Paesi e campagne: a passi sghembi verso la modernità

Tutti i grandi scrittori del nostro Novecento si sono confrontati con l’Italia minore dei campi e dei borghi. Oggi, però, le cose sembrano stare diversamente: l’universo agreste e paesano sta uscendo sempre più velocemente dal mirino dei narratori italiani.
Dove sono infatti finite le virtù del «comune rustico»? E cos’è successo al salotto della signorina Felicita? Del resto l’Italia non è più il Paese dei paesi, ma quello delle «cento città» il cui malessere profondo non trova chi lo interpreti letterariamente.
 
Vale la pena di arrischiare subito un’impressione preliminare, prima ancora di mettere a fuoco: che l’universo agreste e paesano stia uscendo sempre più velocemente dal mirino dei narratori italiani. A tramontare è uno scenario per secoli tra i più frequentati nelle nostre belle lettere, e che per gran parte del Novecento è rimasto al centro del quadro, sostenuto prima dal ruralismo littorio e poi dagli slanci neorealisti; infine recuperato innumerevoli volte, in toni spesso furenti o malinconici, nel momento in cui l’Italia si è avviata a passi sghembi verso una compiuta modernità.
D’altronde, pur senza ricavarne meccanici determinismi, pare opportuno ricordare che se all’indomani dell’Unità tre italiani su quattro vivevano in campagna, oggi la percentuale si è esattamente rovesciata. Il nostro non è più il Paese dei paesi, ma quello delle «cento città». E così, non stupisce che la dimensione municipale media – più ancora che quella propriamente metropolitana – sia tra i fondali preferiti dai nuovi autori, sino a dar vita a un vero e proprio filone della Piccola città bastardo posto, per citare un icastico titolo di Roberto Barbolini, a sua volta ripreso da una canzone di Guccini. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, tra la Modena di Barbolini, appunto, e la Prato di Nesi, la Caserta di Piccolo, la Parma di Nori, la Cagliari di Atzeni… bersagli ora di rabbie tempestose ora di distacchi blasé, quando non di tenerezze contropelo o fruste nostalgie.
Obiettivo primario di queste pagine è però verificare la «resa finzionale» delle locations non cittadine (magari definendo con l’ONU «urbani» i nuclei abitativi che contano più di 20.000 abitanti). È questo, come è noto, un ambito nel quale sopravvivono marcatissime differenze regionali, inevitabilmente destinate a riverberarsi nei testi. Paesi e campagne si sono riformulati dappertutto in modi diversi, e i loro abitanti – e i loro scrittori – con essi. A passi sghembi verso la modernità, si diceva. Se occorresse una riprova, basterebbe confrontare i microcosmi delineati in due romanzi coevi (1989) ma che più distanti non potrebbero essere: Volevo i pantaloni di Lara Cardella, e Due di due, di Andrea De Carlo. Nel primo, Annetta rievoca i costumi sessuali vetusti e le umiliazioni subite da ragazza in un’ottusa famiglia di un borgo siciliano. La denuncia poggia sugli orizzonti grettamente arcaici in cui la vicenda è circoscritta, come tradiscono l’assenza compatta di qualsivoglia oggetto della modernità; i dialoghi rigorosamente in dialetto; la !abilità dei riferimenti temporali; l’insistito parallelo tra le vicende della giovane e quelle occorse, vent’anni prima, alla zia Vannina. Del resto persino Annetta, femmina oppressa («donna è moglie, donna è madre, ma non è persona») in una soffocante società patriarcale, non manca di rilevarne il classico rovescio positivo, vale a dire il senso di appartenenza e la solidarietà diffusa: «nel mio paese neanche un cane poteva morire senza essere aiutato o almeno compatito».
Agli antipodi il disagio patito dai protagonisti di Due di due. I milanesi Mario e Guido crescono nell’«orrenda città industriale», per la quale giungono a maturare un odio cieco. Guido, che osa sfidarla, scriverne con rabbia e viverci, ne uscirà distrutto; Mario, l’io narrante, si salva fuggendo nella campagna umbra, dove restaura un casolare e spende tutto se stesso nell’avviare un’azienda agricola «biologica»: restaurando così anche l’operosità borghese, riverniciata di sanità agreste e artigianato creativo. Indubbia, come si vede, è la precocità nel tematizzare pulsioni e istanze che sarebbero esplose solo negli anni Novanta (non a caso Due di due troverà il suo maggior successo a partire dalla ristampa del 1996 nei «Miti» Mondadori) , valorizzate soprattutto dalla narrativa estera. Il libro, d’altra parte, colpisce anche per la sconcertante parsimonia e genericità nella descrizione delle rustiche faccende. De Carlo, in particolare, assai di rado indulge a panoramiche campestri, incontrandosi tempestivamente con la vieppiù diffusa tendenza a sopprimere o scorciare i grandangolo paesistici.
