concretismo dei resoconti di vendita (il Bancarella, istituito dai librai di Pontremoli nel 1953 che premiarono subito II vecchio e il mare di Hemingway), passando attraverso la cerchia larga dei votanti letterariamente qualificati (lo Strega, con i suoi 400 Amici della Domenica, riuniti nel secondo dopoguerra da Goffredo e Maria Bellonci nel loro salotto romano) sino ai votanti di massa (il Campiello, con i suoi oltre 300 votanti più «comuni» e anonimi fino al giorno della premiazione).
E ne segnala l’aneddotica maggiore: la riunione al ristorante Bagutta di Milano di eclettici personaggi che nel 1927, in piena normativa fascista dei Littoriali della Cultura, istituirono un riconoscimento alla qualità, il premio Bagutta appunto, all’interno del quale, negli anni, non mancarono pesanti scontri fra i sia pur pochi votanti, veri e propri duelli che produssero anche cocenti delusioni (commovente la scena di Aldo Palazzeschi ammutolito in una saletta del ristorante, arrivato a Milano sicuro di vincere, là dove invece venne sconfitto da Gadda); l’odore di fronda antifascista che nel 1929 salutò la nascita del Viareggio, sia pur con cautela italica, data la presenza accademica di Pirandello e Bontempelli; la voglia di ricostruzione postbellica che nel 1947 convinse l’industriale Guido Alberti a sponsorizzare con il marchio del liquore di sua produzione quell’ormai esuberante drappello di scrittori e intellettuali romani; il carattere decisamente confindustriale del Campiello, fondato nel 1963, che per primo affiancò a una giuria tecnica una giuria popolare, The common reader, per dirla in una lingua la cui cultura mercantile ha prestato sempre più attenzione ai lettori comuni della mecenatesca cultura nostrana.
Erano gli anni Sessanta, appunto, anni di boom economico, ma anche di desiderio di aggiornamento culturale da parte di una borghesia che sentiva il bisogno di accrediti e approfondimenti un po’ più autorevoli e duraturi di una lucida griffe o della palestra di turno, come avviene oggi. Anni in cui le librerie di casa ospitavano la Neoavanguardia e Cassola, Sanguineti e Pratolini, la norma e l’infrazione, come ha recentemente segnalato Giuseppe Pontiggia in un dibattito ospitato dal bimestrale «Liberal». Anni di racconti letterari nutriti di realtà, di rapporti più solidi fra società letteraria e società reale. Ma bando ai moralismi e alle nostalgie per le occasioni perdute della borghesia nazionale.
Oggi, il dibattito che puntualmente si ripropone sulla perdita di credibilità dei premi letterari e sul loro scarso riscontro in libreria, contiene al suo centro la questione di una società letteraria (composta, nessuno escluso, da case editrici, pagine culturali dei giornali, critica militante) tendenzialmente sempre più autoreferenziale e poco attenta alle trasformazioni in corso.
Bene ha fatto, allora, il supplemento domenicale del «Sole 24 ore» a evitare il consueto lamento e a spostare di prospettiva il problema. Succede la stessa cosa anche all’estero? Nel mese di giugno, settimanalmente, da New York, Parigi, Londra sono intervenuti Marco Vigevani, Teresa Cremisi e Mario Fortunato, la cui caratteristica professionale è di aver lavorato a lungo nell’industria culturale italiana (i primi due nell’editoria, il terzo in un settimanale di attualità politico-culturale) per poi decidere di respirare aria nuova e di confrontarsi con esperienze meno casalinghe, o condominiali che dir si voglia. Il loro punto di vista «straniato» ci pare abbia fatto emergere un dato interessante e un’indicazione. Il dato: all’estero i premi sono più autorevoli, credibili, o almeno ancora capaci di creare consensi e lettori, in nome della qualità, anche se in nessun luogo mancano le polemiche. Segretezza delle giurie, loro turnazione interna, regole che vengono stabilite e osservate, insomma non il solito italian style, per il quale un premio non si nega a nessuno, e soprattutto, questa è l’indicazione, una attenzione rivolta al libro e non all’autore. Eloquente il caso, citato da Fortunato, di Kazuo Ishiguro, due anni fa in odore di Booker Prize con Quando eravamo orfani, dato per vincitore fino al momento in cui le pagine culturali di settimanali e quotidiani hanno cominciato a obiettare sulla minore riuscita di questo romanzo rispetto al precedente, Quel che resta del giorno, già vincitore del medesimo premio. Risultato, l’assegnazione del riconoscimento a Margaret Atwood e al suo romanzo L’assassino cieco.
