Pur nella varietà di stile e di contenuto, sui maggiori quotidiani del centro-nord i dibattiti di argomento letterario-editoriale hanno sempre meno spazio a vantaggio delle discussioni di ambito storico (e di una storia alquanto recente): la militanza nella Repubblica sociale, l’eccidio di Cefalonia, la querelle sulla «tendenziosità» dei libri di testo. Sullo sfondo alcune tematiche di carattere metodologico (il revisionismo, l’uso pubblico della storia) mostrano come il confronto ideologico riguardi in realtà l’egemonia culturale nell’Italia d’oggi. Un caso a parte è costituito dal vivace interesse per le sorti della poesia recente e recentissima.
Le forme della comunicazione: com’è difficile capirsi
Quest’anno le pagine culturali prese in considerazione per il consueto regesto dei dibattiti sono quelle di cinque grandi quotidiani del centro-nord di diverso orientamento politico-culturale: «Avvenire», «Corriere della sera», «Il Giornale», «la Repubblica» e «l’Unità», a partire da quando è tornata in edicola. Come al solito il periodo esaminato va dall’inizio del luglio 2000 alla fine del giugno 2001. La fisionomia complessiva delle pagine che ospitano i dibattiti è abbastanza simile. Le due o tre pagine dedicate alla cultura danno sempre grande risalto all’articolo d’apertura, di volta in volta una lunga intervista, un’ampia anticipazione libraria, uno stralcio di conferenza o dibattito. Le rubriche sono poche. A quelle associate a un’unica firma (Nautilus di Placido su «Repubblica», Improvvisi di Vassalli sul «Corriere della sera», Lupus in pagina di Rosso Malpelo su «Avvenire», Tocco e ritocco di Gravagnuolo e Storia e antistoria di Bongiovanni su «l’Unità»), se ne affiancano altre che ospitano diversi autori e hanno uno statuto più elastico quanto al contenuto, come l’Elzeviro del «Corriere», spazio nobile della pagina riservato a firme autorevoli. Una immediata riconoscibilità hanno anche le piccole finestre riservate a poesie, massime, battute, citazioni icastiche, che compaiono sul «Corriere» (La poesia e La frase), «l’Unità» (Ex-libris) e l’«Avvenire» (Aforismi). In tutti i casi, varia ma mai trascurabile la presenza di recensioni, mentre le classifiche settimanali dei libri più venduti si incontrano su «Corriere della sera», «Repubblica» e, in forma più agile, sull’«Unità». Comune alle diverse testate è infine un certo eclettismo tematico. La scansione degli argomenti è largamente dettata dagli imperativi dell’attualità: le interviste seguono spesso il calendario stabilito dagli uffici stampa per le visite degli autori stranieri, le anticipazioni ricalcano i ritmi delle uscite editoriali, certe manifestazioni sono ormai appuntamenti obbligati (ed è una serie sempre più ricca: dalla classica Fiera del libro torinese, alle più recenti Festivalletteratura di Mantova e Fondamenta di Venezia).
Siamo di fronte a «terze pagine» pensate come contenitori duttili di temi vari, piccoli supermarket culturali dove chi legge può scegliere in base ai suoi interessi. A fianco degli elementi di somiglianza fra le cinque testate, ci sono aspetti di individualità, sia strutturali, sia ideologici e contenutistici. «Repubblica» predilige i pezzi lunghi, con quell’inclinazione al minisaggio tipica della tradizione del quotidiano, sempre propensa all’approfondimento ragionativo. Nel «Corriere della sera» invece si è affermato uno «stile breve», ispirato alla ricetta di Paolo Mieli secondo cui lo scontro culturale illumina un argomento molto meglio di una generica esposizione: «il conflitto è una cosa che delimita i campi, che focalizza l’attenzione» (Giovanni Santambrogio, Il mondo del giornalismo contemporaneo, in Storia del giornalismo italiano, 1997, p. 412).
