L’anno orribile delle riviste scientifiche

Tre le principali ragioni alla base di questo annus horribilis per le riviste scientifiche. La prima etica, è nata la figura dello «scienziato imprenditore» che possiede brevetti, azioni o un’azienda personale eche spinge alla pubblicazione in rivista per aumentare il valore della propria impresa. La seconda di ordine economico: il mercato globale ha concentrato le riviste in mano a pochi editori, cosa che non garantisce la necessaria indipendenza dai monopoli industriali. La terza legata a Internet: troppo spesso gli articoli vengono messi on-line nel momento in cui escono su carta o addirittura prima.
 
Durante il convegno Image and Meaning in Science che si teneva al Massachusetts Institute of Technology (Cambridge, USA) nel giugno scorso, Ellis Rubinstein, direttore di «Science» , edito dall’Associazione americana per l’avanzamento della scienza, disse che il suo giornale vendeva più dell’inglese «Nature», pubblicato dall’editore MacMillan (americano). Al che Philip Campbell, direttore di «Nature», rispose: «ma stiamo guadagnando terreno». In realtà i due settimanali scientifici più famosi vendono insieme appena 240 mila copie, salvo numeri speciali come quelli con la mappa del genoma umano usciti nel febbraio 2001. Da solo il settimanale inglese «New Scientist» ne vende 150 mila, un successo unico in Occidente anche se va tenuto conto che in Gran Bretagna non esistono mensili di aggiornamento come «Scientific American» e «American Scientist» negli Stati Uniti o «La Recherche» in Francia.
In Italia esistono mensili specializzati, ad esempio in astronomia o in informatica, bollettini di categoria come quello dell’istituto nazionale per la fisica nucleare, organi di aziende farmaceutiche inviati in omaggio a medici e giornalisti, ma soltanto «Le Scienze» fa divulgazione in tutte le discipline. Oggi non è più la mera traduzione di «Scientific American», sollecita e accoglie contributi di ricercatori e da cinque anni oscilla tra le 66 e 77 mila co pie al mese. Qui, come nel resto dell’Unione Europea, la divulgazione scientifica vende poco ed è povera perché non esiste un mercato del lavoro scientifico (o meglio, esiste ma non è né libero né pubblico), perciò le mancano gli annunci di offerte di lavoro che garantiscono un reddito costante, coprendo circa il 50% delle spese di «Nature», «Science» e «New Scientist».
In compenso, dopo l’affermazione di «Focus» (Gruner+Jahr-Mondadori), di origine tedesca, passato tra il 1995 e il 2001 da 333 mila a 774 mila copie, sono nate via via «Newton» (RCS-Newton Press) di origine giapponese (da 216 mila nel 1998 a 268 mila all’inizio del 2001) e nel 2001 altre due testate legate a trasmissioni televisive e partite con grandi speranze, «La macchina del tempo» (Mondadori) e «Quark» (Rusconi-Hachette) per le quali, al momento in cui scriviamo, non esistono dati certificati ma soltanto voci di esiti più modesti del previsto.
D’altronde quattro mensili popolari per «scoprire e capire il mondo» (il motto di «Focus») sono tanti. Oltretutto si somigliano, con «Newton» forse più attento alla qualità delle informazioni e «Quark» più piccolo ed economico (3.500 lire invece di 5.000). Sono accomunati non soltanto dalla scrittura piana, dai temi animali, salute, Internet, suggerimenti per acquisti high-tech -, dall’esuberanza grafica e dai richiami in copertina come se tutte le notizie avessero la stessa importanza, ma anche dalla spettacolarizzazione della scienza.