In Italia, al contrario, due criteri sembrano inseguirsi nelle assegnazioni e prima ancora nella composizione delle cinquine finaliste: uno di carattere vagamente corporativo, «quest’anno lo Strega tocca a…», è la frase che comincia a circolare verso febbraio; e, abbastanza coerente con il primo, il premio alla carriera, gabellato come premio all’ultimo libro. Nei paraggi di queste che potremmo azzardarci a definire «storture», sembra collocarsi l’atteggiamento degli scrittori che sempre più spesso tendono a sottrarsi dal partecipare ai premi di maggiore risonanza se non hanno la sicurezza di vincerli. Sono molti i fattori di inquietudine, ma l’aumento del rischio di frustrazione sembra provenire, paradossalmente, proprio dalla presenza della giuria popolare, considerata imprevedibile.
A loro, talvolta, rispondono simmetricamente le giurie tecniche che escludono dalla gara titoli che abbiano già avuto clamorosa risposta di pubblico. E non sempre è chiaro se tale scelta sia dettata dal desiderio di promozione di altri autori o dal timore che il vincitore ottenga un altro riconoscimento, oscurando così il potere della giuria tecnica. Come dire che Baricco va bene con Castelli di rabbia e non con Seta perché nel primo caso la giuria ha avuto la possibilità di riempire la casella «giovane scrittore esordiente». I casi Tamaro e Camilleri, sempre esclusi per principio dal Campiello, sembrerebbero confermare che le regole sono queste. Regole scritte, rivendicate, risapute? Non è chiaro.
Un’altra, più cauta riflessione emergeva dagli interventi ospitati dal «Sole 24 ore»: la latitanza della televisione dall’informazione sui premi letterari; a conferma del rapporto difficile fra media diversi libro e televisione, appunto segnalato anche da Max Bruschi. Ma i loro linguaggi non sembrano proprio comunicare. Tutte le premiazioni trasmesse, rigorosamente a notte inoltrata, dai canali della televisione nazionale per le reti berlusconiane i premi letterari e i libri non esistono tout court sembrano registrate su Marte e non a Viareggio, a Venezia, o a Roma. Riprese immobili, statiche, mortuarie che d’altronde rispondono a cerimonie di premiazione altrettanto ingessate, punitive per tutti, pensate solo per se stesse, quasi spiate di nascosto.
Verso l’una di notte di un lunedì sera, lo scorso settembre, è andata in onda la cerimonia del premio Viareggio nella quale si è visto uno scambio di interventi fra premiati e giurati che aveva del surreale. Impegnati a discutere, anzi a litigare in due battute come in una tragedia di Achille Campanile, sulla questioncina: «A cosa serve la letteratura?» i contendenti, nello spazio di una manciata di secondi, venivano prima aizzati e poi prontamente tacitati dal presentatore che rivolgendosi al presidente della Rai gli dimostrava soddisfatto la possibilità di fare un brillante dibattito culturale anche in televisione. Il presidente ne conveniva, lo spettatore meno.
Anche il Campiello ha dato il suo contributo all’incredulità. Prima dello spoglio dei voti, in onore delle vittime americane alle Twin Towers, si è osservato «un minuto di silenzio, anzi no, solo alcuni istanti per esigenze televisive» si è subito corretto il presentatore. E proprio vero, i linguaggi di televisione e cultura non si parlano.
Fin qui lo scenario sui premi letterari sembrerebbe apocalittico. In senso contrario vanno, tuttavia, registrate le tendenze a una riforma interna della struttura dei premi, ascrivibili all’estremo bisogno di promozione della lettura che si avverte sempre più pressante. Si moltiplicano i premi che a una giuria tecnica affiancano una giuria popolare, formata di lettori che spesso sono giovani. A titolo di esempio segnaliamo che il premio Grinzane Cavour, dopo i lavori di selezione di un’autorevole giuria, fa assegnare la vittoria da una giuria di ragazzi provenienti da licei italiani e stranieri. Quest’anno hanno premiato Potok e l’esordiente Diego Marani. Anche il premio Settembrini, dedicato ai racconti, prevede due riconoscimenti, uno assegnato da una giuria di professionisti e l’altro da una nutrita squadra di liceali in rappresentanza delle scuole superiori di Mestre; mentre il premio Strega collabora con l’iniziativa della Fondazione Zerilli-Merimò che diffonde nelle università americane la lettura di autori italiani.
Ogni anno alcune decine di studenti americani leggono in originale i nostri autori e poi li premiano in una delle città americane coinvolte in questa originale attività di promozione della lettura.
E verosimile che alcuni di loro irrobustiranno la schiera degli acquirenti di quei 32.000 biglietti comprati a Mantova nello scorso settembre per sentire parlare di libri, di scrittori, di romanzi, italiani e stranieri. E pensare che c’è ancora qualche intellettuale che storce il naso di fronte al successo di questo Festival. Ma un sorriso lo seppellirà.