Da un punto di vista tematico segni distintivi sono invece l’attenzione sistematica del «Corriere della sera» per la rilettura in chiave revisionistica della storia contemporanea e lo spiccato interesse per la filosofia e per il secolo dei Lumi della «Repubblica», con la sua apertura verso l’universo delle scienze umane. L’«Avvenire» si concentra invece sui temi del sacro, della religione, sul rapporto laici-cattolici, sollecitando nei lettori un forte sentimento di appartenenza. Quanto alla storia, prevalgono nettamente gli articoli dedicati al Medioevo; rilevante l’interesse per i problemi di un mondo «allargato» in cui hanno un ruolo di primo piano i popoli in via di sviluppo, un interesse che si concentra spesso sulle dinamiche delle trasformazioni urbane. Anche nelle pagine dell’«Unità» i temi della globalizzazione sono molto presenti; significativa anche l’attenzione ai problemi del lavoro, dei nuovi lavori, e alle culture giovanili. Il «Giornale» si distingue perché dedica di frequente intere pagine a singoli autori importanti come lo scrittore Oscar Wilde o come la ventina di pensatori presentati nella serie «I grandi liberali», a indicare una vocazione quasi pedagogica, la preoccupazione per una formazione di base del pubblico.
In questo contesto i dibattiti di argomento letterario-editoriale hanno sempre meno spazio e si dialoga con crescente difficoltà. Le risposte fra una testata e l’altra continuano a non essere frequenti, e così i dibattiti hanno una natura endogena, tendono a nascere e morire nello stesso giornale (la discussione su sacro e letteratura su «Avvenire» nel luglio 2000 e quella sui «grandi reprobi», come Celine, Pound, Junger, sul «Corriere della sera» nell’ottobre 2000). Può capitare che ci si parli senza intendersi. L’acrimonia di Giuseppe Bonura (Da Vassalli un incauto elogio alla critica che non c è più, «Avvenire», 12 maggio 2001) verso Sebastiano Vassalli (Loro e l’alloro: il mestiere di vivere scrivendo, «Corriere della sera», 9 maggio 2001) si fonda su un equivoco: facile da immaginare, il trionfo delle classifiche dei più venduti non piace neppure a Vassalli. Oppure succede che si trattino argomenti analoghi a breve distanza di tempo senza che ci si accorga della possibilità di un confronto. Paolo Di Stefano («Corriere della sera», 2 ottobre 2000) e Elena Loewenthal («La Stampa», 24 ottobre 2000) ragionano sulla situazione della scrittura umoristica in Italia oggi, sulla base di due diagnosi radicalmente opposte: prosperità della scrittura comica italiana per Di Stefano, latitanza dell’umorismo per la Loewenthal. E il secondo intervento pare del tutto ignaro del primo.
Una lettura analitica dei dibattiti rivela altri «disturbi della comunicazione». Seguendo sul «Corriere della sera», sul «Giornale» e sull’«Unità» le due serie di interventi suscitate prima dalla pubblicazione del libro di Régis Debray (I.F. Suite et fin, Gallimard) e poi di Pierluigi Battista (Il partito degli intellettuali, Laterza) si ricava una strana impressione. Difficile fare un riassunto chiaro dei termini del contendere, difficile mettere a fuoco il tema e le diverse posizioni. Il fatto è che spesso nelle discussioni giornalistiche manca uno sforzo di chiarificazione terminologica e quindi una precisa base di intesa comune. Tanto più per un concetto di grande latitudine semantica e profondità storica. Così intorno al tavolo del povero lettore si siede una folla eterogenea: accanto agli I.F. e I.T. (intellettuali francesi e intellettuali terminali) di Debray, la cui fisionomia non è ben definita nemmeno nella sua intervista al «Giornale» (Maurizio Cabona, «Gli intellettuali sono alla fase terminale», 19 dicembre 2000), stanno gli «esperti» e gli «opinionisti volatili, interstiziali, ironici e soprattutto autoironici» di Giovanni Mariotti (Intellettuali estinti per mancanza di leggerezza, «Corriere della sera», 2 gennaio 2001), gli «intellettuali di corte» e gli «intellettuali impegnati per un ideale» figli di d’Alembert e Diderot evocati da Luciano Canfora (Ma anche gli scienziati sono intellettuali organici, «Corriere della sera», 7 gennaio 2001), gli intellettuali «impegnati di sartriana nonché qui da noi, moraviana, vittoriniana, fortiniana, e pasoliniana memoria» di cui parla Giovanni Raboni (Se l’intellettuale fa ancora intravedere l’esistenza, «Corriere della sera», 24 dicembre 2000), l’intellettuale d’oggi, lobbista e corporativo, di Marcello Veneziani (Paolo di Stefano, Intellettuali il tradimento è anche italiano, «Corriere della sera», 20 dicembre 2000). In un contesto tanto confuso si finiscono per apprezzare semplici affermazioni di buon senso, come quella di Franco Ferrarotti quando ricorda che la dialettica impegno/indifferenza (la chiama «ambiguità») è uno dei tratti tipici del ceto intellettuale (Caro Debray, gli intellettuali non sono né grandi né decadenti, «Corriere della sera», 23 dicembre 2000).
