A costo di essere brutali, si potrebbe trovare una formula semplificatoria (ma fin troppo vera) per rendere conto dei luoghi della socialità nella narrativa italiana recente: moltissima scuola e pochissimo lavoro. Il racconto di un percorso di crescita e di formazione costituisce infatti uno scenario che fa comparire quasi dovunque immagini di scuole. Invece gli scrittori ignorano quasi del tutto non solo le fabbriche, ma anche gli uffici. Semmai qualche volta si dedicano a istituzioni totalizzanti, ospedali o carceri: chissà che non ne venga fuori una nuova etica della scrittura?
In un capitolo giustamente famoso del suo Aspetti del romanzo (1927), Sir Edward Morgan Forster ricordava come l’arte del romanzo abbia una prerogativa davvero singolare.
In essa infatti lo scrittore costruisce delle «masse di parole» che descrivono oggetti in prima approssimazione simili all’autore stesso: la narrativa è fatta di personaggi, e i personaggi «sono» (quasi sempre) esseri umani, proprio come colui che li costruisce. Nella sua apparente banalità, questa constatazione serviva in realtà a Forster come maliziosa e tendenziosa premessa per un discorso volto a porre in rilievo invece proprio le differenze fra, per usare i suoi termini, l’Homo Sapiens e l’Homo Fictus: differenze che, forse non è inutile sottolinearlo, non cancellano affatto la misteriosa e tutt’altro che chiarita somiglianza fra le persone reali e quei costrutti verbali che di comune accordo chiamiamo «personaggi». Secondo Forster gli esseri umani trascorrono la loro vita dedicandosi in buona sostanza a cinque azioni fondamentali: nascere, mangiare, dormire, stabilire relazioni con i propri simili (amori, affetti, legami sociali vari) e, certo last but not least, morire. L’atavico risentimento socio-economico di chi scrive suggerirebbe di aggiungere a questa lista almeno una sesta azione fondamentale: lavorare. Ma è probabile che per Forster la questione del lavoro (idest: del guadagno)avesse in effetti una rilevanza assai limitata. In sintesi, Forster notava con arguzia come i romanzieri siano in genere molto interessati alla morte, e come invece si disinteressino quasi del tutto del sonno (che pure occupa circa un terzo della vita!) o, ancora più clamorosamente, prestino per lo più scarsa attenzione a un’attività importante come quella di nutrirsi. Insomma, concludeva il grande scrittore inglese, l’Homo Fictus si distingue nettamente da «suo cugino» (cioè dall’uomo reale), perché «di solito nasce senza che ce ne accorgiamo, è capace di morire in continuazione, ha bisogno di pochissimo cibo e di pochissimo sonno, ed è instancabilmente occupato nelle relazioni con il suo prossimo».
Ecco il punto che c’interessa. Se è vero, com’è vero, che i personaggi sono «instancabilmente occupati nelle relazioni con il prossimo», la loro socialità non è dunque solo un tratto caratteristico come tanti altri, ma addirittura ciò che li costituisce come tali, ciò che li fa «nascere» e vivere. Un personaggio, è persino banale dirlo, è le sue relazioni sociali, oppure non-è: anche la sua solitudine è evidentemente una relazione, poco importa se negativa. Per questo i luoghi dove si esercita la sua socialità tendono a condensare in modo scoperto dati di realtà e insieme significati simbolici. La scelta di questi luoghi è infatti per un verso il riflesso (mi si passi questo termine così teoricamente compromesso) evidente di una realtà storica e sociale, e però al tempo stesso manifesta una scoperta tendenziosità, una selettività che carica di significato sia gli spazi esclusi sia quelli inclusi nella rappresentazione, così da rendere questi ultimi percettibilmente simbolici nel momento stesso in cui ce li fa vedere concretamente. Il mio discorso sarà parso fin qui astruso e difficile: ma fra un attimo si vedrà come, tutt’al contrario, esso sia di un’immediatezza lampante.
