Lo stupefacente – e tardivo – successo di Camilleri è senza dubbio legato al personaggio del commissario Montalbano, nuova incarnazione di una delle poche figure eroiche dei nostri tempi: a caratterizzarla efficacemente sono l’impasto linguistico italosiciliano e la verve comico-umoristica che circola nel racconto delle sue imprese, sempre altamente godibile. Eppure i romanzi precedenti presentano una così strepitosa vividezza di affresco e un così avvincente ritmo dell’azione da risultare testualmente ben più congegnati, articolati e coesi.
Nel libro-intetvista La testa ci fa dire, firmato da Marcello Sorgi, Andrea Camilleri dichiara di riconoscersi nella definizione di «artigiano della scrittura»; e aggiunge di credere «all’artigianato di una certa classe. È quello che ha fatto la fortuna, tanto per dire, del cinema degli Stati Uniti. Mentre in Italia o si è Fellini o non si è nessuno». Quanto a lui, la sua fortuna è stata di venir «ad occupare uno spazio vuoto, che in Italia finora non c’era, che è la scrittura d’intrattenimento alto». Che si trattasse di uno spazio del tutto vuoto, è un po’ esagerato; ma insomma, tenuto conto che a parlare è il protagonista del successo librario più stupefacente degli ultimi anni, queste affermazioni sono la prova di una coscienza professionale lucida. Però non possono bastare a dare conto delle particolarità del caso, la cui portata viene illustrata analiticamente da Giuseppe Gallo, in questo volume, in base alle classifiche di vendita.
Camilleri, siciliano di Porto Empedocle, classe 1925 , una lunga esperienza di regista e sceneggiatore sia teatrale sia radiotelevisivo, cominciò a farsi conoscere come scrittore nel lontano 1980 con Un filo di fumo, edito da Garzanti. A distanza di anni lo seguirono alcuni altri romanzi, pubblicati da un’editrice più piccola, la Sellerio. Nessuna eco rilevante, sinché nel 1996 apparve Il cane di terracotta: solo allora scattò il boom. La spiegazione è facile: per dirla ancora con l’autore, si tratta del libro che segna «la vera nascita di Montalbano». Dunque il colpo di genio (artigianale, ma sempre genio) è stata l’invenzione di un personaggio di forte appeal romanzesco, che ha incontrato subitaneamente vagheggiamenti diffusi nell’immaginario collettivo più frequentato.
Nella carriera dello scrittore, si trattava di una vera svolta, in quanto le sue opere precedenti puntavano poco sulla presenza di personaggi dalla fisionomia corposa: a contare era soprattutto il dinamismo indemoniato di una trama dove i fatti si succedevano e intrecciavano ai fatti, tanto da lasciare il lettore tanticchio (direbbe Camilleri) frastornati. I romanzi di Montalbano invece sono tutti incentrati sulla figura del commissario protagonista: a lui spetta di garantire lo svolgimento logico della vicenda, guidandola passo passo sino alla soluzione finale dell’enigma che la sostiene. Come accade in tutti i polizieschi che si rispettino.
Una precisazione va fatta. Non è che nel Filo di fumo o La stagione della caccia o Il birraio di Preston la suspense mancasse, tutt’altro. Ma nel Cane di terracotta o Il ladro di merendine o La gita a Tindari la tensione narrativa è meno inquietante, poiché si presume che l’affidabilissimo investigatore provvederà a sistemare la partita, sbaragliando i malfattori dovunque si annidino, anche nei gangli più delicati dei poteri pubblici: al contrario di quel che succedeva nei romanzi anteriori, dove non c’era traccia di un risarcimento conclusivo delle istanze morali positive. Montalbano rappresenta una nuova incarnazione di una delle poche figure eroiche dei nostri tempi: è un paladino della giustizia, brusco, sciamannato, spregiudicato e incasinato quanto basta – ma intemerato. Non fa miracoli, le sue vittorie gli lasciano per lo più l’amaro in bocca, ma l’ultima parola è sua. E onore al merito.
A questo punto, non ci sarebbe neanche da stupirsi troppo per l’effetto di trascinamento che l’exploit del personaggio ha esercitato retrospettivamente sulle altre opere camilleresche: il divismo d’autore prevede questo e altro. Tornando-però dal caso Montalbano al caso Camilleri, resta la curiosità di capire meglio cosa sia successo nel passaggio dai libri della prima serie a quelli della seconda: anche per il buon motivo che sul piano della qualità letteraria gli uni sono certamente superiori agli altri, dotati in compenso d’un contenuto di valori etico-civili molto più dichiaratamente partecipabile. Bisogna insomma focalizzare sia gli aspetti di cambiamento sia anche i fattori di continuità nell’itinerario di uno scrittore, diventato tale a un’età più che matura.
