La narrativa fantastica conferma la sua natura poco oltranzista, legata a un’evidente inclinazione didascalica, anche nella rappresentazione degli spazi, siano disparati e sovraffollati (Benni); chiusi e misteriosi (Capriolo); claustrofobici e contraddittori (Mari), poveri e degradati (Cavazzoni). Ma è la narrativa di genere di Sclavi ed Evangelisti che meglio sa sfruttare le potenzialità inquietanti e visionarie del fantastico: labirinti, trappole, paesaggi abitati da gigantesche presenze anomale, divinità pagane ed esseri mostruosi, ambienti ibridi fatti di plastica e metallo.
Una mappa, la singolare mappa noetica degli otto Mondi Alterei, apre il penultimo romanzo di Stefano Benni, Elianto, introducendo subito il lettore alla geografia multiforme e bizzarra in cui si svolgerà la vicenda. Se ogni testo letterario in qualche misura è sempre la costruzione di un mondo, nella scrittura fantastica, nell’ampia famiglia dei testi che in maniere diverse eludono o infrangono i canoni della verosimiglianza, il processo di world-making ha un rilievo particolarissimo: il lavoro dell’immaginazione fantastica, ha scritto Ursula Le Guin, consiste innanzi tutto nel «fabbricare un mondo nuovo, un mondo altro: la Terra di Mezzo, per esempio, o i pianeti della fantascienza». L’attività degli scrittori che nell’ultimo decennio hanno contribuito a quel rilancio della «tradizione in ombra» del fantastico italiano, di cui ha parlato Paolo Giovannetti in Tirature 2000, è caratterizzata da una notevole varietà sul piano della “stilizzazione spaziale”, sia pure con alcuni tratti comuni, dei quali dirò in seguito.
Lo spazio dei romanzi di Benni è uno spazio pieno, ricco, sia quantitativamente sia qualitativamente, per estensione e per varietà. Le scene di Elianto e del recente Spiriti sono allestite su grande scala, l’universo e la terra. Lo sviluppo degli intrecci, spesso costruiti come una quest multipla, dimostra come piccolo e grande, vicino e lontano, vasti orizzonti e luoghi periferici e circoscritti (la casa di cura Villa Bacilla, l’Isola dove abita Salvo) non possano essere separati. Questa vena “cosmica” nasce dal gusto dell’invenzione, dalla spinta verso una sorta di meraviglioso umoristico molto viva in una scrittura che pure vuole parlare sempre dell’oggi, che è alimentata da un costante gioco parodistico sul nostro presente mediatico e politico. D’altro canto l’apertura universalistica delle storie di Benni ha una matrice etico-politica: il destino dei singoli è solo un’altra faccia di quello degli stati e del pianeta, da qui l’importanza di scelte e responsabilità individuali.
Il catalogo dei luoghi raccontati da Benni è disparato: mondi, nazioni (sempre dai trasparenti nomi parlanti: Tristalia, Gladonia, Usitalia), villaggi, condomini, giganteschi grattasmog, baite isolate, grandi Warhotel, atolli sperduti, Famburger House, zoo fantasma. Ma l’organizzazione spaziale delle sue storie ruota attorno a un’antitesi essenziale: ai luoghi del potere, del consenso e del consumo si contrappongono infatti i luoghi della marginalità, della resistenza, dell’utopia. Mastodontici correlativi oggettivi della forza delle élite economico-politiche, i luoghi del potere sono spesso però minati da uno squilibrio profondo, frutto dello stesso narcisismo del dominio che li ha generati (non a caso i nomi degli architetti sono Porthos, Mike Megalos). È così per il Grande Chiodo che in Elianto ospita il megacomputer Zentrum Win nella sua vasta capocchia a milleduecento metri di altezza. Il Chiodo «riassumeva mirabilmente gli ideali di Tristalia: salire, scalare, assurgere, arrivare fino in cima», ma nelle giornate di vento era in balìa di un grande rollìo e così «gli addetti ai lavori dovevano imbottirsi di pastiglie contro il mal di mare e, sovente, nei ristoranti scoppiavano scene di vomito collettivo oceaniche»; un beccheggio che anticipa il suo finale inabissamento al centro della terra. In Spiriti molta parte della vicenda è occupata dal tentativo di costruire il palco per il festeggiamento in mondovisione del decennale della Dolce guerra; un palco concepito su dimensioni neobabilonesi, ma bersagliato da crolli e altri accidenti naturali fino alla catastrofe conclusiva. Ai luoghi del potere si apparentano i luoghi del consumo e dell’intrattenimento: ipermercati, fastfood e cittadelle del divertimento (come la Rigolone Marina, perla del mare Adrenalio della Compagnia dei Celestini). Sono i luoghi della sovrabbondanza delle merci, del predominio dell’elemento tecnologico-commerciale, nei quali l’uomo è una semplice funzione subordinata dell’ambiente.
