Incantati da Maria Venturi

Cinque milioni di telespettatori a puntata; più di centomila lettori avvinti dall’Incantesimo di Maria Venturi: una miscela di odio, altruismo, vendetta, inganni, passioni, sentimenti e, soprattutto, di storie d’amore tormentate e contrastate, insomma un rosa in versione aggiornata ma non troppo, con lieto fine in ritardo, ma assicurato dopo innumerevoli ribaltamenti di situazioni e colpi di scena (per quanto spesso di una scontata prevedibilità). A tamponare il bisogno d’evasione e di consolazione degli unhappy many alle prese con i problemi della quotidiana amministrazione esistenziale.
 
Incantesimo, magia di Maria Venturi. È il fenomeno editorial-televisivo a luci rosa che è riuscito a suggestionare miriadi di italiane – il femminile è d’obbligo – in questi ultimi anni.
Nato nel 1998, in concomitanza con l’altra celebre fiction della Rai Un posto al sole, incantesimo è ormai, nel momento in cui scriviamo, alla cinquantaduesima puntata, e al termine della sua quarta serie. Lo share di ascolto, in tendenziale aumento rispetto alle puntate inaugurali della serie più vecchia, attesta il consenso affezionato di circa cinque milioni di telespettatori, in media. Il successo popolare di questo prodotto televisivo non è dunque in discussione: vale allora la pena tentare di rendere conto di come sia congegnato; di quali istanze accampi; dei contenuti, delle modalità rappresentative e della configurazione dei personaggi che lo rendono così ammaliante agli occhi di tanti connazionali.
L’incantatrice, dicevamo, responsabile del soggetto della soap è Maria Venturi. La «Sandokan dei sentimenti», come è stata chiamata (da Alberto Bevilacqua) per la passione con cui racconta le sue storie, complice un manipolo di sceneggiatori d’assalto capeggiati dallo story editor Gianfranco Clerici, ha plasmato un contenitore che racchiude e dinamizza tutti i reagenti più effettistici del romanzo popolare. Storie d’amore tormentate e contrastate in cui rotture e riconciliazioni si susseguono incessanti, passioni, tradimenti, rivalità sentimentali, congiure affettive, odi, morti, figli legittimi e non, agnizioni sconvolgenti, colpi bassi sul lavoro, incesti consumati o lasciati balenare, omicidi. Tutto questo in un estenuante rimescolamento degli elementi in gioco, con ribaltamenti di situazioni e colpi di scena: questi ultimi calcolatamente suggellanti ogni fine-puntata, secondo la consuetudine costitutiva delll’appendicismo letterario e televisivo.
La struttura viene man mano consolidandosi come risultante combinatoria di diverse linee di forza. C’è una tendenza centripeta orientata al progressivo avvicinamento di quelli che, di serie in serie, sono eletti a protagonisti della storia d’amore principale (Caterina e Marco; Paola e Michele). Contemporaneamente però si deve fare i conti con la forza centrifuga delle istanze e delle storie veicolate da tutti gli altri personaggi comprimari e secondari. Tuttavia, fatto originale rispetto al canone del rosa tradizionale, questa tendenza centrifuga non funziona soltanto come espediente utile a procrastinare a tempo indeterminato il congiungimento finale dei due innamorati. Assume infatti una ragion d’essere autonoma, richiamando l’attenzione e la curiosità del lettore su una molteplicità di linee d’intreccio parallele, foriere di emozioni altrettanto forti.
Del resto il sito Internet di Incantesimo orienta il navigante promettendogli a chiare lettere «Amore. Odio. Altruismo. Vendetta. Inganni e passioni. Sentimenti e amori estremi in un intreccio di colpi di scena e vendette». Il modello generico di riferimento non si riconosce più a questo punto nel rosa canonico alla Liala, Peverelli o Delly (che pure appartengono al bagaglio di letture della scrittrice), ma piuttosto nel romanzo popolare d’evasione di matrice feuilletonistica ottocentesca – alla Carolina Invernizio, per intenderci -, di cui le opere della Venturi (specialmente quelle per la televisione, ma non solo quelle) rappresenterebbero una versione modernamente aggiornata. Un aggiornamento operato con l’occhio al filone dei best seller popolari anglosassoni dei vari Sidney Sheldon, Judith Krantz, Harold Robbins e Jackie Collins.