Ma non è solo per questo che Pascoli si sarebbe irritato, a leggere Due di due. Ciò che più conta, infatti, è che Mario e la sua famiglia si guardano bene dallo stabilire alcun rapporto con i nativi. Quello che si configura è una sorta di robinsonismo, che non si cura minimamente di coinvolgere la comunità degli «indigeni». Ed è precisamente questa vistosa assenza che va registrata come uno dei fenomeni più notevoli nella narrativa degli ultimi tempi, nella quale ricostruzioni d’ampio respiro, specie dall’interno, di milieu locali rappresentano saltuarie eccezioni. Resterebbe anzi da chiedersi che fine faccia, con tutto ciò, uno dei miti più radicati e persistenti delle patrie lettere, quello di una diversità positiva e genuina dei valori contadini. li populismo rurale, a ben vedere, non sembra trovare da noi incarnazioni letterarie contemporanee credibili, incanalandosi piuttosto verso soggetti e luoghi (meglio se esotici) ove perduri e sfavilli lo «scandalo della miseria» – ma è questione troppo grande per affrontarla di passaggio. Sintomatico, a ogni modo, appare l’irrealismo che al riguardo contraddistingue due scrittori giovani: Guido Conti, che in I cieli di vetro inventa un enorme e fiabesco mugnaio innamorato; e soprattutto Andrea Garello, il cui esordio, Alo Melograno, si risolve in uno scherzoso fumetto in technicolor sulle mirabolanti avventure di un contadino tonto e superdotato.
Peraltro, presso gli autori delle vecchie generazioni, testimoni di un’evoluzione vertiginosa, il meccanismo resta quello consueto per cui le virtù del «comune rustico» divengono oggetto di partecipe rievocazione. Saltando d’emblée i numerosi nostalgici e arrabbiati, s’impone tra i rappresentanti odierni di quest’approccio il nome di Mario Rigoni Stern. L’alpino veneto ritorna – da ultimo in Inverni lontani – sui luoghi natii, consegnandoci ancora calde le ceneri di una piccola e coesa comunità montana, in armonioso rapporto con l’ambiente; un intreccio inestricabile di cui le schede di Arboreto salvatico offrono il più suggestivo referto. Questo culto postumo di una civiltà travolta non mira però a tracciare un placido riparo dalla macina della storia, come dimostra Le stagioni di Giacomo, ragazzo di montagna che campa recuperando residuati della Grande Guerra, vive l’avvento del fascismo nella valle e finisce col perdersi, soldato, nell’inverno russo.
D’altro canto, meglio ancora che l’Altopiano di Asiago di Rigoni Stern, è la Liguria estrema di Francesco Biamonti a mostrare limpidamente come il vento doloroso del presente frughi le valli più remote. La marginalità geografica non rende affatto eludibile il rapporto coi grandi drammi dei nostri tempi. Siamo in un ponente luminoso e decaduto, percorso da immigrati in fuga e personaggi allo sbando: come Edoardo, il marinaio di Attesa sul mare, che nel suo ultimo viaggio salpa con un carico d’armi diretto in Bosnia. In Biamonti il lirismo aspro e desolato della scrittura non depreca, bensì incrina – solo per un attimo – l’irrimediabile silenzio dei villaggi deserti, dei muretti a secco miseramente crollati, degli uliveti in malora. E proprio la rovina della civiltà contadina dell’ olio riecheggia in L’olivo e l’olivastro di Vincenzo Consolo, a metafora della Sicilia odierna, assordata dai motorini, annegata nel cemento, sfregiata dal «massacro della memoria» compiuto da un progresso cieco e senza senso. In questa rabbiosa elegia, a spadroneggiare sono i fanatici della «roba»: è un’isola di mastro-don Gesualdo, anzi di Mazzarò collusi con la mafia. Di paesi, in ultima analisi, ben diversi da quello immobile dell’Annetta cardelliana, ma anche dalla Vigàta di Andrea Camilleri.