I romanzi di Benni cercano però di raccontare anche come al mondo continuino a esistere posti che sfuggono alla sempre più minuziosa colonizzazione da parte del principio economico. Sono luoghi periferici, emarginati ma capaci di raccogliere e stimolare la creatività, come il quartiere delle Diecilire nella Compagnia dei Celestini; sono luoghi lontani, vicini alla natura per quanto tormentati dalla guerra, come l’Isola in cui vive Salvo in Spiriti. Sono defilati o nascosti: intermittenti, mobili, come i campi di gioco della pallastrada nei Celestini; o ancora mutevoli, con un nome che cambia a seconda di chi lo pronuncia, come Hakalamalakaneheilemeneilani in Spiriti. Sono punti di resistenza, indicatori di possibilità, spazi di autonomia e libertà, che hanno qualcosa dell’utopia discontinua calviniana e delle T.A.Z. , le zone temporaneamente autonome, di Hakim Bey: testimoniano la possibilità di una convivenza libera e in equilibrio armonico con l’ambiente. Benni cerca di saldare al lavoro dell’immaginazione letteraria quello dell’immaginazione politica: i suoi romanzi, rubo di nuovo le parole di Ursula Le Guin, provano a «fare un nuovo mondo» per «fare il mondo nuovo».
Paola Capriolo scrive lo spazio in tutt’altra maniera, punta alla linearità e alla limpidezza. Le sue mappe non sono varie e fitte di segni, ma tracciate in economia, in sintonia con una prosa monostilistica, ferma e pulita, che si sforza di tenere lontane da sé parole e modi che possano ancorarla alla nostra o a un’altra attualità. Ma se la scena dei suoi romanzi è fatta di pochi luoghi, lo spazio ha comunque un ruolo centrale, e il contesto geografico e temporale indeterminato ne sottolinea la funzione allegorico-simbolica. Il nocchiero si svolge per intero in una cittadina fluviale di cui contano, per la storia, l’hotel Excelsior con la sua terrazza, il porto sottostante e l’Isola con l’antica Villa alla quale il protagonista ogni notte si reca senza però mettervi piede, pilotando chiatte dal carico ignoto. Il doppio regno si apre in una piccola città di mare minacciata d’improvviso da un’onda immane: la protagonista, narratrice abbandonata dalla memoria, fuggendo trova riparo in un Albergo al limitare d’un bosco; da qui in poi il romanzo ha per unico teatro l’Albergo, costruzione bassa ma ampia e labirintica. I luoghi rappresentano un problema, nascondono un mistero. Sono spazi chiusi, marcati da una linea di confine difficile da valicare: non si può uscirne (come dall’Albergo del Doppio regno o dal giardino progettato da Barbara nel romanzo che porta il suo nome) oppure non è consentito farvi ingresso (come nell’Isola, e nella stiva della chiatta, del Nocchiero). La «particolarità» dell’Albergo del Doppio regno è l’assenza di vere e proprie finestre: i personaggi di Paola Capriolo sovente amano guardare e cercano di capire, ma la loro vista, la loro esplorazione del mondo è ostacolata, parziale. La vita, la storia, celano enigmi che non è dato risolvere, avvicinarsi alla comprensione può essere fatale. Solo da lontano, come dalla terrazza dell’Excelsior, la contemplazione del paesaggio può essere serena; la visione da vicino invece è arida, impoverita, perché funzionale all’attività di lavoro, oppure si carica di emozioni e desideri e allora si fa inquietante.