Visto da vicino, il mondo dei dibattiti letterari ed editoriali è più povero e monotono di quanto si possa credere. Si continua a discutere su pochi temi ricorrenti: la crisi degli intellettuali e dell’impegno, la debolezza della critica letteraria e l’assenza della stroncatura, il canone, la fragilità della narrativa italiana contemporanea. A parlare sono quasi sempre le stesse voci, e le sorprese per i lettori sono perciò piuttosto rare. E queste voci, pur nei loro diversi orientamenti ideali e politici, condividono un senso comune letterario di sconfortata marginalità. Di fronte a episodi di cronaca che mostrano in atto forme non tradizionali di produzione e circolazione dei testi continuano a scattare reazioni di netto rifiuto. Alla fiera libraria di Buenos Aires, Edoardo Sanguineti ha l’impressione «di trovarsi in un felice mercato dei libri uguale a un felice mercato delle vacche. O delle barche» (Libri a mercato libero, «l’Unità», 16 maggio 2001). L’ex ministro e bibliofilo Oliviero Diliberto si scaglia «sgomento» contro una forma di promozione un po’ irriverente, la rottamazione dei libri (Vi prego i libri non vanno rottamati, «la Repubblica», 26 gennaio 2001); in difesa di analoghi principi di non contaminazione del libro, Paolo Di Stefano ironizza sull’iniziativa della Feltrinelli che regala un matitone rosso con il romanzo Il lapis del falegname di Manuel Rivas (Occhio al lapis se è allegato a un romanzo, «Corriere della sera», 15 novembre 2000). E sul «Giornale» Paolo Bianchi constata rassegnato: «che cosa siano oggi i libri lo si vede fin troppo bene; fragili e inutili argini alla devastante volgarità degli altri mezzi della comunicazione» (Piccoli editori muoiono orgogliosi di aver fallito, 31 dicembre 2000).
Di cosa si discute? L’egemonia della storia
Alla domanda «di cosa si è parlato quest’anno?» si può rispondere in due modi: facendo un inventario ristretto e uno allargato degli interventi. Da una parte si può stilare un elenco delle vere e proprie discussioni, dall’altra prendere atto della presenza di temi trattati in diversi articoli indipendenti che non dialogano fra loro. A un regesto dei dibattiti si affianca così un repertorio di argomenti ricorrenti, una specie di catalogo di premesse per discussioni mai avviate. Particolarmente significativo questa volta il caso dei numerosi articoli sul nesso di problemi legati a Internet e all’editoria elettronica. Tutti i quotidiani ne hanno parlato con una certa frequenza, trattando della prima diffusione degli e-book, del successo delle enciclopedie e dei dizionari multimediali, del software open-source come Linux, dello scouting delle case editrici attraverso la rete, dell’impatto delle tecnologie digitali sull’editoria tradizionale. Abbastanza frequenti le interviste a studiosi ed esperti di settore, utile l’inchiesta in più puntate Come Internet ha cambiato la narrativa («Il Giornale», luglio 2000).
L’interesse delle pagine culturali per l’editoria non solo è diminuito rispetto all’anno scorso ma, in analogia a quanto accade per la rete, siamo di fronte soltanto a una serie di articoli slegati fra loro dedicati ad argomenti specifici. Si tratta soprattutto di un’attenzione di tipo cronachistico, spesso attratta da notizie curiose: le edizioni pirata di Camilleri (Cinzia Fiori, «Corriere della sera», 9 febbraio 2001), la libreria «vuota» di Baricco, cento metri quadri per ventotto titoli (Ranieri Polese, «Corriere della sera», 7 novembre 2000), le tre copertine alternative per L’isola delle tartarughe di Sergio Ghione pubblicata da Laterza (Simonetta Fiori, «la Repubblica», 24 giugno 2000). Di ben altro peso un argomento come la nuova legge sull’editoria presentata dal ministro Melandri, sulla quale peraltro non si è andati oltre un’informazione periodica.
