“Marmittone è questo qui/ che il segnale non udì,/ e per giunger puntuale/ ora mette ai piedi l’ale/ ma a cozzar va a tutto spiano/ nell’entrante capitano./ Trenta giorni di prigione/ gli è costato quell’urtone”.
Come molti altri autori della sua generazione (quella cresciuta nel primo ventennio del Novecento), Angoletta aveva alle spalle diverse esperienze di disegno, illustrazione e caricatura sociale. Fra le più significative c’era il suo apprendistato all’ “Asino” di Galantara. Per la verità Angoletta aveva puntato specialmente su “donnette dannunzianeggianti che parlavano difficile”, ma l’anima dominante del giornale era una veemente satira politica. Un genere che, come si sa, ebbe forti e non evitabili limitazioni in coincidenza con la progressiva presa del potere da parte di Benito Mussolini e dei gerarchi suoi. Antonio Faeti nel suo celebre saggio sulla storia degli illustratori (o figurinai) italiani (Guardando le figure, Torino, Einaudi, 1972), traccia una sorta di percorso obbligatorio e collettivo: “Il disegnatore che possedeva una persistente vena satirica, si vide così privato di un ambito nel quale scrutare, creando maschere, e inventando simboli. Molti caricaturisti si affiancarono al regime nella sua opera pedagogica, non rinunciando alle componenti ‘esterne’ del disegno umoristico, cioè continuando a ‘caricare’ le immagini secondo le convenzioni del genere, ma evitando completamente i contenuti più aggressivi e la funzione critica propria di tutta una tradizione che possedeva, da noi, nomi come quelli di Scalarini e Galantara”. L’approdo di Angoletta e altri suoi colleghi al “Corriere dei Piccoli”, il settimanale illustrato più diffuso fra i bambini d’Italia a cui erano ancora vietati i fumetti (per motivi pedagogici e non politici), fu insomma uno sbocco naturale e professionalmente necessario. Semmai, mentre le firme più antiche del Corrierino (sublimi artisti come Antonio Rubino o Attilio Mussino) erano per lo più legate alla rappresentazione di un mondo fanciullo (non necessariamente lieto, anzi spesso crudele), la maggior parte dei disegnatori arrivati dopo preferì raccontare le disavventure degli uomini adulti. Non per niente, sempre nel ‘28, Angoletta inventa per il “Corriere dei Piccoli”, oltre a Marmittone, anche Sor Lardo Mortadella, un grassone che non riesce a frenare l’ingorda voracità. I suoi buoni propositi di dieta, vengono fatalmente infranti dall’insaziabile appetito (“Deve per non ingrassare/ Mortadella digiunare./ ‘Un panino col caviale/ dovrà proprio farmi male?’/ ‘Potrà mai questo pollastro/danneggiarmi l’epigastro?’/ ‘D’ingrassar non ho paura/con un piatto di verdura!’/ Poi si pesa e, giusti dèi, è aumentato libbre sei!”). Sor Lardo Mortadella era una variante dei borghesi grotteschi, d’importazione (si pensi alla coppia regina Arcibaldo&Petronilla di George McManus) o autarchici, che popolavano il Corrierino, a conferma che nella strepitosa fortuna del settimanale pesava parecchio il gradimento (la lettura) dei genitori. Nel 1925, ad esempio, il grande Sto aveva affiancato al trionfante Bonaventura le passeggiate del ‘pacifico Taddeo’ e della ‘tranquilla Veneranda’, due maturi e serenissimi sposi, capaci di attraversare sorridenti e imperturbabili ogni tipo di calamità.
Le vistose rotondità di Taddeo e Veneranda erano viste da Sto con affettuosa simpatia. Invece il Mortadella di Angoletta era poco amabile, quasi sgradevole, in anticipata sintonia con la polemica contro la pigra avidità del ceto medio in pantofole, che sarà una delle campagne predilette dal fascismo più combattivo quando, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, fra una Sanzione e un necessario sacrificio, i giorni si fecero più duri. Ma nel 1928 i tempi per simili battaglie forse non erano giusti. Sor Lardo Mortadella non piacque e Angoletta lo abbandonò ai suoi affanni da bilancia, concentrandosi sulle epiche disfatte, di pace e di guerra, del soldato Marmittone.