Per farla breve: la rappresentazione dei luoghi della socialità regolata, dei luoghi cioè dove gli incontri e le relazioni sono prodotti non da libere scelte ma da obblighi e impegni, da forme di contratto sociale, nella letteratura italiana recente s’impernia su una polarità evidentissima, e quasi imbarazzante, che sintetizzerei nella seguente formula: moltissima scuola e pochissimo lavoro. Detto in modo appena appena più analitico, nella letteratura degli ultimi dieci-vent’anni si fa parecchia fatica a trovare luoghi di lavoro (il che non vuol dire che Forster avesse ragione a escludere il lavoro dalle azioni fondamentali della narrativa!), mentre invece si trovano innumerevoli rappresentazioni della scuola: basta un’occhiata, anche molto corsiva, per notare come quasi dappertutto compaiano svariati professori e, soprattutto, legioni di studenti, ovvero di personaggi giovani e di vicende «di formazione», in senso stretto o in senso lato.
Cominciando dal primo termine della coppia elementare scuola/lavoro, vale la pena di ricordare che la letteratura italiana, per antichi vizi nazionali, non è di per sé un terreno particolarmente favorevole alla messa in scena delle dinamiche lavorative e dei luoghi del lavoro: e questo non da ora, ma da tempi lontanissimi (diciamo, molto a spanne: dal XIV secolo). Non è qui la sede per ricordare né i termini fondamentali della questione della lingua, né la dolorosa storia della debolezza della nostra tradizione romanzesca. D’altra parte gli anni che vanno dall’immediato secondo dopoguerra alla fine degli anni Settanta avevano registrato un prolungato e vigoroso avvicinamento alle problematiche del lavoro, evidentemente sospinto dalla cultura dell’impegno (più esattamente: dalle culture dell’impegno, al plurale). Per questo è davvero impressionante la violenza, ai limiti della rimozione nevrotica, con cui la letteratura degli ultimi dieci o vent’anni ha invece messo quasi del tutto da parte l’universo del lavoro. E non è certo un caso che molti degli scrittori che hanno continuato a rappresentare la fabbrica o persino il lavoro rurale siano nati prima della fine della guerra: basti pensare a Paolo Volponi e a Vincenzo Consolo.
Non c’è verso però di interpretare questa impressionante rimozione in una chiave univocamente deterministica, come un semplice effetto della «realtà». Certo, nessuno si stupisce della sparizione del lavoro dei campi dalla narrativa, in un mondo dove ormai i lavoratori dell’agricoltura rappresentano una percentuale minima degli occupati. Ma anche la fabbrica è sparita dai romanzi, in modo ancora più radicale. Sarà un effetto del post-moderno, dell’avvento di una società post-industriale? Peccato però che le industrie siano ancora una presenza solidissima nel panorama economico mondiale: anche, se com’è ben noto, l’Occidente ecologista tende sempre più a esportare nei paesi «in via di sviluppo» le produzioni più inquinanti. Senza contare poi che, sorprendentemente, persino la terziarizzazione generalizzata dell’economia dei paesi ricchi non trova pressoché nessun riscontro in letteratura. A dar retta ai romanzi, sembrerebbe che, a parte un paio di manager, un manipolo di valorosi maestri e professori, un confuso gregge di lavoratori precari di varia natura (pony express, magazzinieri e impacchettatori part time, operatori sessuali e intrattenitori a vario titolo), nonché una solida schiera di poliziotti pubblici e privati, qui in Italia, per farla ancora breve, non lavori quasi nessuno. Viene voglia di dare ragione ai più vieti stereotipi sulla fannullaggine italica partoriti, da tempo immemorabile, dalla lobby del qualunquismo calvinista internazionale. In compenso nel Bel Paese tutti studiano, e, ça va sans dire, moltissimi scrivono, per la gioia dei critici e dei succitati professori.