In campo letterario gli argomenti che hanno suscitato un confronto sono stati pochi. Alcuni autori: Pasolini («Corriere della sera», ottobre 2000, «l’Unità», giugno 2001), Moravia («Corriere della sera» e «Giornale», settembre 2000), Silone (prosegue il confronto sulla biografia: delatore o infiltrato?) e in subordine Pavese e Pratolini. Se ne è parlato, secondo uno schema abituale, riflettendo sulla loro attualità, su quanto la loro opera sia ancora viva e seguita. Il ritorno di due evergreen-. la morte del romanzo («Corriere della sera», aprile 2001) e la stroncatura («Corriere della sera» e «Il Giornale», gennaio 2000), temi che per fortuna quest’anno si sono spenti sul nascere. Una querelle trecentesca: Dante stilnovista come poeta d’avanguardia? Vassalli dice sì («Corriere della sera», 6 e 14 settembre 2000), Garboli dissente («la Repubblica», 13 settembre 2000), Bianca Gara velli pacatamente media («Avvenire», 15 settembre 2000). Anche qui bisogna forse intendersi sui termini: se per avanguardia si fa riferimento alla categoria novecentesca ha ragione Garboli, se alla parola si attribuisce il senso più debole di «innovazione letteraria» Vassalli non ha torto.
La ristrettezza dei dibattiti letterario-editoriali si nota ancora di più se messa a paragone con la quantità di interventi suscitati dalle controversie sulla storia recente. Si consolida infatti la tendenza già evidente da qualche tempo che vede le discipline storiche come vero centro delle pagine culturali. Gli argomenti principali, tutti sviluppati in un numero cospicuo di pezzi spesso anche lunghi e articolati, sono stati diversi. In autunno-inverno ecco, a partire dallo scritto autobiografico di Roberto Vivarelli La fine di una stagione, la discussione sul significato della scelta di militare nelle file della Repubblica Sociale. E poi la clamorosa controversia sui libri di testo suscitata dalla proposta del presidente della Regione Lazio Storace di istituire una commissione di controllo dei manuali per la scuola, polemica andata ben oltre i confini delle pagine culturali.
Analogamente, alle soglie della primavera, il discorso di Cefalonia del Presidente Ciampi sollecita Ernesto Galli della Loggia, teorico della «morte della patria», a inviargli una lettera aperta pubblicata dal «Corriere» (4 marzo 2001). Ciampi risponde. Alla discussione partecipano Eugenio Scalfari, Giorgio Bocca e molti altri autorevoli intellettuali. A queste polemiche si aggiunge un nugolo di altri temi di dibattito, fra i quali la riflessione Sull’Olocausto che ha accompagnato l’istituzione del giorno della memoria, il pensiero di Gobetti e di Rosselli, il modo di rileggere il passato riproposto nell’ultima raccolta di saggi di Paolo Mieli (Storia e politica).
In generale, i confronti di quest’anno sulla storia testimoniano un’ampia riflessione sulle radici politico-sociali e ideali della contemporaneità italiana. A suscitare il confronto sono alcuni nodi della storia novecentesca (il Fascismo e l’antifascismo nelle sue varie articolazioni, la Resistenza e la guerra civile, le diverse forme del totalitarismo, le persecuzioni antiebraiche) e ottocentesca (i controversi tentativi di rilettura del Risorgimento a partire dal meeting di Comunione e Liberazione a Rimini nel settembre 2000). E una delle discussioni più articolate e argomentate è quella avviata da Eugenio Scalfari su Che cosa vuol dire essere oggi illuministi («la Repubblica», ma non solo, dicembre 2000 e gennaio 2001). I discorsi intorno al «revisionismo» e all’«uso pubblico della storia» costituiscono un filo rosso di tipo metodologico che attraversa i dibattiti ed è, non di rado, direttamente affrontato. Il successo degli «storici della gente» si collega all’orizzonte dei mass media: l’opinionismo storico fa notizia. Lo storico revisionista trova il suo habitat naturale in un tipo di pagina culturale veloce, ricca di colpi di scena e di voci contrapposte un po’ concitate (d’altronde il padre della pagina culturale «dinamica e gridata» è uno degli esponenti di spicco della nuova storiografia, Paolo Mieli). Ne discende uno stile particolare nel quale la dialettica fondamentale argomentazione-documentazione si rompe: ecco il feticismo del documento che parla da solo, ecco la tesi storiografica enunciata perentoriamente ma senza le necessarie verifiche (con i documenti e con la tradizione degli studi). Naturalmente il rilievo di questi argomenti riceve una forte spinta dall’attuale contesto politico e ideologico, di duro confronto fra gli schieramenti e dal bisogno di una legittimazione storico-culturale da parte del centro-destra.