L’esordio di Michele Mari è all’insegna dello straniamento paesistico. Le prime pagine di Di bestia in bestia portano il lettore in un Nord profondo dalla fitta toponomastica foneticamente esotica (Òpopa, Eòreca, Sbènummi … ), raccontando un viaggio difficoltoso, segnato dall’equivoco: una coppia di scienziati e la loro segretaria sono diretti per un convegno a Dièfzarca, ma giungono a Dièfzeira, vicino alla quale c’è anche una Dièfzora, ma non la loro meta; si troveranno così ad accettare l’ospitalità di Osmoc, unico occidentale che abiti quei luoghi sperduti. La storia si svolge tutta nel castello di quest’ultimo, «che da lontano dava l’impressione di un fortino moresco, o di una colossale casamatta», piazzaforte duecentesca dei cavalieri teutonici. Come in altri libri di Mari, l’azione si muove in uno spazio isolato, circoscritto, e costruito su un asse verticale, sull’opposizione alto-basso. I luoghi topici di Di bestia in bestia sono la biblioteca e la cantina, «strategico cuore, e pulmo, e bellico» del sistema di cunicoli e passaggi segreti che percorre le viscere del maniero: «un gigantesco groviera di pietra», come dice Osmoc giocando sul pedale comico-umoristico che nel suo discorso si intreccia al tono erudito-appassionato. L’antitesi e l’alternanza degli spazi e dei registri rinviano a quelle fra Osmoc e il fratello Osac, fra cosmo e caos/caso, fra biblioteca e sotterranei, razionalità e cultura da un lato, istinto ed emozioni dall’altro. L’antitesi può capovolgersi beffardamente, come quando Osmoc scopre che dalla cantina si accede alle torri: «E io, io chissà quante volte avevo creduto d’avermelo [Osac] al di sotto dei piedi, che invece me l’avevo al di sopra del capo». A ricordare che è presunzione della cultura quella di poter fare a meno o poter sempre asservire le pulsioni. La contrapposizione alto/basso (riflessione/emozione, contemplazione/azione) torna in Io venia pien d’angoscia a rimirarti, dove la biblioteca e le stalle, la terrazza o il colle e la cantina sono i luoghi frequentati da Leopardi licantropo che il fratello minore ci racconta, e in La stiva e l’abisso, dove la cabina in cui il Capitano è relegato da una gamba cancrenosa si accosta al ponte sul quale agisce il suo Secondo (ma il sistema spaziale del romanzo affonda ancora: nella stiva e nel mare sottostante).
TI fantastico di Mari, come quello di Paola Capriolo, ha una evidente componente riflessiva, ma una natura più dinamica e sofferta, che nasce anche da una differente visione del disagio del soggetto. Capriolo racconta di un soggetto debole, che vive una crisi conoscitiva, che fatica a orientarsi nel mondo: la realtà individuale e sociale – la Compagnia in Il nocchiero, l’Albergo nel Doppio regno, Barbara nel romanzo eponimo – spesso gli sfuggono in quel che hanno di più essenziale. I suoi protagonisti sono in oscillazione sospesa fra un’adesione serenamente maliconica a un reticolo di convenzioni più o meno enigmatiche e un inquieto desiderio di capire, di reagire e sottrarsi a meccanismi e destini spersonalizzanti. Mari narra invece di un soggetto proteso alla propria affermazione intellettuale e vitale nel mondo, ma segnato internamente da una spaccatura originaria, da una ferita primigenia, che è il corrispettivo interiore di una percezione della vita come mutua sopraffazione, perdita, corruzione.