La questione più sorprendente è forse quella riguardante il linguaggio: una miscela itala-dialettale che non muta affatto, da una tipologia narrativa all’altra, e che senza dubbio costituisce un ostacolo obiettivo alla comprensione letterale del testo. Non per nulla Garzanti richiese l’inclusione nel Filo di/umo di un glossario; e la siciliana Sellerio manifestò in altri modi l’apprensione per lo sforzo imposto ai lettori abituali di una narrativa linguisticamente non disagevole. In effetti, accostandosi alla pagina di questo scrittore bisogna avvezzarsi a tradurre mentalmente magari con «anche», taliare con «guardare», cabasisi con «testicoli», spiare con «chiedere» e via di seguito. È vero che questa difficoltà riguarda essenzialmente il lessico e i modi di dire. Sul piano sintattico, l’adozione di giri di frase tipicamente siciliani non compromette la leggibilità del testo: penso per esempio alla costruzione della proposizione con il verbo a destra, «Vero è», «Montalbano sono». Resta però il fatto che il pubblico continentale avrebbe bisogno di un buon vocabolario, per capire bene il senso di quello che legge.
D’altronde la dialettalità è una componente profonda del modo di raccontare di Camilleri: e non solo nel dialogato ma anche da parte della voce narrante, tendenzialmente equiparata a quella dei personaggi. Lo scrittore esibisce con spavalderia la trasgressività espressiva di un linguaggio in cui la lingua nazionale viene a patti larghi con il parlar materno. E questa scelta è sostenuta dal proposito di conferire al discorso narrativo un accento spiccato di naturalezza orale: come di chi racconta a una cerchia di interlocutori familiari, coi quali ha confidenza e intende conversare alla buona: i nipoti, poniamo, cui dedica «questa storia [Il birraio di Preston] che leggeranno quando saranno grandi risentendo, lo spero, la voce del loro nonno».
Camilleri si è forgiato uno strumento adatto alla sua vocazione di affabulatore estroso, arguto, instancabile. Il ricorso al dialetto nativo gli ha agevolato l’acquisto di una fluente esuberanza romanzesca, alquanto rara, come si sa, nella bella letteratura nazionale. Va poi sottolineato che l’operazione camilleriana si differenzia dalla tendenza diffusa, e letterariamente molto proficua, a riscoprire i dialetti come lingua elettiva della poesia lirica. Quelle di Pierro o Loi o Baldini sono infatti esperienze elitarie, ad alto livello di sofisticazione, volte a esaltare la parlata locale nella sua verginità integra e pura. Camilleri invece punta sull’ibridazione, in quanto la prosa ricusa per principio di dialettizzarsi completamente; e si attiene a un livello di cordialità mediobassa, in cui gli inserti vernacoli sconcertano il lettore ma anche lo incuriosiscono, lo divertono, e comunque non danneggiano in misura irreparabile l’istanza comunicativa.
In fondo, l’itala-siciliano di Camilleri può esser visto come un contraltare dell’anglo-italiano dilagante negli usi correnti. Ala polluzione del “bell’idioma” provocata dai frasari tecnoscientifici dell’informazione globalizzante, ecco una risposta in chiave di rilancio del vocabolario d’una provincialità viva e vegeta. Va a merito del nostro scrittore d’essere riuscito, sia pur con fatica, a far accettare non a una élite colta ma a una cerchia molto vasta un esperimento di linguaggio impuro, irregolare, però dotato d’una sua calda baldanza, decisamente accattivante. Senza l’aiuto di Montalbano, forse non ci sarebbe riuscito. Ma intanto ce l’ha fatta.
Il motivo di forza di questo modo di scrivere sta nella sua intonazione comico-umoristica, di tono francamente popolare, immediatamente godibile. Tutti i tipi e le gradazioni del riso e dell’irrisione vi trovano posto. Ecco allora le variazioni fantasiose sul gran tema delle corna: «“E meno male” pensò Salamone “ che le tue corna non sono ancora arrivate all’altezza del lampadario”». Gli scambi di battute insolentemente brutali: «“ Non capisco dove voi volete andare a parare.” / “Io non paro niente, egregio, è lei che deve andare a parare il culo! “/ “Cerchiamo di non pisciare fuori dell’orinale, Padre Imbornone! “». Le facezie beffarde come quella sui rapporti segreti fra il marchese don Filippo e la moglie del suo campiere Pirrotta: «Quello che succedeva fra don Filippo e Trisìna dopo che si erano astutati [spenti] i lumi, lo sapevano solo Dio, Pirrotta e tutta Vigàta». Le strizzate d’occhio delle allusioni letterariamente blasfeme, come il grido d’una donna al culmine dell’estasi sessuale: «“Sì… Sì … Vegni! … Ve … gni Ghe sont!” la svinturata arrispose».