Salvo sviste o dimenticanze, la prima riflessione profonda sull’universo di Marmittone, la scrive Oreste del Buono nel marzo del ‘69 (“Linus”, numero 48). Secondo la sua vocazione critica, O.d.B. dedica ampio spazio al contesto storico in cui nasce il personaggio: seguiamo le sue tracce.
All’inizio del 1928 (tra il 31 gennaio e il 3 febbraio) il Gran Consiglio del fascismo esamina e approva con efficace celerità un disegno di legge per la formazione e l’elezione della rappresentanza politica. D’ora in avanti ci sarebbe stato un unico collegio nazionale e il numero dei deputati sarebbe stato ridotto a quattrocento. Il Gran Consiglio stesso si riservava il compito di stabilire la lista definitiva. Gli elettori si sarebbero limitati a segnare con un sì o con un no le schede contrassegnate dal simbolo del fascio littorio. Se la lista avesse ottenuto la metà più uno dei voti espressi, sarebbe risultata approvata nella sua interezza. Il progetto totalizzante naturalmente riguardava anche l’educazione dei cittadini più giovani. Non per niente sin dal ‘22 Mussolini aveva favorito la fondazione dell’Ispettorato generale dei Balilla, poi trasformato nell’aprile del 1926 nella più organizzata Opera Nazionale Balilla.
Tre anni più tardi, nel 1929, l’Opera passò sotto la tutela diretta del Mistero dell’Educazione nazionale. Il controllo della scuola (e dei libri di testo) risultò un’operazione abbastanza agevole; l’analisi dei vecchi sussidiari e dei manuali per le medie non lascia spazio al dubbio. Più arduo, come dimostra (forse involontariamente) anche la nascita di Marmittone, fu invece ‘fascistizzare’ i giornalini. Paradossalmente il quadro fu ancora più frastagliato negli anni Trenta (il periodo del massimo consenso) con la non frenabile esplosione degli eroi a fumetti americani, i comici (Topolino&C.) e i magnifici ‘Avventurosi’ (Gordon, L’uomo mascherato, Mandrake e gli altri). Intendiamoci, non si trattava di una forma di opposizione culturale: l’ondata Usa arrivò dalle nostre parti grazie alla svelta intuizione di un editore allineato al regime dalla prima ora, come il fiorentino Nerbini, che infatti riempì i suoi periodici anche di baldi legionari in camicia nera. Ma le alte tirature dell’ “Avventuroso”, e derivati, erano legate al fascino delle tavole di Alex Raymond e di Lee Falk (per non parlare della banda Disney passata nel frattempo alla Mondadori).
Per bloccare il fenomeno ci vorranno le drastiche leggi proibizioniste del 1938, che piombarono come un devastante ciclone sull’industria a fumetti.
Molto prima che tutto questo avvenisse, alla fine degli anni Venti, proprio il “Corriere dei Piccoli” sovrastando il più zelante “Giornale dei Balilla” (fondato nel ‘23 e poi diventato più semplicemente “Il Balilla”), confermava la supremazia di una pedagogia liberale (e patriottica) legata alla complessa eredità di Cuore e di Pinocchio, i due romanzi capitali dell’Italia unita. L’austero Silvio Spaventa Filippi, che era stato il fondatore (non l’inventore) e il primo direttore del Corrierino nel dicembre del 1908, resistette tenacemente su posizioni ‘afasciste’, anche quando - caduti gli Alberini - il “Corriere della Sera” si era apertamente allineato al nuovo governo, sino al termine della sua carriera (e della sua vita, le date coincidono) nel novembre del 1931. Da quel momento anche sul “Corriere dei Piccoli” comparvero (ma sempre in ragionevole misura) intrepidi balillini e audaci legionari.