Certo, il segreto che regge il meccanismo si carpisce immediatamente; e i colpi di scena finiscono col perdere molta della loro carica sorprendente, risultando di una prevedibilità scontata. Così il tira e molla tra gli innamorati, complicato e ostacolato dalle manovre pilotate dai malvagi di turno, può anche essere percepito come un cincischiare irritante, inconcludente e persino involontariamente comico. Ma non appena ci si disponga a lasciarsi incantare dal flusso concatenato degli eventi condito di emozionalità spinta, il congegno assume il fascino di uno spettacolo che intriga, appassiona e soddisfa generosamente il nostro connaturato bisogno d’evasione.
Oltre al suo primo libro Storia d’amore, la Venturi autrice del resto di numerosi soggetti originali per la televisione ha visto trasposti in film TV, miniserie e sceneggiati molti dei suoi romanzi, da La storia spezzata a La moglie nella cornice, a Il cielo non cade mai. Ma diversamente da quei casi, con Incantesimo si assiste per la prima volta a un esperimento inedito, cioè all’adattamento letterario dello sceneggiato Rai. Inaugurando forse il nuovo genere del «romanzo televisivo», stando alla definizione che la stessa Venturi conia nella Nota dell’autrice. A questo proposito, il merito dei suoi romanzi può essere quello di fare vera concorrenza alle storie televisive; proporre la lettura come alternativa alle soap opera e dimostrare al lettore recalcitrante il piacere di un libro.
Incantesimo in forma di romanzo, pubblicato da Rizzoli nell’ottobre 2000 e alla quarta ristampa dopo soli due mesi, fa registrare il dato numerico strabiliante di 110.000 copie vendute fino al giugno 2001.
Alcuni elementi paratestuali ne esibiscono immediatamente la genesi televisiva. La fotografia a colori che occupa l’intera copertina ritrae gli attori che impersonano Caterina Masi e Marco Oberon (i protagonisti della terza serie della soap), abbracciati e sorridenti. Non c’è dubbio: con ogni evidenza ci si appresta a leggere una storia d’amore a lieto fine. Posa ed espressione rassicurano anticipatamente sull’armonia di coppia finalmente e definitivamente conquistata. In più, il ritratto fotografico consegna al lettore belle pronta la fisionomia dei personaggi, senza bisogno che vengano descritti nel corso della narrazione. Del resto l’assenza di modalità descrittive insistite è un dato rilevante del romanzo: tutto racconto di accadimenti e fitto dialogare. I dialoghi del romanzo non sono affatto dissimili da quelli della fiction, per la loro naturalezza che nei momenti clou si carica di enfasi emotiva abbastanza melodrammatica. In più, nel libro, la voce affabile del narratore racconta la vicenda con ritmo incalzante e scorrevole, e con uno stile semplice che accattiva: questo a riconoscimento del talento non trascurabile della Venturi. Talvolta il narratore si fa anche ironico e ammiccante, come nel caso della descrizione di Olivares: è «un bell’uomo sulla cinquantina. Capelli castani appena brizzolati, occhi chiari e fisico da atleta, sembrava il primario di un serial televisivo» (p. 21).
Poi c’è un altro elemento del paratesto che concorre a rendere il prodotto librario subito riconoscibile agli affezionati che, per un possibile bisogno di ridondanza, intendono rivivere le stesse emozioni sperimentate durante la fruizione della fiction catodica. Il titolo del romanzo sparato in copertina è riprodotto fedelmente secondo i criteri grafici mutuati dal logo televisivo: logo interessante, in quanto simboleggia una parte fondamentale del «messaggio» che l’autrice vuole comunicare. In un rettangolo orizzontale diviso perfettamente in due metà, colorate la prima di rosa e la seconda di nero, compare inscritta la parola Incantesimo, con le prime cinque lettere nere sul campo rosa; le ultime cinque rosa sul campo nero; la «t» mediana divisa in due, bicroma e in bilico sulla linea di confine tra i due campi della figura geometrica. Una sorta di allusione al simbolo cinese del Tao, il cerchio in cui yin e yang non riescono a stare del tutto l’uno senza l’altro. Nel nostro caso, il risvolto di copertina aiuta a decodificare (se ce ne fosse bisogno) il senso dell’opera, condensato efficacemente nel suo logo vagamente new age: «Incantesimo sta per riscatto, rinascita, ritorno alla luce. Ognuno di noi ha in sorte una parte di bene e una di male. L’importante è avere fede nel magico equilibrio: dopo la tempesta, toma sempre il sereno. Se si sono conosciuti il dolore e la sconfitta, arriveranno le consolazioni e le rivalse: la nostra parte di bene».