Sono tanti anche perché la stampa generica, quotidiana e settimanale, dedica uno spazio crescente agli argomenti scientifici. La tendenza è iniziata sul finire degli anni Ottanta, rafforzandosi con una serie di episodi clamorosi: fusione fredda, identificazione di geni veri o presunti, clonazione della pecora, vita su Marte, e non dà segni di rallentamento. I lettori avranno notato che gli argomenti sono uguali in tutte le testate e più fitti il giovedì e il venerdì. L’uniformità di tempi e di contenuti è dovuta in parte al conformismo (fa notizia ciò di cui tutti parlano) e in particolare alla politica promozionale di «Nature» e di «Science». Con sei giorni di anticipo, le redazioni di Londra e di Washington trasmettono per e-mail ai giornalisti che ne fanno richiesta, e accettano di rispettare l’embargo fino al mercoledì sera, il riassunto in dieci righe di una dozzina di articoli in uscita nel numero successivo, con le coordinate degli autori disponibili per un’intervista. Il resto della settimana, arrivano soltanto i comunicati del Comitato nazionale delle ricerche, che si è dotato di un ufficio stampa efficiente, e il risultato si vede, dell’Ansa, delle agenzie specializzate accessibili su Internet. Questi però non hanno lo stesso peso, perché non sono stati filtrati dalla «peer review» (ci torniamo dopo).
Le notizie scientifiche pertanto non mancano e nemmeno gli scienziati pronti a commentarle, a vantare gli ultimi ritrovati e i miracoli a venire. Con l’eccezione della rivista «Sapere», gloriosa ma ormai confidenziale, e di pochi giornalisti che non si accontentano di fungere da portavoce vengono in mente Pietro Greco sull’«Unità», Yuri Castelfranchi sul «manifesto» manca una critica scientifica che sia in qualche modo l’equivalente intellettuale della (buona) critica letteraria o cinematografica. Né si parla delle condizioni di lavoro dei ricercatori, dei condizionamenti politici e finanziari, del ruolo dei linguaggi formali rispetto a quello delle idee, della scienza come attività sociale e culturale insomma.
Però non è questo che turba gli scienziati. Di recente, in occasione di quella «prima nazionale» che è stata la protesta in piazza a Roma del marzo scorso, delle conferenze di Spoleto Scienza e di quelle più specialistiche sui rapporti scienza e società che si sono tenute in Italia nel 2001, si sono lamentati di essere degli incompresi. L’opinione pubblica pare loro tanto ignorante da non capire e quindi non credere quanto affermano sull’inutilità delle cure omeopatiche o sull’innocuità dell’uranio impoverito o degli organismi geneticamente modificati. Mai come oggi, dicono, questioni scientifiche diventano oggetto di dibattito collettivo e di provvedimenti politici: e servirebbero organi di divulgazione seria che educhino la cittadinanza, tanto sprovveduta poverina, a prendere decisioni consapevoli.
La tesi dell’analfabetismo scientifico di massa non ci convince, a meno di non estenderla anche agli scienziati stessi che lavorano per lo più in ambiti così ristretti da ignorare quanto accade nelle discipline contigue, oltre che nella storia della propria. A noi l’opinione pubblica non pare né idiota né disinformata: non va dall’omeopata per un’appendicite o una frattura del femore; siccome l’uranio impoverito serve a costruire armi e munizioni, si rende conto che è ridicolo dire che non fa male a nessuno; a proposito dell’ingegneria genetica, stando ai sondaggi dell’Eurobarometro è favorevole alla ricerca di terapie geniche ma perplessa sulle nuove varietà di mais inventate dalle multinazionali per essere più produttive, posizione sensata per chi ricorda che l’Unione Europea sovvenziona gli agricoltori perché producano di meno.
La divulgazione fatta dai quotidiani italiani non sarà raffinata ma è dignitosa, per quantità e anche per correttezza, in un paese che investe nella ricerca meno della metà dei fondi che le destinano gli altri paesi dell’Unione Europea. Resta però di seconda mano, traduzione e commento a partire da fonti che sono le riviste scientifiche, quasi tutte di lingua inglese. E queste hanno appena attraversato un annus horribilis.