A una comicità verbale così corposa si accompagna il gusto divertito per le situazioni grottesche, come il racconto dell’amore teneramente corrisposto di un ragazzo per la fidanzata: solo al termine dell’episodio viene chiarito che costei è una femmina avvenente sì ma di razza caprina, non umana. La tendenza al tragicornico è l’asse principale secondo cui si sbriglia la fantasia di un narratore che fugge come la peste il rischio di annoiare il lettore o anche solo di !asciarlo distrarre: e preferisce semmai sopraffarlo con l’accumulo incalzante delle occasioni di sghignazzata. Anche le soste descrittive collaborano allo scopo, privilegiando gli effettismi più trucemente spassosi: i due amanti arsi vivi da un incendio che li ha ridotti a nere statue carbonizzate, nella posa classica del coito; o l’intera famiglia fulminata a tavola mentre assapora una spaghettata all’arsenico.
Siamo prossimi alle modulazioni dell’humour nero, dove l’irriverenza buffonesca si scatena in misura proporzionale all’enormità sanguigna della materia di racconto. Il doppio gioco tra realismo oggettivista e iperrealismo caricaturale è la forma assunta in Camilleri dal favoleggiamento etnico sulla sicilitudine. Prese in sé, le vicende narrate non sono per niente allegre. Fra i siciliani, le passioni si arroventano, i conflitti si estremizzano, mentre d’altronde le mosse e contromosse strategiche appaiono calcolate con tortuosità raffinata. Sin qui però restiamo sul piano di connotazioni psicosociali non inedite. A rinnovarle provvede la focalizzazione insistita del contrasto fra la spietatezza più feroce e l’ipocrisia più melliflua: mai fidarsi di niente e di nessuno, in terra di Sicilia.
L’enfatizzazione della tenebrosità come tratto distintivo della mentalità siciliana è la premessa della struttura investigativa tipica di tutti i romanzi camillereschi: sia quelli ambientati nel tardo Ottocento sia quelli situati ai giorni nostri. Del resto anche gli scritti d’indole storico-documentaria, come La strage dimenticata, si basano su una ricerca di giusta verità. In entrambi i filoni narrativi la suspense è garantita dalla rinuncia a giocare d’anticipo sullo scioglimento della vicenda: anzi, la curiosità del lettore viene eccitata sino al colpo di scena imprevedibile su cui cala il sipario. Ma l’atteggiamento dell’io narrante è assai diverso, in relazione con la differenza d’impianto delle due serie.
Nei libri a tema libero, chiamiamoli così, e a sfondo postrisorgimentale predomina il cinismo disincantato di un osservatore che sa bene come vanno le cose, ma non perde tempo a deplorare e indignarsi: semmai si fa prendere da un divertimento amaro nell’illustrare le belle prodezze dei suoi personaggi, così capaci di stare al mondo e in aggiunta così spiritosi. A interessarlo è solo la pittura di un quadro di costumi, tutto al nero. L’intera collettività isolana gli appare estranea a ogni autentico esprit des lois. E non per ragioni metastoriche. Il fatto è che il passaggio dal regime feudale arcaico al liberalesimo borghese, datato 1860, non ha toccato l’unico principio regolatore dei rapporti fra i cittadini in terra di Sicilia, ossia l’autoritarismo. Chi detiene il potere si sente in diritto di esercitarlo a proprio arbitrio insindacabile, con una pretesa di obbedienza pronta cieca assoluta, prevaricando a man salva sui sottoposti.
Rappresentanti elettivi e funzionari del nuovo Stato hanno ereditato l’arroganza padronale dei vecchi ceti possidenti: e ci hanno messo un sovrappiù di irresponsabilità spregevolmente meschina. A prefetti o questori, la collusione con gli uomini di rispetto delle cosche locali gli è venuta del tutto spontanea. Ma in questi libri la mafia è una presenza importante, non sempre però essenziale. Decisivo è l’individualismo protervo, che la modernità capitalistica avvalora. Il personaggio più intelligentemente emblematico è il don Totò Barbanera di Un filo di fumo: un self-made-man, o “fotti-made-man”, come lo ribattezza un bieco pretone. Politicamente astuto e imprenditorialmente senza scrupoli, le sue fortune hanno eccitato la vendicatività dell’intero paese, coalizzato nell’aspirazione di vederlo alla rovina: ma invano.