Ermanno Cavazzoni non ricorre a nessun materiale sublime per creare lo spazio irrealistico in cui è ambientato il suo ultimo romanzo, Cirenaica. La storia si svolge, quasi per intero, in quello che il narratore-protagonista chiama «il bassomondo».. Si tratta di uno spazio di dimensioni imprecisate: una città è al_ centro di una pianura racchiusa dalle lontane montagne di un altopiano, gli abitanti non sanno come vi sono arrivati, né riescono ad andarsene. Edifici fatiscenti, oggetti rovinati o inservibili, quasi totale mancanza di fonti di energia, terra salata, praticelli di spazzatura: la· città è governata da una legge di disfacimento che gli abitanti per lo più fanno propria. L’io narrante e i suoi amici si dedicano infatti volentieri a scorrerie contro vetri, grondaie, saracinesche ancora in opera, al «libero teppismo quale esiste in natura». Quello di Cavazzoni è un paesaggio fantastico abbassato, fatto di materiali poveri, di scarti, un fantastico “del riuso” che reimpiega, ricombina, elementi di ordinari paesaggi urbani e suburbani. Non per questo la pagina si: appiattisce, il libro è costellato di invenzioni estrose: i treni-aggrediti e lasciati disfatti sulle rotaie dal protagonista e da Loperfido, animati da una passione puntigliosa per lo smontaggio di viti e bulloni; le diverse teorie-favole sull’origine del bassomondo e dei suoi abitanti (sono fantasmi dimenticati dalla gente delle montagne, sono escrementi di dei che vivono sugli altipiani, i loro autori e signori li osservano «coi telescopi, come noi osserviamo le formiche»). L’io narrante, che ha perso memoria del proprio passato, si fa un po’ cantastorie, un po’ antropologo di questa strana comunità, della quale ha una conoscenza approssimativa, come quasi tutti gli altri abitanti. Il bassomondo è anche luogo della menzogna, della truffa. Tutti si fingono ciò che non sono: persino le relazioni parentali e affettive sono false, vengono interpretate come una parte, svolte come un mestiere. La stessa toponomastica non è affidabile, a volte «qualcuno cambia il nome alla via e la via non si trova più». Il bassomondo è insomma trappola e recita (ma non una tragedia, piuttosto una farsa, una pièce dell’assurdo), non c’è posto per l’autenticità, non c’è posto per un senso: ciascuno è alle prese con «un destino senza capo né coda». L’ultimo capitolo, a sorpresa, narra della fuga riuscita dal bassomondo del narratore-protagonista che approda alla stazione centrale di Milano. Ma il mondo delle metropoli a noi familiari gli appare più finto e più duro del bassomondo: i milanesi, in preda a una costante frenesia operativa, fingono senza averne nemmeno coscienza.
In ogni testo che non si adegua ai canoni della. verosimiglianza si combinano, ricordavano Scholes e Kellogg, una spinta didascalica, l’intenzione di suggerire attraverso la favola raccontata una morale, un nutrimento riflessivo, e una spinta estetica, il gusto della libera invenzione, della composizione, capricciosa o armonica che sia. Il fantastico italiano recente sembra mostrare una maggiore inclinazione “didascalica”, un’attenzione prevalente alla trasmissione di un contenuto di pensiero ai propri lettori: dalle fantasie politiche di Benni, alle pensosità fantastiche della Capriolo e di Mari, sino allo stesso fantastico sorridentemente nichilista di Cavazzoni. Forse è in questa tentazione dell’insegnamento una delle principali ragioni del carattere tutto sommato moderato e composto di buona parte del nostro fantastico attuale; moderazione con la quale ha anche qualcosa a che fare la sua frequente natura di secondo grado, citazionale, parodica. La sbrigliata e onnivora fantasia di Benni, ad esempio, appare a tratti frenata e ingessata dalla volontà d’apologo o dall’insistenza nella satira d’attualità. E a Paola Capriolo nuoce il suo, se così si può dire, classicismo della modernità mitteleuropea: dal sapiente lavoro di selezione, ricombinazione e levigatura traspare un eccesso di rispetto della tradizione che rende i misteri delle sue storie un po’ freddi e prevedibili. I risultati maggiori vengono invece quando, come in Vissi d’amore, l’intervento sui modelli è più libero e irriverente.