In effetti, a ricomporre un quadro d’insieme, ad esempio muovendo dai racconti di Un mese con Montalbano, Vigàta emerge come una realtà tutto sommato cordiale, in cui – come ha notato Gianni Canova – gran parte dei crimini (di rado spietati) non presenta alcuna connotazione «geografica», potrebbe accadere a Volterra o Santhià. Certo, la mafia esiste, ma in linea di massima opera ancora in base a un codice d’onore tradizionale e prevedibile: non i fucili a pompa, ad esempio, ma la buona, vecchia lupara. Altrimenti, ad aggiustare le cose ci pensa Montalbano. Camilleri, insomma, rivitalizza tuffandoli in salsa siciliana entrambi i topoi tipici dei gialli «di paese»: il ron ron della provincia «addormentata» e i misteri di quella «avvelenata». Non sarebbe difficile individuare altri lavori ascrivibili a quest’indirizzo, ultimi dei quali gli amabili gialli storici ambientati sull’appennino toscoemiliano da Loriano Macchiavelli e Francesco Guccini (Macaronì, Un disco dei Platters) . Meno comuni, in queste contrade, si direbbero i noirs violenti: ma al proposito occorre segnalare almeno la Sardegna aspra di Mar celio Fois e l’empia Romagna di Eraldo Baldini (del quale si vedano ora le storie raccolte in Gotico rurale) .
Ancora Guccini (a partire da Croniche epafàniche), al pari di un altro cantante, Luciano Ligabue (Fuori e dentro il borgo), ha attinto a una vena corposamente realistica per rinfrescare l’Emilia minore, calorosa e sincera, di Giovanni Guareschi. Questi e alcuni altri episodi, tuttavia, non bastano davvero a invertire il flusso della corrente. Corrente che nel frattempo ha travolto, non concedendole più nemmeno l’onore della satira, la provincia crepuscolare dei vestiti fuori moda, dei crocchi sul sagrato, dei barbieri esuberanti, dei salotti borghesucci: nella realtà schiacciati tra l’incudine dell’high-tech e il martello delle mode pseudoetniche, che vanno convertendo allo «stile povero» persino gli showrooms dei mobilieri brianzoli (il che, quantomeno, presuppone l’esorcizzazione di un passato di miseria) . Sottesa al lento declino del successo di un autore come Piero Chiara, si avverte appunto la progressiva eclissi di una realtà borghigiana via via sempre meno oggetto di memoria condivisa col lettore. Esemplare come il luogo cardine dell’intera sua narrativa, il caffè di paese, riappaia oggi stravolto e incenerito nei deliranti monologhi in versi romagnoli di Raffaello Baldini. Né sarà senza significato che il ripescaggio di un’identità locale in genere funzioni meglio quando virato – come è ormai prassi – in chiave di individualità originale e stravagante. In fondo, è quanto capita con quell’altra Emilia, parente prossima della regione ariosa e naif di Zavattini, che si accampa (con la mediazione decisiva del Celati dei Narratori delle pianure) nelle stralunate pagine di Ermanno Cavazzoni.
Se c’è un qualcosa che accomuna, con poche eccezioni, tutte le esperienze sin qui passate in rassegna, è l’inclinazione a sottrarsi al confronto con l’ambiente cittadino. L’incontro/scontro del Rastignac provinciale con la complessità urbana è piuttosto schema ricorrente nei romanzi di formazione: come si desume esemplarmente dal Seminario sulla gioventù di Aldo Busi, dove è disegnata la parabola di un ragazzo dal contado bresciano a Parigi. Infanzie francamente villerecce come quella di Barbino sono però sporadiche, di questi tempi. Un caso diffuso di mobilità giovanile che ha trovato adeguata rappresentazione narrativa è invece quella studentesca, cantata da Silvia Ballestra nella «Buriniade» degli Antò (ora riunita in Il disastro degli Antò). Addio tirate a paletta sul lungomare con la 127 Abarth smarmittata! Frotte di virgulti adriatici abbandonano il natio borgo selvaggio per approdare nei tuguri di una deludente Bologna universitaria, o sin negli squallori di Berlino. Il guaio è che la fuga dei tanti «Fabbio di Vasto» dalla «paesanità» si rivela impossibile, semplicemente perché se la portano dentro. Antò Lu Purk «era solo un buono, in fondo. Con la testa piena di codici d’onore pescaresi». Nel deridere il velleitarismo culturale dei suoi villani rifatti, l’io narrante non si sogna affatto di idealizzare quanto si lasciano alle spalle, ovvero una civiltà contadina imbalsamata e insieme deturpata dalla auri sacra fames.
