Il nuovo modello di competenza linguistica nella scuola superiore e nell’università mira alla pratica di un’ampia pluralità testuale attraverso usi funzionali diversificati della lingua parlata e scritta, allo scopo di preparare i giovani alle tecniche della scrittura e della lettura. I numerosi manuali per le superiori puntano soprattutto alla soluzione di problemi pratici per superare le prove d’esame, in particolare quelle scritte; più calibrati sulla ricostruzione delle abilità di base e l’acquisizione di una specifica metaconoscenza dell’operazione di scrittura appaiono alcuni testi per l’università.
Nell’incipit del fortunato Come si fa un tema in classe, Maria Teresa Serafini indicava lo «scrivere bene», cioè l’«attività che consiste nel trovare e ordinare idee per poi organizzarle in iscritto in modo adatto», come obiettivo guida del proprio testo.
La modernità della prospettiva adottata da Serafini, pur leggibile nella proposta di conciliare le esigenze della comunicazione scolastica con quelle di una buona ed efficace elaborazione delle idee, era ancora inficiata dalle modalità che l’educazione linguistica tradizionale imponeva, e ha continuato a imporre per almeno un decennio. Alla capacità di comporre un testo in un buono stile (quale miglior occasione del tema per questo?) si affiancava specularmente, come traguardo irrinunciabile, la capacità di scrivere bene e di analizzare, scomponendoli, i testi altrui (è la linea seguita dai numerosi manuali per scuole medie inferiori e superiori elaborati da Daniela Bertocchi, dominatori del mercato dall’inizio degli anni Ottanta alla prima metà degli anni Novanta, un tempo lunghissimo per il settore).
Da allora, le scienze linguistiche hanno dato un contributo decisivo a modificare l’orientamento e a delineare un nuovo modello di competenza linguistica (cfr. Raffaele Simone, La competenza linguistica, in «ITER», a. II, n. 5, maggio-agosto 1999, p. 21 ). Sin dal Documento dei saggi (1997) – la relazione sulle conoscenze fondamentali, i «saperi di base» della nuova scuola (il testo è stato elaborato dalla Commissione dei saggi su incarico del Ministro della Pubblica Istruzione ed è stato diffuso dal 1997 in tutte le scuole) , che ha fatto da apripista ai successivi documenti di elaborazione dei progetti di riforma, di innovazione dell’esame di Stato e di riordino dei cicli – si introduce l’idea che la didattica dell’italiano, applicata a «tutta la pluralità di testi possibili», debba essere esercitata attraverso «la pratica degli usi funzionali più diversificati della lingua parlata e scritta», allo scopo di «preparare tutti i giovani alle tecniche della scrittura e della lettura, fornendo loro capacità fondamentali che oggi risultano largamente compromesse», attraverso la «comprensione e la produzione di messaggi scritti pratici ed essenziali, condizione necessaria per la successiva acquisizione delle capacità di assimilare ed elaborare correttamente discorsi più complessi, e di argomentare in modo più approfondito e appropriato».
Si tratta, in altre parole, di promuovere una «scuola del lavoro linguistico» capace di proporre un uso del linguaggio non più autoreferenziale, bensì funzionale, nelle sue molteplici sfaccettature di uso, in ogni campo del sapere, veicolo «trasversale» di comunicazione, espressione e studio.
Le nuove tendenze sono andate maturando a partire dai livelli più bassi del curricolo scolastico: la scuola elementare (1985 ) e la scuola media (1979), infatti, propongono un itinerario che, utilizzando la scrittura come strumento di progettazione e di lavoro di ricerca, metta in gioco tutte le discipline (anche in una prospettiva pluridisciplinare) e non più una scrittura come attività mirata solo ad abilitare a sostenere verifiche scolastiche rigidamente valutative, mere esercitazioni di retorica (CIDI, Il nuovo esame di Stato materiali per il convegno nazionale 1999, quaderno 2, a cura di Rosalba Conserva, Bologna, Zanichelli, 1999). La nuova impostazione della didattica della scrittura si muove avendo sullo sfondo due grandi obiettivi di massima.