Come si sa, gli interventi nei convegni e le pubblicazioni sulle riviste fanno parte delle mansioni dei ricercatori. Per loro, la libertà di espressione è più un obbligo che un diritto: devono riferire del proprio lavoro con la massima onestà, cercando di tenere a bada pregiudizi personali, pressioni, interferenze. Questa è la teoria, l’ideale al quale aspirare. In pratica, pubblicare serve anche a farsi una reputazione, a ottenere un posto in un laboratorio o una cattedra, i fondi per il personale e per le attrezzature. Quindi esiste un accordo tacito tra l’editoria scientifica internazionale e i ricercatori, che non sono retribuiti per i propri articoli e nemmeno quando valutano i testi altrui. Questa valutazione il processo di revisione e di controllo («peer review») è cruciale per l’affidabilità delle riviste. Le migliori hanno «reviewers» che non approfittano del fatto che ricevono in anteprima i risultati altrui per appropriarsene o per frenarne o impedirne la pubblicazione perché essi stessi o alcuni loro amici o studenti stanno facendo ricerche nello stesso settore e sono in competizione con gli autori da valutare. Ovviamente, succede che la tentazione sia troppo forte e l’ambizione prevalga sul senso del dovere; ogni tanto scoppia uno scandalo (il giro degli specialisti è piccolo e le cose si sanno presto) e tutti si rimettono in riga fino al prossimo, ma in generale il sistema funziona.
O meglio funzionava: ma non più. Fra le molte ragioni, tre sembrano decisive. La prima è etica. E nata «la figura dello scienziato imprenditore», come ha scritto Pietro Greco su «Sapere» (maggio 2001), che ha brevetti, azioni, o un’azienda propria. I centri pubblici e accademici di ricerca sono spinti dai governi a diventare imprenditori, «business-oriented», a legarsi in qualche «joint-venture» a società private in cambio di finanziamenti. Pubblicare significa quindi aumentare il valore economico dell’impresa. Inoltre lobby potenti condizionano le ricerche che si fanno e quindi che si pubblicano, creando conflitti d’interesse in serie che non vengono dichiarati, a dispetto delle regole di trasparenza che quasi tutte le riviste hanno adottato. Nel 2001, è nato negli Stati Uniti il Project «Integrity in Science» che supplisce all’eventuale sbadataggine dei ricercatori indicandone i finanziamenti privati da fonti imbarazzanti, ad esempio a ricerche che mettono in dubbio il ruolo dei gas da effetto serra sul clima e vengono pagate da aziende petrolifere (il database è consultabile sul sito www.integrityin- science.org).
La seconda ragione è una «ristrutturazione» tipica da mercato globale che ha concentrato le riviste in mano a pochi editori. Il colosso anglo-olandese Reed Elsevier che pubblica 1.200 testate ha acquistato la Harcourt Generai che ne pubblica 500; adesso controlla il 20% del mercato. Alcune riviste hanno tirature minime ma sommandosi rappresentano un giro d’affari di 10 miliardi di dollari all’anno, con margini di guadagno strabilianti: Reed Elsevier dichiara il 35% di profitti sulle riviste scientifiche rispetto al 20% sulle altre pubblicazioni (cfr. «The Economist», 12 maggio 2001 per un’analisi dei bilanci 2000). La situazione di quasi monopolio consente agli editori di dettare i prezzi a proprio piacimento: dalla metà degli anni Ottanta, il costo degli abbonamenti fatturati alle biblioteche degli enti di ricerca è aumentato del 207%. Brain Research, ad esempio, costa più di 17 mila dollari all’anno. E nonostante enormi incassi pubblicitari, gli autori e i «peer reviewers» gratuiti, gli editori conservano il copyright sugli articoli e quindi i diritti di riproduzione.