Questo è il quadro in cui le tavole di Angoletta diventano, anno dopo anno, sempre più popolari, trasformando in un simbolo collettivo il soldatino pacifista e pasticcione. La sua fortuna è tale che il termine ‘Marmittone’ entra nel lessico comune. Nel l957, ad esempio, The Sad Sack, un film con Jerry Lewis, ambientato in una buffa caserma, viene ribattezzato nell’edizione italiana Il marmittone. E in uno dei nostri più autorevoli vocabolari, il Devoto-Oli, si legge alla voce Marmittone: “soldato goffo e impacciato, buono solo a preparare o consumare il rancio”, ovvero uno che preferisce al fucile la marmitta del pranzo. La memoria nazionale cataloga il personaggio come una sorta di immagine rovesciata rispetto ai militi d’assalto, quelli sempre pronti a combattere con il pugnale fra i denti e la bomba a mano da lanciare. Eppure sarebbe sbagliato considerare Angoletta un esponente consapevole della ‘fronda antifascista’. La sua storia (e alcuni fra i personaggi che verranno dopo) non ci consente di pensare a un impegno militante. Più corretto ritenere che il disegnatore fosse un artista ‘impolitico’ coerente con una poetica intima e quotidiana, attraversata da una originale intensità ironico-fantastica. Il che non esclude che, per noi posteri che il fascismo non lo vivemmo, le tavole di Angoletta abbiano un significato culturale fieramente non omogeneo alla retorica del ventennio. Passando da una prigione all’altra, da un’esercitazione sbagliata a una battaglia persa, Marmittone sembra (ancora a del Buono) l’incarnazione di “una realtà italiana, una delle nostre virtù (o vizi) nazionali”. Come dire: “L’eterna mollezza e l’eterna mitezza e l’eterna rassegnazione e l’eterna capacità di sopravvivenza. La sopravvivenza per la sopravvivenza. Non importa se in una vita piuttosto gretta”.
Nel già citato Guardando le figure, Faeti accosta il nome di Angoletta a quello di Carlo Bisi, l’inventore di Pampurio, il borghese inquieto sempre arcicontento (o viceversa arciscontento) del suo nuovo appartamento. La radice comune starebbe nei riferimenti al futurismo (Fortunato Depero specialmente) e ancora di più nella utopia anticittadina, al tempo stesso rivoluzionaria e ultraconservatrice, di Strapaese, lanciata dal ‘selvaggio’ Mino Maccari.
Altri indizi portano però a punti di riferimento internazionali: dalla comicità di Stan Laurel a Il buon soldato Svejk inventato dal narratore ceco Jaroslav Hasek nel 1920 e poi diventato, nella più politica rielaborazione teatrale di Bertolt Brecht, Schweyk nella Seconda guerra mondiale (dramma scritto nel 1942-‘43 e rappresentato solo postumo, perché l’autore lo riteneva incompiuto).
Naturalmente non si parla di fonti conosciute direttamente da Angoletta (forse Stanlio, chissà) quanto di personaggi legati da casuali, eppure significative, affinità poetiche. Per capire l’incanto della caserma di Marmittone (un infinito limitato, specchio del percorso umano) basta sfogliare le antiche collezioni del Corrierino o anche solo il bel volume gigante che la Garzanti dedicò ad Angoletta nel 1975 (con una cauta e veloce introduzione dello specialista Franco Cavallone). Il povero soldato lotta inutilmente contro il destino maligno. Se viene incaricato di portar la colazione al Maggiore in escursione, Marmittone si trova alle prese con un mulo cocciuto che non fa un passo (“ma trascorso è mezzodì/ e quei due son sempre lì”). Se prova a sciare, non senza una certa perizia, finisce col travolgere, durante una discesa vertiginosa, un tenente impettito; mentre è impegnato, insieme ai commilitoni, nella salita della fune (“esercizio assai comune”) quella maledetta si spezza e lui (incolpevole) come un bolide va a cadere sul tenente e sul furiere. La vignetta finale è sempre quella, con il raggio di luce che trafigge il buio della cella.