Ma sto esagerando. Tentiamo invece di fare un corsivo regesto dei luoghi di lavoro narrativi. È noto come, dopo molte difficoltà, la fabbrica avesse lentamente preso corpo nella narrativa italiana dagli anni Cinquanta ai Settanta: da Paolo Volponi a Ottiero Ottieri, a Goffredo Parise, passando per la piccola intrapresa di Lucio Mastronardi, su fino ai romanzi movimentisti di Tommaso Di Ciaula, di Vincenzo Guerrazzi, e naturalmente di Nanni Balestrini. E adesso? Negli ultimi anni forse l’unico che abbia preso di petto la rappresentazione dell’industria è stato Antonio Pennacchi, nel notevole Mammut (anche il secondo romanzo di Pennacchi, Palude, sempre uscito da Donzelli, avrebbe peraltro meritato maggiori attenzioni): vi si racconta infatti la storia di Benassa, un omaccione, pieno di vita e di amori, leader sindacale dell’Alcate!, che dopo anni di lotte e botte si è scocciato, vuole mollare il sindacato, la fabbrica e la classe operaia, ormai simili per l’appunto a un mammuth in via di estinzione: ma non ci riesce. Anche un personaggio di Aldo Nove, Claudio, fratello del narratore di Gesù Cristo, uno dei racconti di Woobinda, fa il leader sindacale; ma il suo impegno viene interrotto in modo brusco, e «cannibalescamente» estremo: «Mi è dispiaciuto surgelare mio fratello ma bloccava la pace che è in me, la tranquillità della gente che lavora [. . . ]. Lui stava nel freezer e un giorno sarebbe resuscitato insieme a tutti gli altri, e per intanto non mi rompeva più i coglioni». Difficile ritenere del tutto involontario il simbolismo macabro di questo, come chiamarlo, engagement glacé.
Per il resto, le comparse dell’industria sono in genere poco più che accessori della «vera» identità romanzesca dei protagonisti: penso ad esempio a Lupo mannaro di Carlo Lucarelli, dove si narra la doppia vita di un efficiente imprenditore padano, che di notte si diletta a massacrare prostitute tossicodipendenti. Semmai qualche scorcio importante ci viene dalle rappresentazioni della piccola industria, non numerosissime, ma in qualche caso letterariamente significative: a cominciare dal non dimenticato e mirabilmente canagliesco Celestino Lometto, protagonista della Vita standard di un venditore provvisorio di collant di Aldo Busi. Per proseguire magari con certi intensi pezzi di non-fiction delle Cronache italiane di Sandro Veronesi: come il memorabile Vieni, vieni, vieni, il cui titolo evoca lo slogan di quella straordinaria quanto effimera celebrità, quasi Ur-Mutter dell’imprenditoria mediatico-rampante, che fu, nel primo decennio delle TV libere, il mobilificio Aiazzone. Tornando al terziario, fa davvero specie che, proprio in corrispondenza con la fase di terziarizzazione più spinta dell’economia mondiale, la nostra narrativa recente abbia fatto registrare persino l’eclissi, pressoché totale, dell’antico, glorioso e quasi infero epos dell’impiegato, che a suo modo era stato un topos fondatore, al tempo stesso, della tarda modernità e dell’anti-mito dell’inettitudine: da Charles Dickens a Herman Melville a Italo Svevo, fino al Giuseppe Pontiggia di La morte in banca e, perché no, al Fantozzi di Paolo Villaggio, insuperato e forse insuperabile archetipo, tragicomico e iperbolico, superbamente elementare, dell’impiegato-massa italiano. Anche a mettersi di buzzo buono, si trova davvero ben poco, e viene voglia di levarsi il cappello davanti agli esiti, pure assai disuguali, del penultimo romanzo scritto da Volponi, Le mosche del capitale, apocalitticamente proteso a rappresentare l’universale degrado di una realtà industriale sempre «Più brutta e più cupa», e anzi «così brutta e sfatta che non è più raccontabile», dove solo il capitale vive, onnipresente e autorigenerantesi, in costante incremento, «spinto dalla vita di tutto e di tutti», vampiro e signore senza avversari. Persino la dolcezza del sonno viene evocata ricorrendo a immagini classiche, ma solo per accentuare il ghigno grottesco della constatazione di una nevrosi generalizzata: «Dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati», «Quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e del Roipnol». Anche il protagonista, dirigente di una grande industria molto simile all’Olivetti, e potenziale portatore di una tensione utopica, viene assorbito inesorabilmente dall’universale barbarie: e non è certo un caso che si chiami Bruto Saraccini.