E dunque in atto una battaglia non soltanto di idee. La posta è esattamente quell’egemonia culturale che secondo la vulgata dei moderati dal dopoguerra a oggi è stata sempre e solo nelle mani della sinistra. La questione si riflette in un’inchiesta di Nello Ajello («la Repubblica», ottobre 2000, con intervento di Marcello Veneziani sul «Giornale») e affiora carsicamente in diversi altri dibattiti. Su tutti, il problema dei libri di testo, nel quale Umberto Eco interviene con un bell’articolo intitolato L’egemonia fantasma nella scuola italiana («la Repubblica», 15 novembre 2000). Colpisce in questo contesto la latitanza degli umanisti letterati: scrittori, critici militanti e studiosi accademici sembrerebbero non avere nulla da dire. Fanno eccezione pochissimi casi. Giulio Ferroni segnala l’utilità specifica di un punto di vista letterario: «In tante discussioni sulla Resistenza come “guerra civile”, in tanto proliferare di rivisitazioni e di “revisioni” della lotta partigiana, mi sembra che troppo scarsa attenzione venga rivolta alle letteratura», e indica nell’opera di Fenoglio una delle rappresentazioni più intense e lucide della lotta resistenziale, senza schematismi ideologici ma anche senza disinvolte equiparazioni tra partigiani e nazifascisti La lezione dal partigiano Johnny, «l’Unità», 14 luglio 2001). E Alberto Asor Rosa ci ricorda che qualcosa di essenziale sul modo in cui si devono considerare le scelte degli italiani nel 1943 (pro o contro la Repubblica Sociale e l’occupazione nazista) lo si può imparare dal nono capitolo del Sentiero dei nidi di ragno-. «Calvino dice: dietro il milite delle Brigate nere più onesto, più in buonafede, più idealista, cerano i rastrellamenti, le operazioni di sterminio, le camere di tortura, le deportazioni, l’Olocausto; dietro il partigiano più ignaro, più ladro, più spietato, c’era la lotta per una società pacifica e democratica, ragionevolmente giusta, se non proprio giusta in senso assoluto, ché di queste non ce ne sono» (Storia e revisionismo. La lezione di Calvino, «la Repubblica», 13 novembre 2000). In effetti, il giovane commissario politico Kim è sensibile alle motivazioni individuali di partigiani e repubblichini, ma non dimentica mai la distinzione fra piano esistenziale-personale e piano della storia collettiva.
Poesia alla ribalta
A sorpresa, l’argomento letterario più discusso dell’anno è stata la poesia. In due occasioni distinte, sul «Giornale» (settembre 2000) e sul «Corriere della sera» (giugno 2001), non per impulso di un fatto d’attualità (libro in uscita, festival, ecc.) ma a partire dalle riflessioni di Giuseppe Conte, prima, e di Giovanni Raboni, poi, un buon numero di firme si è confrontato sulla condizione della poesia contemporanea e sul suo rapporto con l’editoria. Interventi più articolati e meno numerosi sul «Giornale», più frequenti e frammentati i contributi del «Corriere della sera». A leggerli si ha l’impressione che l’opzione forse troppo sistematica del «Corriere della sera» per il breve pregiudichi la possibilità di svolgere argomentazioni compiute e produca quindi pezzi meno limpidi e meno interessanti.
L’intervento di Conte (Tre ex-ragazzi tristi che odiano la poesia di oggi, 15 settembre 2000) polemizza con Berardinelli, Cordelli e Manacorda, accusati di fare troppa critica di poesia e di criticare troppo la produzione contemporanea. L’articolo di Raboni (Poeti. I magnifici undici e altri minori, 5 giugno 2001) unisce una proposta editoriale a un’ipotesi di canone: l’idea è quella di un’antologia del Novecento «senza i maggiori», per dare più spazio alla presentazione delle moltissime voci di minori di spicco «drammaticamente inconfondibili» che hanno fatto di questo «il secolo più ricco di poesia in lingua italiana da quando la lingua italiana esiste». Raboni abbozza un doppio canone, quello dei massimi e quello dei grandi minori, facendo le sue scelte: Palazzeschi, Tessa, Rebora, Ungaretti, Saba, Montale, Betocchi, Sereni, Luzi, Zanzotto, Giudici sono in Champion’s League, la serie A si apre con Gozzano, Govoni, Lucini e i futuristi.