Sì, ovviamente ci sono anche le persone perbene, come qualche poliziotto e ufficiale dell’esercito onesti o alcuni vecchi mazziniani ormai emarginati. Però nessuno è in grado di cambiare le regole del gioco. Quanto ai fermenti di protesta, di rivalsa, sono destinati soltanto ad alimentare le provocazioni degli estremisti più sanguinari e sconsiderati. Se può capitare che una catena di delitti venga punita, ciò accade perché il colpevole si autosmaschera, preso dal taedium vitae dopo aver vinto la partita: è il caso di La stagione della caccia.
Proprio il viluppo di intrighi che uniscono e dividono i singoli soggetti determina l’afflato di coralità della rappresentazione romanzesca. Come s’è detto, il narratore non si dedica a scavare nei meandri della coscienza individuale, preferendo dare evidenza alle attitudini dell’essere collettivo. Ogni ritratto o ritrattino è concepito icasticamente; ma tutti tendono ad amalgamarsi in una fantasmagoria d’insieme, un tripudio del colorismo pittoresco. In effetti si tratta non di personaggi a tutto tondo ma di caratteri definiti unilateralmente, in funzione della parte assolta nel meccanismo affabulatorio. Qui sta il prezzo pagato per la vividezza strepitosa dell’affresco.
Si può aggiungere che l’affollamento convulso degli attori in scena avvantaggia il ritmo avvincente dell’azione in quanto fa sì che fra le manovre più subdole e gli scoppi di emotività più furibondi si apra spazio agli interventi del caso scompigliatutto. La vicenda non appare costruita a tavolino appunto perché riconosce i rischi e i fallimenti che la vita impone alle energie operative dei viventi, bene o male intenzionate che siano. Ovviamente, non c’è poi nessuna provvidenza che raddrizzi i torti, remuneri gli offesi e condanni gli offensori: semmai, c’è una sprovvidenza che opera a rovescio. E ciò rafforza il disincanto beffardo del narratore: anche se la sua aggressività ironica può apparirne contemperata da un timbro di struggimento esistenziale.
Al confronto con questi congegni testuali così articolati e coesi, non c’è dubbio che i romanzi della serie Montalbano fanno minor figura. Non che il protagonista, commissario di polizia della ideai-tipica cittadina di Vigàta, appaia povero di rilievo e dai tratti scoloriti, tutt’altro: è degno di comparire nella galleria degli indagatori più acclamati, italiani e stranieri. Gli è che Camilleri lo ha reso sin troppo irresistibilmente simpatico, come rappresentante di un’umanità media cui non mancano difetti e debolezze temperamentali, compensati però dalla fermezza delle doti morali. Nella sua immagine si equilibrano ruvidezza di modi e sensibilità gentile, acume riflessivo e prontezza operativa, virilità energica e crucci sentimentali, inclinazione sia alla buona tavola sia alle buone letture. Un eroe della porta accanto, verrebbe fatto di dire: intendendosi un eroe della professione poliziesca, sorretto da una deontologia infrangibile.
Attraverso di lui, il punto di vista narrativo riflette una somma di valori etici e civili che ogni buon democratico non può non sentire suoi. Così nella narrazione irrompono i motivi della polemica contro il malfunzionamento e il corrompimento delle istituzioni, il disprezzo per l’indifferentismo qualunquista, l’indignazione per le malversazioni subdole o conclamate. Il messaggio trasmesso al lettore non potrebbe essere più convincente. Ma il ritmo del racconto ne risulta meno scattante, l’andamento della vicenda si fa più plateale, la scrittura diviene più ridondante e intrisa di pathos.
Le debolezze si accentuano nei racconti brevi: lo si capisce, giacché Camilleri è un narratore di vena larga, la misura novellistica non gli si addice. I romanzi in effetti, anche quando denuncino stanchezza, restano di lettura piacevole e offrono un intrattenimento senz’ altro apprezzabile. Il loro successo è ben meritato. Tuttavia, si resta più affezionati agli altri libri: anche, ultima osservazione, sotto il profilo dell’efficacia etico-politica. L’oltranza degli oltraggi che vengono perpetrati, in assenza di Montalbano, contro ogni norma di legge e di umanità è così spudorata, e il sarcasmo ostentato dal narratore è tanto risentito, da provocare nel lettore una sorta di catarsi al negativo: una reazione cioè non di acquiescenza ma di ripulsa aspra del sistema di vita che Camilleri sciorina con ilare perfidia.