Il messaggio consolatorio è ribadito esplicitamente dalla voce narrante a metà romanzo, in un commento riferito alle esistenze difficili di Massimo e Gabriella (coinvolti nella tragica esperienza della tossicodipendenza e in procinto di sciogliere la sofferta relazione sentimentale che li univa), ma ritenuto valido universalmente: «Per risalire, dovevano toccare il fondo. Perché nel buio delle loro vite tornasse il sereno, dovevano affrontare la tempesta» (p. 147).
La necessità obbligatoria dell’istanza consolatoria, così come quella happy end nella narrativa popolare, è del resto per la Venturi una questione di etica professionale. Si tratterebbe di «un atto di generosità nei confronti di chi legge. Viviamo in un mondo talmente scardinato che almeno quando leggi libri che poi vogliono essere di evasione devi poter avere una gratificazione. Mi sembra anche moralmente giusto cooperare a restituire questa speranza, questa voglia di lieto fine» («Millelibri», n. 67, settembre 1993).
La «rinascita» che attenderebbe chiunque abbia fatto l’esperienza del dolore catartico, e sia stato cioè capace di guardare, affrontare e attraversare la sofferenza, è richiamata addirittura, con un eccesso d’enfasi didascalica, dal nome del luogo più emblematico e anzi strutturante dell’opera (romanzesca e televisiva): la clinica romana «New Life», simbolico teatro di vita.
Tutti i personaggi, per motivi familiari, sanitari o professionali, sono in un modo o nell’altro legati a quell’ex clinica di chirurgia estetica per miliardari, trasformatasi progressivamente in struttura plurispecialistica con tanto di pronto soccorso, ma pur sempre di lusso ed esclusiva. Protagonisti e comprimari principali sono scelti tra i suoi maggiori azionisti, amministratori, dirigenti e chirurghi di spicco. Il lessico settoriale della medicina e della chirurgia, tra dosi di xilocaina, appendicectomie e gliomi maligni, finisce così per rappresentare una componente rilevante della compagine linguistica dell’opera, a soddisfare anche l’appassionato e anzi ossessivo interesse degli italiani verso il tema della salute (basti considerare il consenso suscitato dalle innumerevoli rubriche televisive dedicate all’argomento; o dagli inserti dei quotidiani).
Per la sua caratteristica di luogo «pubblico» (anche se in questo caso si tratta di una clinica privata, e ciò non senza implicazioni su diversi livelli dell’opera) che consente l’intrecciarsi di un’infinita gamma di relazioni sia tra i colleghi sia con i pazienti, e per le sue potenzialità emotive è il tempio moderno in cui si combatte spesso la lotta tra la vita e la morte -, l’ambiente ospedaliero si offre come «cronotopo» funzionale centrale dell’affabulazione seriale contemporanea, specialmente televisiva. Le saghe ospedaliere globalizzano l’etere, da Generai Hospital a E. R. Medici in prima linea, fino ai nostrani Camici bianchi e La dottoressa Giò. Caso a parte, autentico antimodello sperimentale, la soap al vetriolo per la TV The Kingdom di Lars Von Trier, che di queste fiction seriali vuole essere la parodia gotico-grottesco-surreale. Il suo ospedale è un regno labirintico e sotterraneo impregnato di luce fumosa rossa in cui i demoni del sottosuolo psichico e morale liberano la loro presenza inquietante, ossessiva e concreta sotto forma di spettri urlanti e donne partorienti mostri abnormi e inguardabili.
In Incantesimo invece gli ambienti clinici e residenziali elegantemente perbene, e i personaggi, tutti di aspetto gradevole e curato, mostrano una patina di normalità rispettabile e dignitosa. Il candore disinfettato dei camici di medici infermieri e anestesisti; gli abiti sartoriali di azionisti e avvocati; l’atmosfera igienicamente asettica dei locali sembrano però funzionare da travestimento esoreistico dell’imbrattatura e del disordine generale. Se l’elemento politico è eluso dall’orizzonte magico di Incantesimo, quello economico la fa da padrone: avidità, ambizione, arrivismo sono tra i motori più propulsivi dell’intreccio, insieme alle varie modalità di gestione della vita relazionale e sentimentale.