La pratica finisce così per essere ben diversa dall’ideale ed è questa: le imprese biotech fanno pubblicità sulle riviste specializzate dove pubblicano i loro scienziati-azionisti. E questi si permettono, forti delle inserzioni che favoriscono, di infrangere le regole di correttezza e di integrità: ad esempio descrivono il nuovo metodo messo a punto per identificare le forme di una proteina, ma non dicono di possedere quote dell’azienda che sta per metterlo in commercio. O scrivono di aver sequenziato i geni del topo ma non ne divulgano le sequenze perché hanno interessi in un’azienda che distribuisce le sequenze a pagamento.
Un terzo fattore dell’annus horribilis è stato Internet. In certi rami della fisica, in astrofisica o in cosmologia scienze dai risultati non redditizi a breve termine gli articoli vengono messi on-line nel momento in cui escono su carta, e spesso ancora prima. Ma secondo Steven Harnad («New Scientist», 26 maggio 2001), nelle scienze della vita e in altre accade che «un giovane ricercatore provi a mettere i propri articoli sul web. La rivista che li ha pubblicati minaccia di far causa a lui e al titolare del suo server per violazione di copyright. Allora il giovane chiede all’editore: “Scusi, ma il copyright è destinato a proteggere gli interessi di chi?” “I suoi! ” risponde l’editore. C’è qualcosa che non va. I ricercatori regalano il proprio lavoro e in cambio chiedono soltanto che sia accessibile ai potenziali utenti, cosa che il web ha reso possibile. Diversamente da cantanti e musicisti che esigono royalties sulle vendite delle proprie opere e non vogliono che gli utenti le scarichino gratuitamente (come questi fanno lo stesso), i ricercatori vogliono regalarle (e non possono farlo)».
Steven Harnad ha proposto un sistema di auto-archiviazione sul sito Internet dove si trova il ricercatore. Già esistono software gratuiti per semplificare la procedura e rendere i testi e le illustrazioni leggibili da altri computer, qualunque sistema usino. L’idea è buona ma ottimista: in realtà, se il ricercatore lavora per un istituto privato può mettere i propri testi on-line ma sono consultabili soltanto dagli utenti autorizzati. Un ente pubblico potrebbe impedirglielo o restringere l’accesso agli utenti dotati di password e quindi preselezionati, per non rischiare processi con l’editore o per non contrariare uno sponsor. Mettiamo che una ricerca dimostri che un certo farmaco per placare l’agitazione dei bambini crei dipendenza, interferisca con altri farmaci e quindi sia dannoso. La presenza di quei dati sul sito di un’università potrebbe incitare l’azienda produttrice del farmaco a essere meno generosa di borse di studio, a non finanziare un nuovo laboratorio o a non sponsorizzare la prossima conferenza internazionale sui disturbi infantili dell’attenzione e dell’umore. E già successo.
Proprio per lottare contro le interferenze del mercato nella libera circolazione è accaduto un fatto inaudito nella storia dell’editoria scientifica: 25 mila scienziati di tutto il mondo hanno aderito all’appello per una «Public Library of Science». Si sono impegnati a boicottare le riviste che non avrebbero reso i propri articoli accessibili gratuitamente su Internet entro sei mesi dalla pubblicazione. Harold Varmus, il biologo americano, premio Nobel 1989 perla medicina e uno dei promotori della mobilitazione per una diffusione senza intralci prima di tutto per le scienze della vita e specialmente nei centri di ricerca del terzo mondo, ha detto «è una rivoluzione». Forse esagerava, però non si era mai vista tanta gente famosa dichiarare apertamente che avrebbe smesso di scrivere, di rivedere testi, e disdetto i propri abbonamenti alle riviste che entro il 1° settembre non avessero aderito alle loro richieste (cfr. il sito www.publiclibraryofscience.org).
Gli editori hanno cercato di fare resistenza, adducendo che avrebbero perso tanto denaro da dover chiudere e sostenendo che l’accesso gratuito on-line avrebbe danneggiato le riviste di nicchia, pubblicate a fatica da piccole associazioni scientifiche. In realtà una diffusione mondiale è proprio ciò che queste hanno sempre sognato senza potersela permettere e che ora verrà loro regalata.