Fra i pochissimi che hanno messo a fuoco la spesso durissima realtà della vita aziendale, merita senz’altro una menzione Massimo Lolli, autore di un romanzo interessante, anche se linguisticamente non risolto, e infelicemente intitolato Volevo solo dormirle addosso. Lolli rappresenta con grande coraggio e lucidità una figura di manager tanto importante quanto ignorata dai più: quella del «tagliatore di teste», antitesi pressoché integrale del comprensivo «pizzicologo» di Donnarumma all’assalto di Ottieri, al quale peraltro lo accomunano la lucidità psicologica e l’umanistico controllo dei poteri del discorso persuasivo. Il protagonista e narratore di Lolli è infatti un dirigente di una grande società di computer, incaricato di mettere fuori in tre mesi quasi un terzo dei dipendenti. I sindacati impediscono qualsiasi licenziamento: ma sono disposti a chiudere tutt’e due gli occhi di fronte a dimissioni «spontanee». Il protagonista deve quindi identificare tutti i dipendenti allontanabili e «incentivarne» le dimissioni con l’offerta di una buonuscita. Poiché il dimissionario deve lasciare «di sua spontanea volontà», il compito del «segatore» s’identifica con un difficile braccio di ferro psicologico, «un bluff, una partita a poker, un miscuglio di blandizie e minacce»: caso mai dovesse fallire, presto qualche collega lo chiamerà, per mostrargli persuasivamente quanti buonissimi motivi avrebbe per dare le dimissioni…
Ma sono, per l’appunto, eccezioni che confermano piuttosto la regola per cui gli Homines Ficti del romanzo italiano recente sono di rado integrati nell’universo lavorativo: come invece credo accada alla maggior parte degli Homines Sapientes in età adulta. Piuttosto invece hanno assunto una qualche forma di tipicità romanzesca i protagonisti che svolgono lavori precari. È chiaro, il lavoro precario permette una paradossale e significativa convergenza (per lo più giocata in chiave comica) fra l’aura romantica dell’emarginazione e l’anti-epos dell’inettitudine: si pensi ad esempio al Carlo Marozzi di Il talento di Cesare De Marchi, al Nearco Ferrari di Bassotuba non c’è di Paolo Nori, o allo stesso Rocco Fortunato, protagonista autobiografico di I reni di Mick Jagger.
La socializzazione incerta dei lavoratori precari tende evidentemente a fare tutt’uno con la rappresentazione di una mobilità, sociale e interiore, di una coscienza individuale in fase di crescita o anche solo di definizione, di «formazione», alla lettera. Stiamo così passando al tema, quasi intrattabile per le sue dimensioni, della rappresentazione della scuola. Se si dice che moltissimi romanzi mettono al centro della storia l’universo scolastico, si sbaglia sicuramente per difetto. Perché nel romanzo contemporaneo italiano le scuole sono dappertutto, e, ad esagerare appena un pachino, si farebbe certo prima a ricordare i libri in cui è del tutto assente, piuttosto che cimentarsi con l’impossibile censimento di quelli che ne parlano diffusamente. È difficile costringere in poche righe la massa di precisazioni e riflessioni che richiederebbe una trattazione appena appena adeguata della questione. Certo è che, contro la classica tesi della morte ottocentesca del romanzo di formazione, si potrebbe essere tutt’al contrario tentati di ritenerlo addirittura il genere dominante del sistema letterario del secondo Novecento: e dire «formazione» significa dire «istruzione» (la parola tedesca Bildung ha del resto entrambi i significati), e dunque scuola. Ma nel corso del Novecento l’età media dei protagonisti di Bildungsroman si abbassa quasi irresistibilmente, fino a identificarsi senza residui con l’età (fra i tredici-quattordici anni e i diciannove) di chi sta fra l’ultimo scorcio della scuola media inferiore e l’esame di maturità. E difatti, per fare un’altra sintesi semplificatoria, è chiaro che le scuole elementari interessano pochissimo i narratori; le scuole medie inferiori contano pachino; l’università ha solo da qualche anno cominciato a entrare nell’obiettivo; la scuola media superiore compare invece in una percentuale di testi quasi stupefacente, e comunque largamente maggioritaria.