Anche se alcuni ricorrenti aspetti morfologici e tematici di questi spazi immaginari (la chiusura, la struttura oppositiva, il motivo della recita, della finzione) sono indice di un’inquietudine di fondo, a partire dalla scelta della location, come si è visto, il fantastico italiano recente non è certo oltranzista. Si spinge con uguale cautela in entrambi i principali territori dell’irrealismo individuati da Todorov, il meraviglioso, che immerge il lettore in un universo affascinante proprio perché radicalmente altro, e il fantastico in senso stretto, con la sua messa in discussione dei confini fra realtà e illusione, naturale e soprannaturale. Accensioni e sfrenamenti visionari, pieno abbandono alla fantasia figurativa o agli effetti di ambiguità percettiva, non sono comuni. Anche il catalogo di isole e comete inventate da Ernesto Franco (!salario) preferisce intraprendere la strada del divertissement malinconico, dello scherzo riflessivo, più che della potenza visuale. Così come un giovane scrittore di spiccata sensibilità spaziale quale Giovanni Catelli riesce più felice quando iscrive le sue meditazioni su esistenza e società in scenari non apertamente fantastici (Geografie): gli spazi più suoi sono quelli di un realismo indefinito, insieme puntuale e generalizzante.
Le eccezioni a questo quadro sono poche. Nell’originalità visiva, nell’estrosità inventiva libera sino alla goliardia, va riconosciuto l’aspetto migliore del lavoro di un singolare outsider come Enzo Fileno Carabba, al quale difetta invece la tenuta narrativa. Non a caso il suo libro più riuscito è La foresta finale, dove la felicità dell’invenzione spaziale, lo spettacolo di questa terra in mutazione, nella quale gli elementi vanno scambiandosi le parti, tiene desta l’attenzione del lettore anche quando gli aneddoti bizzarri della trama convincono poco. Eccezioni più significative sono nelle opere di Valeria Evangelisti e Tiziano Sciavi. E insomma la narrativa di genere, la letteratura di massa, a sfruttare con più decisione le potenzialità inquietanti del fantastico, provando a progettare il testo come una macchina per produrre disorientamento.
Labirinto e trappola, l’universo descritto da Sciavi (si vedano almeno Sogni di sangue, Nero e Tre) è caratterizzato da una costante esperienza di spaesamento percettivo. Gli spazi si dilatano, si deformano, si aprono su altre dimensioni: in Un sogno di sangue la città vecchia a Pavia «non comincia e non finisce, è dappertutto, bella e paurosa», e la città in cui vive il Ravasciò di Quante volte tornerai si rivela nient’altro che uno scenario popolato da androidi, che serve a ingannare la noia di uno degli ultimi superstiti dell’umanità nel suo interminabile viaggio tra le stelle. Lo spaesamento è potenziato dalla messa in scena nuda: le descrizioni sono ridotte all’osso, poco più che didascalie, appunti visivi in bianco e nero, e gli intrecci innestano senza enfasi lo straordinario (orrorifico o fantascientifico) sul piano di un’esistenza comune, come un fatto ordinario tra altri. La realtà, infatti, «è sempre irreale». È vuota di senso nel suo tran tran quanto nelle catastrofi che l’interrompono: la bizzarria dell’evento singolare non fa che rendere palese quell’insensatezza.
Le vicende dell’inquisitore Eymerich raccontate da Valerio Evangelisti, pur mutuando vari elementi dal modello del romanzo storico, sono costruite sul principio di un’intima connessione fra tempi diversi, che altro non sono che differenti facce di una medesima e labirintica Storia-organismo. Se nei primi romanzi l’accostamento dei diversi piani temporali, il presente dell’inquisitore e il suo futuro (nostro presente o prossimo avvenire), era un po’ troppo ordinato e controllato, in Cherudek il gioco sui livelli di realtà si fa più complesso, elusivo e coinvolgente. La scrittura di Evangelisti ha anche una vena di fantasia figurativa, che si manifesta ad esempio nelle scene d’orrore e di massa, nelle visioni collettive, dove il paesaggio si rivela abitato da gigantesche presenze anomale, divinità pagane, esseri mostruosi. La maturazione di Evangelisti porta con sé un rafforzamento di questa inclinazione visionaria che ha i suoi esiti più convincenti in Cherudek e nei racconti di Metallo urlante, con le loro immagini di ambienti e uomini ibridati, fatti di plastica, carne e metallo.