Seduto sulla panca, con la testa appoggiata alla mano e il gomito puntellato contro il ginocchio, il malinconico prigioniero ha lo sguardo perduto nel vuoto, come se contemplasse un futuro che promette poco di buono. Non l’ha mai promesso, del resto, sin dalla prima avventura.
Terminata la gavetta, Marmittone si conquista l’onore della pagina intera (spesso in copertina) e lascia non di rado lo spazio chiuso della caserma per esercitazioni (disastrose) a piedi, in pianura o in montagna, e con vari mezzi motorizzati. È la premessa alle guerre che il soldatino andrà presto a combattere. Non quella per la rivincita coloniale però, perché per colpa di un troppo indugiato commiato dai numerosi parenti, Marmittone (nella tavola del 24 agosto 1936) arriva al porto quando la nave ha già l’ancora salpata ed al largo se n’è andata (“e così non poté andare/ Marmittone in oltremare”). Lo sostituiscono, sulle ambe dell’Impero, Romolino e Remoletto, due graziosi (e in fondo gentili) Balillini. Ma prima di loro Angoletta aveva già inventato altri personaggi, che vale la pena di conoscere.
Negli anni Trenta, pur continuando la sua attività di pittore-illustratore, Bruno diventa una delle maggiori firme del “Corriere dei Piccoli” (con qualche più saltuaria collaborazione al concorrente “Il Balilla”) proponendo una variopinta galleria di dolci pupazzi. Come gli altri grandi poeti da matita della sua generazione, Angoletta non si lascia tentare dal fumetto vero (quello con le nuvolette) ma continua a scandire le sue tavole con i classici versi a rima baciata. La sua ispirazione resta legata all’universo adulto. Così, già nel 1930, ecco presentarsi Sor Calogero Sorbara, un signore grassoccio e baffuto, che all’inizio di ogni avventura “a partire si prepara”, non si sa bene se per lavoro o per una vacanza solitaria, ma invariabilmente è condannato a restare a casa. Quando va alla stazione perde il treno per colpa di un senso vietato o della gomma di un taxi che si sgonfia. Quando sceglie una nave, al momento di salpare, per salutare la tenera metà si sporge troppo dal parapetto e scivola in mare (“Ma col peso della pancia/ troppo, si sbilancia/ ed un tuffo fa nell’onde/ di quell’acque assai profonde./ Viene tratto a salvamento/ ma partito è il bastimento”). Giovanni Gandini, il fondatore del mensile “Linus”, vede nella saga di Sor Calogero (secondo quanto riferisce Cavallone) un’assonanza con le “frustrazioni provinciali ricorrenti nel cinema di Fellini da I vitelloni ad Amarcord”. Lo sfortunato e maldestro Sorbara sarebbe insomma uno dei possibili padri (o fratelli maggiori) di quei giovanotti da bar che non riuscirono mai a lasciare Rimini e ad andare in città (l’unica eccezione, come si sa, è l’Interlenghi-Moraldo proprio de I vitelloni). L’accostamento è suggestivo, anche se va notato che le partenze fallite di Sor Calogero Sorbara si collegano agli atti mancati che pesano come una maledizione su molti personaggi-bambini del Corrierino (pensiamo all’Antonio Rubino della sublime saga di Pierino e l’odiato burattino o alle tragiche mattinate di Pino e Pina, i due pur zelanti fanciulli che fanno sempre tardi a scuola). Dietro l’apparente gaiezza, molti dei personaggi del “Corriere dei Piccoli” sono la rappresentazione allegorica della vana lotta degli uomini col destino. I bambini di Rubino si ritroveranno davanti al portone chiuso dai severi bidelli: l’accesso alla felicità (o almeno alla ‘normalità’) è loro perennemente negato, allo stesso modo in cui Sorbara non riuscirà mai a partire o Marmittone finirà nella cella di punizione.