A questo quadro hanno dato un formidabile, indubbio contributo la marcate caratteristiche generazionali di una grossa fetta della narrativa degli ultimi vent’anni circa, a partire da Porci con le ali e Boccalone: caratteristiche poi accentuatesi con i cosiddetti «giovani narratori» (in particolare con Pier Vittorio Tondelli e gli scrittori che a lui si sono rifatti), e accentuatesi ulteriormente con i «cannibali». Qui ci sarebbe da fare un altro lungo discorso: sul diverso rapporto fra i giovani scrittori dell’ultimo ventennio e il pubblico (e la leggibilità); e sul rapporto fra narratori giovani e pubblico giovane. Senza contare poi l’affermarsi della, per così dire, griffe della giovinezza come potentissimo strumento di promozione commerciale: giovane è bello, e anche per questo non si cresce mai, e si va sempre a scuola, e non si sceglie mai, e ci si massacra i connotati con il lifting. A queste troppo rapide considerazioni va aggiunta inoltre anche la constatazione, forse grezzamente sociologica ma assai difficile da smentire, che una buona percentuale degli scrittori normalmente si guadagnano la vita insegnando: il che vuol dire che per loro (voglio dire: nella realtà) il mondo della formazione e quello del lavoro coincidono. Non mi pare poco.
Sopraffatto dal numero dei titoli citabili e dei discorsi da fare, mi limiterò qui a un elenco o poco più, che però dovrebbe almeno in parte rendere l’idea. Dunque, si parla di scuola, cioè sostanzialmente di scuole medie superiori, pressoché in tutti i libri che si immettono nella main stream post-tondelliana, e nella connessa, fondamentale area di narratori cresciuti dalle parti di Transeuropa, da Silvia Ballestra (Compleanno dell’iguana) a Enrico Brizzi (Jack Frusciante è uscito dal gruppo) . Di scuola parlano sistematicamente i narratori, diversissimi, che riprendono a vario titolo strutture del racconto di formazione: dall’Andrea De Carlo di Due di due all’Antonio Franchini di Camerati, dai diari amaramente comici del professar Domenico Starnone in Ex cattedra ai racconti di argomento contemporaneo di Il pettine di Laura Pariani ( che pure nella vita fa l’insegnante), su su fino ai racconti di Storie di primogeniti di figli unici di Francesco Piccolo, all’ambiziosa struttura romanzesca di Ti prendo e ti porto via di Niccolò Ammaniti (la cui unità di tempo è vistosamente incernierata sul calendario di un anno scolastico), per finire con il sotto-genere, di recentissimo sviluppo, del diario scolastico, dalla fiction dolcemente ironica di La gallina volante di Paola Mastrocola (già premio Calvino 1999), all’intenso diario vero del compianto Sandra Onofri, Registro di classe. Questo elenco, davvero buttato un po’ lì a titolo di esempio, andrebbe completato con i non pochi libri che parlano di università. E penso non tanto a quelli scritti dalla parte dei professori, come in particolare quel singolare Bildungsroman che è Scuola di nudo di Walter Siti, ma alle variegate rappresentazioni di vita universitaria che emergono dalla non-fiction di Com’è grande la città di Bruno Pischedda, dalle vicende paradossali di Occhi sulla graticola di Tiziano Scarpa, per finire magari ancora con Niccolò Ammaniti, che nel curioso racconto Lo zoologo (in Fango) narra la singolare e folgorante carriera universitaria di uno zombi dalle prodigiose capacità mnemoniche (Honny soit qui mal y pense … ). A voler essere esaustivi, sarebbe opportuno ricordare anche le ormai sporadiche ma pure significative apparizioni di un universo scolastico-coattivo come il collegio, che di tanta fortuna ha goduto nella narrativa occidentale fino ai primi decenni del XX secolo. Basti pensare al bellissimo I palloni del signor Kurz di Michele Mari (in Euridice aveva un cane) ma anche all’improbabile, spassoso orfanotrofio di La compagnia dei Celestini di Stefano Benni. Dove si vede bene come il collegio italiano, forse per la sua diminuita rilevanza sociale, viri verso il fantastico, e soprattutto come i collegiali dei romanzi italiani si dedichino ormai tutti senz’altro al football: «potenza della desublimazione repressiva», osserverebbe probabilmente il signor Herbert Marcuse, «ai tempi di Il giovane Torless nei collegi si faceva ben altro !».