Ma veniamo ai personaggi: elementi di un sistema in movimento a tappe successive, ognuna delle quali ridefinisce, spesso ribaltandoli completamente, gli equilibri raggiunti dalla precedente. A rendere labilmente precarie le relazioni tra i personaggi, fondate sul fitto dialogare di tutti con tutti, sono essenzialmente le incomprensioni, le reticenze, gli equivoci e i malintesi. Anche il filone narrativo principale, quello propriamente «rosa», è strutturalmente condizionato dalla legge dell’equivoco, logica conseguenza di comportamenti reticenti. I protagonisti custodiscono un segreto dal contenuto doloroso se non addirittura tragico, di cui praticamente tutti sono al corrente spettatore/lettore compreso -, ma che le persone che più ne avrebbero il diritto ignorano. Pensiamo per esempio ai ricatti a cui Marco Oberon è sottoposto, per essersi reso responsabile in un lontano passato di un’azione di eutanasia (nei confronti della sua nipotina di cinque anni, cerebrolesa e con gravissime insufficienze respiratorie, venuta al mondo perché il fattore aveva stuprato la madre down, sorella del suddetto Marco). Oppure, nella quarta serie della fiction, alla falsa identità di Paola Duprès/Meg Ajello, acquisita per salvarsi dal marito malvagio e mafioso che dagli Stati Uniti la credeva morta.
Sinceramente non si capisce per quale ragione realisticamente attendibile questi continuino a rimanere segreti anche, anzi solo, nei confronti di chi si ama. E il trucco che porta avanti il balletto degli equivoci, rimandando all’infinito la conclusione della saga, pur lieta che sia. Insomma nell’era della comunicazione e del trionfo massmediologico, e in un contesto narrativo in cui tutti si parlano continuamente cedendo troppo spesso al vaniloquio spettegolante, il dramma nasce da un problema essenzialmente comunicativo, di comunicazione parziale o distorta. Ogni personaggio conosce un pezzo della verità, che per altro giudica secondo il proprio punto di vista, senza riuscire a ricomporne il quadro generale. L’instabilità relazionale e il difetto comunicativo affliggono tutti, soprattutto gli amanti; ma anche gli amici, i genitori nei confronti dei figli e viceversa.
La voce narrante del romanzo acconsente con fluida docilità ad assumere il punto di vista dei vari personaggi, a cui cede la parola direttamente e di cui riporta i pensieri attraverso la tecnica dell’indiretto libero. Lascia però che le sue figure si giudichino l’un l’altra, in modo da rimanere fedele alla struttura polifonica e dialogica della fiction televisiva. C’è tuttavia un personaggio, Tilly Nardi, che nello sceneggiato funziona da alter ego del narratore; e che anche nel romanzo si rivela attendibile portavoce di chi narra. E infatti l’unica con la capacità di vedere chiaro: «Tutto doveva essere mediato, detto con circospezione, e questo le appariva un dissennato sperpero di energia. Pensò a Caterina e a Marco: era evidente che si erano innamorati, ma stavano erigendo tra loro una barriera di paure assurde e di ostacoli artificiosi» (p. 102).
E la depositaria dei valori che orientano il senso e il messaggio del discorso narrativo, costituendo nello stesso tempo il fulcro, il centro di riferimento dell’intero sistema dei personaggi, coordinandone e mediandone le relazioni.
Il narratore del romanzo sottolinea che la sua natura è «costruttiva e solare» (p. 101), e il suo «istinto da chioccia» (p. 37) la spinge a prendere tutti sotto l’ala. Convinta che esista «qualcosa di buono» in ciascuno, e che forse «la gentilezza e l’affetto potevano compiere il miracolo…» (p. 106), Tilly si offre sempre di aiutare tutti, senza pregiudizi di alcuna sorta: «Ma ancora una volta la sua natura positiva ebbe il sopravvento. Non poteva restare a guardare senza fare nulla» (p. 105). Questa fatina dolce, comprensiva, affidabile, materna, oblativa, è incarnata alla perfezione nella fiction TV da Delia Boccardo, con i suoi occhi grandi e chiari e lo sguardo limpido. Il lettore-spettatore è indotto a fidarsi di lei e dei suoi giudizi sugli altri personaggi, diversi da come sembrano. Come nel caso di Giovanna Medici (si noti il cognome coerente con il contesto), la moglie dura e rigida del primario nonché maggiore azionista della clinica: «Contrariamente alle apparenze, è una donna molto umana, molto giusta» (p. 226).
Tilly è infine talmente cara al narratore, che le attribuisce una considerazione interpretabile addirittura come commento metaletterario sull’intera strutturazione dell’opera: «Osservando alcune persone, a volte le sembravano come atleti impazziti che corressero zigzagando centinaia di chilometri anziché procedere in linea retta verso il vicino traguardo. Suo marito Ivano usava una vecchia battuta per dire la stessa cosa: rendere difficile il facile attraverso l’inutile» (p. 102).