Perché tecnologia e benessere, si sa, da tempo non schifano poggi, viottoli e cavedagne: così come si ricava anche da Com’è grande la città di Bruno Pischedda, collage di riflessioni e ricordi di un altro (ex) studente di provincia. A mollo nella sua Cesate anche Pischedda, come Cavazzoni, scopre l’originalità e la dignità dell’ordinario locale: ma in quanto ordinario, se non proprio massificato. A campeggiare sono la passione, il puntiglio e la verve umoristica con cui si rovistano e riscontrano passato e presente di un abitato appena oltre l’hinterland milanese: ai margini di una modernità urbana della quale il protagonista impara ad apprezzare le risorse. La scintilla scocca dallo sguardo perforante di una mente virtualmente emigrata in città su una realtà ben conosciuta e circoscritta: ma né elementare, né immobile.
Proprio qui sta il punto. Si è detto della fuga dalla provincia, e più sopra degli odierni ritorni «estetizzati» alla campagna, da De Carlo in poi. Quelli che vanno – e quelli che tornano. Ma quali autori puntano su chi invece resta? La sensazione è che un confronto serio e puntuale con la normalità di questa dimensione latiti. Il che appare tanto più paradossale ove si pensi che, dopotutto, è a quest’altezza che è maturato il chiacchieratissimo «profondo malessere» che ha scosso la penisola nell’ultimo decennio. Prendiamo, con scelta non casuale, il Veneto minore. Ricognizioni volonterose non mancano: vedi, sul mondo del lavoro, Il costruttore di Carlo Sgorlon, amaro resoconto dei tormenti di un imprenditore siciliano trapiantato a Nordest; oppure, sull’industria del divertimento notturno, il Marco Franzoso di Westwood dee-jay; o, ancora, La terra è di tutti di Ferdinando Camon, romanzo d’ipocriti borghesi e immigrati d’ogni dove. In quest’ambito, a distinguersi – com’era presumibile – sono stati anche i giornalisti-scrittori, in primis Gianfranco Bettin, che con L’erede ha costruito un eccellente romanzo reportage sulla vicenda di Pietro Maso, il ragazzo di Montecchia di Crosara che uccise per danaro i propri genitori.
Eppure, a conti fatti, resta il fondato sospetto che oggi manchi una penna in grado di aggiornare il vigore con cui un Mastronardi ha saputo tradurre in fiction l’imporsi di una mentalità. E si dice Mastronardi perché le peggiori inquietudini sembrano più che mai allignare tra le quattro mura di casa e bottega; è lì che vampano acquattate, non più per le piazze, e nemmeno per campi e officine. In queste condizioni, il classico affresco di provincia a tutto tondo stinge fino a confondersi nei silenzi e le solitudini degli interni. Diluita ogni specificità riconoscibile, crivellata ogni idea coerente di comunità, si stenta a immaginare qualcuno in grado di compiere un autoritratto di gruppo – disperso o meno – del calibro di Libera nos a malo, composto da Meneghello mentre il Veneto scapicollava sulla groppa del boom. Ad affacciarsi, dunque, è l’implosione del contesto, è l’entropia del paese. È questa che scuote e insanguina le crudeli infanzie modellate da Simona Vinci (Dei bambini non si sa niente) e Niccolò Ammaniti ( Ti prendo e ti porto via), immaginate rispettivamente a Granarolo e nel viterbese. Ed è sempre questa a balenare nelle short stories di Aldo Nove: «Mi chiamo Salvatore, sono di Abbasanta (Nuoro) e il mio sogno è diventare il Marilyn Manson della Sardegna. Ho già iniziato a pisciare nei cassetti della cantina e con due miei amici di Ula Tirso mi ritrovo il sabato per invocare un po’ il demonio e bere della vernaccia a canna».