Provando a uscire dalla quasi inevitabile strettoia della polarità scuola/lavoro, colpisce che la narrativa recente abbia registrato anche una pressoché totale sparizione dei luoghi della politica, che pure avevano contato parecchio in varie fasi della nostra storia letteraria, da (perdonatemi questo rozzissimo colpo d’accetta storiografico) Antonio Fogazzaro e Federico De Roberto, fino a Itala Calvino e Leonardo Sciascia. Quando c’è, la politica dei romanzi recenti compare quasi sempre nelle forme della ricostruzione storica di un passato abbastanza remoto, come ad esempio nella bella saga familiare di Il gioco dei regni di Clara Sereni, o nella ricostruzione dell’omicidio dell’onorevole Emanuele Notarbartolo, in Il Cigno di Sebastiano Vassalli. Anche l’intreccio di militanza extra-parlamentare e terrorismo viene ormai spesso giocato nella prospettiva della rievocazione memoriale, come in Aceto, arcobaleno di Erri De Luca. Mentre i casi di lettura in senso lato militante della violenza politica si contano davvero sulle dita di una mano: penso, per formare una coppia volutamente provocatoria, a Gli invisibili di Nanni Balestrini e a Costretti a sanguinare di Marco Philopat, che ricostruisce le vicende del punk e dei centri sociali a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Quanto a un impiego più classicamente romanzesco dei luoghi della politica, anche nelle sue eventuali connessioni con l’universo spionistico, spiccano, in solitudine quasi assoluta, le notevolissime prove del già citato Sandro Veronesi, cioè sia Venite venite B-52 che il recentissimo La forza del passato.
Dalla politica agli uffici pubblici il passo è breve, ma non mi pare che il nostro frettoloso regesto si arricchisca di molto: ricorderei in questo senso l’esordio di Giuseppe Culicchia, Tutti giù per terra, che però resta in buona sostanza piuttosto una delle tante (troppe) storie del maturare di una vocazione di scrittore, in forme vivacemente anti-eroiche (ma non del tutto prive di auto-compiacimento) . Rispetto alla rappresentazione della pubblica amministrazione, un caso inconsueto è invece rappresentato da un fenomeno, forse effimero e comunque eccezionale, di cortocircuito fra la cronaca, purtroppo tragica, e la letteratura: sto pensando alla profonda impressione suscitata dai delitti Falcone e Borsellino, che ha prodotto in tempi rapidissimi la comparsa di alcuni personaggi di magistrati eroici, ad esempio in Questo è il giardino di Giulio Mozzi, o in Lo spasimo di Palermo di Vincenzo Consolo. Va da sé però che i tribunali, e ancora di più i commissariati, sono luoghi indispensabili, quasi trascendentali, della narrativa di genere poliziesco, con non infrequenti risalite istituzionali fino al Ministero degli Interni: come accade ad esempio in qualche episodio della saga del commissario Salvo Montalbano di Andrea Camilleri.
Ma, se vogliamo cogliere la forza simbolica delle selezioni di luoghi, evidentemente le inerzie delle strutture di genere ci aiutano poco. Colpisce invece che finalmente a qualcuno sia venuto in mente di rappresentare l’universo dell’informazione. In particolare si parla delle redazioni dei giornali nel romanzo di Michele Serra Il ragazzo mucca, ma anche, e con risultati ben più felici, in quasi tutti i romanzi di Emilio Tadini (L’opera, La lunga notte, La tempesta) e, non dimentichiamolo, in Sostiene Pereira, che forse è il miglior romanzo di Antonio Tabucchi. Quasi nessuno invece si occupa dell’industria delle vacanze, che pure ha una rilevanza sociale notevolissima: mi vengono in mente solo le spassose Memorie di una guida turistica di Sergio Lambiase. E se l’assenza letteraria del turismo forse non stupisce nessuno, vale la pena di riflettere almeno per un istante sull’assenza quasi totale delle figure dei vicini e in genere della vita condominiale, in senso lato: un dato che la dice lunga sull’isolamento e l’anomia della vita quotidiana urbana. Anche i pochissimi esempi disponibili (come Stati di famiglia di Gene Gnocchi) mostrano come per il medio cittadino italiano della fine del xx secolo i vicini di casa esistano solo per rompere le scatole, o, peggio, per compiere azioni delittuose: e questo ci pare persino normale!