Da un lato, far acquisire ai giovani la coscienza della necessità di adattare le forme e le modalità di scrittura alle diverse funzioni testuali e ai parametri di riferimento che esse impongono, quindi la capacità di pianificare, progettandole, le proprie competenze (saper reperire informazioni, selezionarle, sintetizzarle, coordinarne l’esposizione, e via dicendo), in funzione degli scopi comunicativi preposti alla composizione del testo, secondo le strategie più lineari ed efficaci.
Dall’altro, saper proporre una scrittura che, svincolatasi dagli schemi di improvvisazione proposti dal vecchio modello del tema scolastico, sia progettata a partire da un lavoro, fatto di ricerca, lettura e documentazione: è in questo senso che, ad esempio, il nuovo esame di Stato propone la stesura di una relazione, un saggio breve, un’analisi testuale, un articolo di giornale, o persino lo stesso tema, obbligando lo scrivente a confrontarsi con precisi modelli gnoseologici e operativi, schemi di produzione, referenti dai quali non è più possibile prescindere.
Dunque, non più una scrittura improvvisata e affidata a una istintiva capacità espressiva, né tantomeno una scrittura al servizio del «dire tutto quello che si sa (knowledge telling)», bensì una scrittura in grado di «trasformare quello che si sa (knowledge transforming)», che è la prospettiva che si adotta «nel momento in cui l’attività diventa di natura consapevole e intenzionale, individuando gli scopi e adottando le strategie più funzionali» (Guido Benvenuto, Scrivani di noi stessi, in «ITER», a. II, n. 5, cit.).
La pluralità di forme della scrittura, dunque, è la vera novità sulla quale ci si aspetterebbe puntassero gli strumenti che l’editoria ha messo a disposizione di studenti e insegnanti delle scuole superiori e dell’università: a diverse coordinate devono corrispondere diverse modalità di approccio al testo scritto, con una gradualità che dovrebbe condurre i giovani all’acquisizione delle conoscenze e competenze necessarie ad affrontare testi specifici sempre più complessi (dai semplici elaborati di inizio triennio alla tesi di laurea, sino ai testi finalizzati all’attività lavorativa).
Ciò che il panorama editoriale offre per le scuole superiori, tuttavia, evidenzia le numerose sbavature e incongruenze connesse alla frettolosità con cui i testi sono stati assemblati (con uno sguardo più alla completezza del catalogo che alla qualità del prodotto), alle modalità non sempre convincenti di introduzione delle innovazioni, ma anche all’accanita sopravvivenza di modalità conoscitive e operative ormai superate e alle resistenze di buona parte degli insegnanti, la cui prassi didattica appare radicata e difficilmente modificabile in tempi brevi.
Dal 1998 (anno di emanazione della legge di istituzione del nuovo esame di Stato) a oggi, il mercato è stato invaso da una miriade di agili ed essenziali strumenti e sussidi didattici di vario spessore materiale e teorico, ma in larga parte privi di spiccata personalità e tra loro indistinguibili nella sostanza. Questi volumi sono fortemente improntati a una operatività estremizzata, che ricalca il didatticismo di molta manualistica in voga, ma che evidenzia una serie di problematiche e di equivoci teorico-metodologici non risolti, a partire dalla mancata trasversalità della prassi della scrittura, poiché si rivolgono esplicitamente al docente di lettere, al quale solo continua di fatto, nella realtà, a essere delegata l’acquisizione delle competenze della scrittura.
Più marcato appare lo sforzo di tentare degli accomodamenti che possano far sentire il meno possibile il cambiamento agli insegnanti più tradizionali (emblematica l’attenzione spropositata dedicata all’analisi testuale e al saggio breve rispetto alle altre modalità di scrittura) e quindi di ricondurre l’attività di scrittura a una prospettiva iper-scolarizzante. Non a caso, più che l’acquisizione delle conoscenze e delle competenze peculiari di un livello esperto nella scrittura, i testi mirano ancora una volta alla soluzione dei principali problemi pratici finalizzati al superamento dell’esame di Stato (emblematico, in questo senso, il titolo del volumetto edito nel 2000 dalla Bruno Mondadori, Promossi all’esame – Guida al nuovo esame di Stato, che si propone espressamente come strumento di «allenamento all’Esame»): insomma, a insegnanti e studenti si offrono mezzi di immediata applicabilità pratica, orientati alla soluzione concreta di problematiche di scrittura, alla messa a punto di strategie operative efficaci e lineari, ricchi di suggerimenti pratici sul «come si fa», ma assai poco attenti alla dimensione cognitiva dei problemi.