Non è comunque un caso che il personaggio più positivo, più umano e dotato di consapevolezza matura sia una donna. Certo anche suo figlio Massimo, benché reduce da una terribile esperienza di tossicodipendenza, è un campione esemplare; ma perché la lealtà, la disponibilità, l’onestà e l’affidabilità sono i valori che lei gli ha trasmesso. E vero insomma, secondo una norma tipica del rosa tradizionale, che i personaggi femminili sono dotati di una marcia morale in più. Oberon è un ottimo chirurgo, di fama internazionale, ma è Caterina che di sua iniziativa salva in extremis, con una tracheotomia artigianale d’emergenza, la bimba in fin di vita per la caramella conficcata in gola.’ A costo di compromettere in partenza la possibilità di essere assunta. E nella quarta serie è vero che Michele migliora e matura lentamente; ma perché contagiato dall’influsso benefico di Paola: pronta ad accogliere e salvare tossici in overdose a discapito dell’immagine della clinica, così come a operare gratis la ragazzina ustionata e stuprata dal padre, che sempre per merito dell’eroina viene denunciato e allontanato dalla comunità.
Oltretutto poi Oberon si lascia sfuggire il nome dell’ex moglie mentre, ubriaco fradicio, fa l’amore con Caterina: l’episodio l’unica scena di sesso dell’intero romanzo, in cui peraltro la ragazza rimane incinta viene rimosso totalmente dall’interessato (non si sa con quanta verosimiglianza), innescando tutta una serie di ulteriori equivoci. E Michele, dal canto suo, è subito pronto a cedere alle avances seduttive della sua diabolica ex-fidanzata, al minimo geloso sospettare dell’amicizia tra Paola e Max.
Basta la frequentazione, meglio se quotidiana e prolungata, con le eroine femminili a far migliorare chi è in difetto di moralità o di umanità. Ma spesso anche il minimo contatto o il più breve dialogo con un personaggio positivo fa sì che, come d’incanto, si assista alla trasformazione repentina e troppo poco motivata di un temperamento. In questo è da ravvisare un punto debole della costruzione, per la smaccata infrazione del criterio di verosimiglianza, che non permetterebbe dei cambiamenti psicologici, caratteriali e comportamentali così velocemente risolutivi.
Prendiamo il personaggio di Vera (Medici). Esempio vivente dell’inattendibilità del principio secondo cui nomen omen, Vera è una ragazza falsa, subdola, cinica e calunniatrice, definita come «incapace di buoni sentimenti», instancabile alimentatrice di pettegolezzi, «Per lei le persone erano oggetto di intrighi, gelosia, sospetti, prepotenza. Gioiva nel creare tensioni e seminare zizzania» (p. 59). Tramando un intrigo dopo l’altro, coopera a mandare avanti la trama del romanzo. Narratore e personaggi sono d’accordo sulla malignità della mostruosa ragazza, che oltretutto è testimoniata sul piano pratico dal suo malefico operare. Vera è un’assassina: sua infatti è l’idea di staccare ossigeno e flebo a Masi nel tentativo di far ricadere la colpa sulla figlia Caterina. Eppure le basta un brevissimo soggiorno in Francia, presso la comunità di suor Marie, perché l’incantesimo ma forse in questo caso il miracolo la trasformi in saggia, generosa e altruista: «Non sono malvagia, Diego. E se voglio ritrovare la pace, devo smettere di odiare il mondo… di pensare soltanto a me stessa…» (p. 221); «Alla metà di ottobre Vera tornò a Roma. […] era proprio cambiata» (p. 252).
A Caterina, disabituata alla felicità e per questo incapace di lasciarsi andare alle emozioni, basta addirittura una settimana sempre presso la «suora ex machina» per apprendere l’ammaestramento centrale di Incantesimo’. «Non contrastare la vita […]. Rassegnati alla parte di sofferenza che tocca a tutti, e non rifiutare le cose buone. Ti toccano anche quelle» (p. 277).
L’ambiguità irrisolta tra sfiducia e fiducia nell’umanità tende insomma a risolversi, nella soap e nel romanzo, in un sostanziale abbandono ottimistico, in cui però si percepisce purtroppo il sapore della mistificazione. Cioè il lieto fine, voluto e costruito perché sia tale e consolatorio, ma anche affinché venga avvertito come educativo dal punto di vista etico, vale in realtà a riscattare le peggiori nefandezze, su cui lettori e spettatori sono indotti a transigere con eccessiva disinvoltura.
Comunque, guai a rompere l’incantesimo.