Ma eccoci finalmente arrivati all’ultimo capitolo di questa nostra piccola mappa. Al confine della socialità, e qualche volta della vita stessa, troviamo i luoghi della socialità coatta, quelli che una volta si chiamavano «istituzioni totali». A cominciare dai manicomi, che, pur essendo legalmente aboliti, continuano a esercitare sugli scrittori una notevole forza di attrazione, a cavallo fra sociologia e trasgressione romantica, e con una singolare continuità tra la fiction e la non-fiction: penso ad esempio al Repertorio dei pazzi della città di Palermo di Roberto Alajmo, a Manicomio primavera e Eppure di Clara Sereni, ma anche ai casi clinici narrati da Mauro Covacich in Storia di pazzi e di normali e dallo psichiatra Vittorino Andreoli in Il matto inventato. Se gli ospizi per anziani esercitano, comprensibilmente, un potere di suggestione assai meno diffuso (ricorderei il recente Nafta di Angelo Ferracuti), non sono pochi i romanzi che mettono in scena gli ospedali e la malattia: da Luca Doninelli in La verità futile, al già ricordato Mauro Covacich nel notevole Mal d’autobus, allo stesso Paolo Nori. Si ha comunque la netta impressione che la rappresentazione degli ospedali abbia a che vedere non solo, genericamente, con lo strazio della sofferenza e della morte delle persone amate, ma, più specificamente, con il rapporto tra il figlio maschio (giovane) e il padre (reale o simbolico). Certo, non màncano le eccezioni (a cominciare da Nei mari estremi di Lalla Romano), ma il fatto che l’immagine dell’ospedalizzazione terminale venga in prevalenza declinata in chiave edipica evoca, ancora una volta, la questione della difficile conquista di un’identità adulta. Tanto più merita perciò di essere citato, anzitutto per la sua originalità, un libro come il già citato I reni di Mick Jagger di Rocco Fortunato, che spalanca davanti agli occhi del lettore, con uno sguardo coraggioso e insieme scanzonato, la realtà atroce della dialisi e dei trapianti.
Ma, come il rimosso e gli zombie, l’ossessione della Bildung e della scuola ritorna davvero un po’ dovunque. In particolare, ritorna persino nella rappresentazione di quella che dovrebbe essere l’istituzione totale per eccellenza, vale a dire il carcere. E vale la pena di ricordare, en passant, come il tema della reclusione s’intrecci allo sforzo di (ri) costruire la propria identità anche nei non pochi libri dedicati ai lager nazisti, come le Lezioni di tenebra di Helena Janeczek o Campo del sangue di Eraldo Affinati. La tremenda suggestione dell’olocausto è del resto confermata da molti libri, anche diversissimi: basti confrontare un giallo metafisica come La variante di Lüneburg di Paolo Maurensig con l’autobiografico Il rogo di Berlino di Helga Schneider (che, come Janeczek, scrive direttamente in italiano pur essendo di lingua tedesca). Tornando però alla declinazione scolastica del tema carcerario, dobbiamo ricordare che a essa si devono due libri importanti come il recente Maggio selvaggio di Edoardo Albinati, e come l’intensissimo Meri per sempre di Aurelio Grimaldi, troppo presto dimenticato, a causa dello stesso successo del film che ne trasse Marco Risi. In poche parole, si potrebbe dire che la rappresentazione dell’insegnante nelle scuole delle prigioni (rispettivamente il carcere minorile «Malaspina» a Palermo per Grimaldi, e Rebibbia per Albinati) funziona come un reagente, come una specie di traumatico catalizzatore che mette drammaticamente in rilievo lo scontro, più che l’incontro, fra l’intellettuale e una realtà sociale sentita come alterità, come dimensione in larga misura estranea e inafferrabile, come regno della violenza e, più in generale, dell’anti-cultura. In prima approssimazione, l’insegnante delle carceri scopre, con sgomento, che, come direbbe Kundera, «la vita è altrove». Attraverso questa percezione, che il carcere rende acutissima, quasi insopportabile, l’intellettuale, al di fuori di qualsiasi manierismo dell’inettitudine, si riscopre realmente inadeguato: e proprio per questo torna a elaborare la sofferta esigenza di cambiare quella realtà, tremenda e lontana, sì, ma a cui pure è stato chiamato a partecipare. Dopotutto anche i libri sono, contro ogni apparenza, atipiche ma non del tutto inefficaci sedi di socialità, che possono svanire nel nulla ma anche trasformarsi in occasioni preziose: sprecarle potrebbe essere un peccato.