Infatti il boicottaggio è stato sospeso, temporaneamente, perché i sei più importanti editori internazionali della stampa biomedica (rappresentano l’80% delle 1.240 pubblicazioni esistenti) hanno ceduto. Saranno le Nazioni Unite, attraverso l’Organizzazione mondiale della sanità di Ginevra e grazie a una donazione del finanziere George Soros, a gestire il portale Internet che servirà inizialmente 600 istituzioni nei 63 paesi più poveri del mondo e via via altre.
A settembre, invece, è successa un’altra «prima» nella storia della comunicazione globale della scienza. «Science», «Nature» e tre delle migliori testate biomediche hanno adottato, e dettato ai potenziali autori, regole più severe: con due scopi. Il primo è di rendere più difficili perché più palesi la mancata dichiarazione di interessi finanziari, le scorrettezze crescenti e i colpi bassi usuali (cfr. l’editoriale di «Science» del 3 agosto 2001, in cui Donai Kennedy fa un bilancio del suo primo anno da direttore). Il secondo, un altro indizio della crisi dovuta alle «joint-venture» fra enti pubblici e aziende private, è quello di difendere il diritto/dovere di comunicare (che, come abbiamo visto, fa parte del lavoro di un ricercatore) dalle interferenze di aziende farmaceutiche e biotech, sempre più baldanzose nell’esigere che, se negativi, i risultati di una ricerca condotta in un laboratorio indipendente rimangano segreti. E se lo scienziato li riferisce lo stesso, magari in un seminario ristretto? Un tempo, l’azienda si limitava a far pressione (o forse si dice «ricattare»?) sull’università o il centro di ricerca, minacciando di sospendere le proprie elargizioni. Oggi, vanno direttamente in tribunale e chiedono risarcimenti di miliardi di dollari al ricercatore. E successo a un biologo dell’università della California che aveva annunciato il cattivo andamento in vitro di un vaccino contro l’AIDS messo a punto da una ditta biotech, la quale si è rivolta a un tribunale accusandolo di aver fatto perdere denaro ai propri azionisti.
Viene in mente che gli azionisti in questione ne avrebbero perso di più se quel vaccino fosse stato prodotto e somministrato, danneggiando chissà quanta gente. Ma il ragionamento è errato. Alcuni mesi fa, la Bayer ha ritirato dal mercato un proprio farmaco. In ritardo, hanno detto i critici ricordando segnalazioni preoccupate già nel 1998. No, ha risposto la Bayer, prima di medici, farmacisti e pazienti dovevamo avvisare gli azionisti, per evitare che le tre altre categorie si dessero all’insider trading (in italiano: vendessero le eventuali azioni della Bayer in loro possesso prima che gli altri sapessero della cattiva notizia).
E stata una lezione di new economy. Abbiamo imparato questo. La recente ondata delle concentrazioni aziendali, in cui le società acquirenti si sono indebitate sui mercati finanziari per poter comprare le concorrenti, ha cambiato le regole: non è più il successo/insuccesso delle merci e quindi la soddisfazione/insoddisfazione di clienti e consumatori a decretare il valore in borsa, è quest’ultimo a decretare se un prodotto va venduto. Di solito, se la merce è scadente e il cliente poco entusiasta, il produttore cerca di supplire con campagne pubblicitarie ad hoc. Nel caso dei farmaci o degli Ogm (due esempi, ma ce ne sono altri) il produttore cerca di supplire con ricerche scientifiche appropriate. Meno male che molti scienziati ed ex-scienziati ora direttori di riviste non si lasciano né comprare né imbavagliare.
A noi, tutto ciò pare utile «per scoprire e capire il mondo», ma non ne abbiamo letto nulla sulle nuove riviste in edicola. Viviamo in un altro mondo?