Paragonando i due dibattiti, incuriosisce un certo scambio dei ruoli. La discussione del «Corriere della sera» ha un’impostazione concretamente operativa (come costruire una nuova antologia) e un taglio storico, ma l’effettivo contenuto degli articoli tende in più di un caso a un certo impressionismo e mostra qualche disarmonia concettuale. Certi caratteristici «disturbi della comunicazione» culturale affiorano subito. Il primo intervento esordisce con un fraintendimento: Giuliano Gramigna (Ma la vera poesia non ammette minori, «Corriere della sera», 6 giugno 2001) attribuisce a Raboni l’idea di un Novecento poetico talmente affollato di artisti da rendere pressoché impossibile distinguere i più significativi, mentre Raboni sottolinea sì la notevole quantità di poeti, ma anche l’inconfondibile sagoma di tanti di loro. Renzo Paris invece alla fine del suo pezzo (La storia della poesia non può ignorare le donne, «Corriere della sera», 7 giugno 2001) imputa a chi ha avviato il dibattito un «desiderio di cancellazione» della società dei poeti, «ridotta a una setta malvagia e scempia, che punta al suicidio in massa dei facitori di versi», intenzione in verità del tutto assente dalle parole di Raboni. Delle tre considerazioni annunciate in apertura di articolo (Tre modeste riserve sui grandi del Novecento, «Corriere della sera», 9 giugno 2001), Franco Cordelli ne svolge solo due. La prima «riguarda l’idea in sé» (e cioè il canone), ma qualche riga più sotto si legge che anche la terza «riguarda il concetto stesso di canone». E, in effetti, la prima considerazione non del canone in sé tratta, ma dell’esclusione degli autori degli ultimi trent’anni.
Nel dibattito del «Corriere della sera» i criteri delle scelte non sono mai presentati o motivati; l’unico riferimento generico è al «gusto», certo un parametro soggettivo, le cui componenti però potrebbero fruttuosamente essere esplicitate almeno in parte. Sul «Giornale» invece gli articoli di Conte e Kemeny sostengono una poetica irrazionalistica, un’idea di poesia capace di riscoprire «la natura, lo slancio vitale, gli antichi dei, l’assoluta libertà dell’individuo, l’eroismo, il destino, il sacro, il mito» (Giuseppe Conte, Ebbene si, sono un pazzo in cerca di bellezza e di nuova conoscenza, «Il Giornale», 30 settembre 2000), una lirica avversa a ogni interpretazione critica. Ma lo fanno con argomentazioni limpide e articolate.
Nel complesso i due dibattiti danno al lettore l’impressione di un panorama vivace; tutti concordano sulla notevole ricchezza poetica del Novecento, e i dissensi sulla fisionomia del canone dei massimi sono pochi. Sul presente invece i contrasti aumentano, emergono alcuni schieramenti, sale il tasso di litigiosità, segno peraltro di partecipato impegno militante. In questi interventi il senso di marginalizzazione della «società poetica» tipico degli ultimi decenni, pur affiorando, non caratterizza la discussione. Il punto di vista editoriale aiuta Ernesto Franco, «spostando il fuoco del dibattere», a ricordare come «non sia affatto vero, lo è stato detto nel corso degli interventi, che la poesia italiana e straniera non abbia lettori o ne abbia pochissimi. Non si tratta di cifre mirabolanti, ma in alcuni casi è cronaca che si arrivi alle migliaia (poche migliaia) di copie che molta dell’attuale narrativa non raggiunge neppure» (Ma anche i poeti (nel loro piccolo) vendono un po’, «Corriere della sera», 14 giugno 2001). Una vitalità della poesia contemporanea confermata, sul piano della produzione, dalla recente uscita di due antologie di autori ventenni (L’opera comune, Atelier, e I poeti di vent’anni, Stampa alternativa), segnalate con tempestivo apprezzamento proprio da Raboni in una lunga recensione apparsa sul «Corriere della sera» (Arriva la carica dei poeti ventenni, la vera generazione postmoderna, 10 settembre 2000).