È un equivoco nel quale cadono anche le pubblicazioni globalmente più convincenti, come quella di Elisabetta Degl’Innocenti per Paravia (Le prove del Nuovo Esame di Stato) che, a fronte di una discreta qualità dell’impianto complessivo, offre abbondanti materiali già elaborati, tratti per lo più da manuali di letteratura o da altre fonti esterne, che però creano nei giovani il consueto rapporto di distacco e di imbarazzo di fronte a modelli “ alti” di scrittura da raggiungere senza un’adeguata strumentazione.
Si tratta di un equivoco di fondo che, tuttavia, non è destinato a compromettere il successo editoriale di questi prodotti, che gli studenti presumibilmente continueranno a usare come strumenti-rifugio.
Peraltro, la nuova normativa – benché l’impostazione teorica sia stata tracciata da un tempo – richiederà senza dubbio qualche anno per potersi assestare; del resto appare evidente che la finalizzazione di questi testi avviene nella quasi totale assenza di proposte che mirino a una più complessiva gradualità nella didattica della scrittura, che avvii alla conoscenza e alle competenze sin dall’inizio del triennio e che non escluda dal percorso (come avviene colpevolmente oggi) la fascia del biennio superiore, per di più precario oggetto di una riforma epocale con l’introduzione dell’obbligo di frequenza.
In questo senso, appaiono decisamente più avanzati i progetti di educazione alla scrittura indirizzati al mercato accademico; i più avveduti di questi testi compiono un passo indietro per certi aspetti paradossale rispetto agli obiettivi posti dall’educazione alla scrittura nelle scuole superiori, mirando essenzialmente alla ricostruzione delle abilità di base (capovolgendo quindi la prospettiva dell’educazione liceale, che punta primariamente sulle tipologie testuali).
Nella presentazione del più convincente di questi testi, il recente Scrivere e comunicare di Dario Corno, si legge che «scrivere è progettare una comunicazione e che, come qualsiasi progetto, anche la scrittura è divisa in parti o fasi». Ed è proprio quella consapevolezza che manca nei testi destinati alle superiori. Il manualetto di Corno ha il grande pregio di guidare il lettore passo passo, in meno di 200 pagine e con un piglio dinamico e disinvolto, attraverso le dinamiche della produzione, con precise benché scarne indicazioni operative, agevolando anche l’acquisizione di una specifica metaconoscenza sull’operazione che si sta compiendo, ma senza mai innalzare troppo il tono della trattazione. Coerentemente con le nuove teorie della didattica della scrittura, Corno tende a far «apprendere a scrivere in modo che la comunicazione col lettore avvenga nel migliore dei modi possibili e con più successo informativo possibile».
Opere come questa rendono davvero praticabile il consolidamento delle competenze linguistiche e lessicali, abilitando chi comunica a «costruire il proprio sapere linguistico alla maniera di un ipertesto mentale, cioè sapendo spostarsi da una parola a un’altra, da un discorso a un altro eccetera» (come scrive il già citato Raffaele Simone): vale a dire saper effettuare le giuste scelte espressive a partire da un patrimonio di competenze in continua espansione, ma padroneggiato con sicurezza, in funzione degli scopi comunicativi, del contesto e dei destinatari della comunicazione così formulata.
Raggiungere un tale sapiente e non forzato equilibrio tra sapere e fare, tra conoscenze e competenze, non è per nulla agevole, come dimostrano i caratteri dell’altro testo destinato all’università (e non solo) che pare degno di menzione, il voluminoso Manuale di scrittura e comunicazione di Bruni, Alfieri, Fornasiero e Goldmann: nell’intento di coniugare conoscenza teorica e competenza pratica, il testo sviluppa una trattazione inevitabilmente ipertrofica, nella quale le considerazioni teoriche, oltre a prospettare a un target decisamente medio-alto, finiscono per soffocare la prassi in una tendenza accademica di fondo che non appare coerente e funzionale con gli obiettivi di quello che si sta delineando come il vero e proprio statuto di una nuova disciplina.