Persino la fortuna (i milioni che piovono sul Bonaventura di Sto) diventa un’ossessione se ripetuta senza scampo. Più variate ed esotiche, ma certo non fortunate, sono le passeggiate del dottor Centerbe Ermete, uno stravagante studioso dei misteri della natura, lanciato da Angoletta nel 1933. Col viso ornato da un paio di rigidi baffoni ottocenteschi e un lungo pizzo, Ermete Centerbe si presenta con una mantellina nera e un retino da cacciatore di farfalle sulle spalle.
Nella prima tavola il buon dottore si limita a combinare guai gironzolando attorno a casa (“Ohè! Ma questa non si falla!/ è rarissima farfalla/... La farfalla (questo è il bello)/ è cucita su un cappello,/ sotto al quale, spunta ancora,/ un’amabile signora”); ma altre volte l’intrepido scienziato-esploratore sarà spinto dalla sua sete di conoscenza sino alle solitarie coste della “terra inospite africana”.
L’epilogo di ogni episodio lo vede inevitabilmente umiliato, percosso da folle ostili, ma non domato (“Ohimè quante ammaccature!/ Quante bozze e lividure!/ Ma si soffre con pazienza/ per l’onore della Scienza”). Simpatico e generoso, compagno di strada e di sperimentazione del più ‘diabolico’ professor Pier Cloruro dei Lambicchi (l’inventore dell’arcivernice disegnato da Giovanni Manca), il dottor Centerbe fu caro ad Angoletta (e presumibilmente piacque ai lettori) visto che resistette per parecchi anni, finendo persino in gabbia per colpa dei rozzi americani (tavola del 28 gennaio 1940) che lo scambiano per un “cannibalo scimmione”, in una delle rare avventure a lieto fine.
Riconosciuto da altri scienziati (“Ma che scimmia! Non vedete? È il collega nostro Ermete”) il professore è liberato dall’assurda prigione e per una volta tutti gli fan grande onore. È una sorta di eccezione rosa (come certi festosi banchetti di Marmittone) alla regola della sventura.
Meno popolari e duraturi sono invece altri ostinati eroi proposti da Angoletta nella prima metà degli anni Trenta: il cane poliziotto Pancotto ad esempio (che però tornerà con un altro nome a guerra iniziata), o il vagabondo inquieto Girometto, turista per passione, sempre cacciato dai paesi che è andato a visitare. Dalla Spagna per la verità Girometto fugge con le sue gambe, spaventato da un toro da corrida . Ma già nella capitale della Francia, subito poco amata (“Fuma sotto i cieli bigi/ dai comignoli Parigi”), Girometto verrà inseguito per colpa di vari equivoci e di un pericoloso travestimento (si è tinto la pelle di nero) ed espulso con villane maniere da quella terra a suo modo intollerante (“Congedato è su due piedi/ Girometto. Come vedi/ pel colore della pelle/ la Repubblica lo espelle!”). Nonostante lo stile caricaturale, la polemica neanche troppo velata contro l’esterofilia e il razzismo di molti governi confinanti (particolarmente antipatici risultano gli inglesi con la pipa sempre accesa e la flemmatica andatura) potrebbe far considerare Girometto una variante comica degli emigranti italiani (gente che anche in terre assai lontane non dimentica la patria sì bella e perduta) non casualmente cantati in molti giornalini del ventennio. Ma a conferma che non è consigliabile catalogare l’estro di Angoletta in gabbie ideologiche ‘di destra o di sinistra’, ecco che nel marzo del 1935 il disegnatore spedisce il suo personaggio nell’amica e alleata Germania di Hitler. In terra di ‘Tedescheria’, Girometto incontra le prime disavventure perché cercando di marciare seguendo il passo dell’oca, dà devastanti calci nel sedere ai malcapitati passanti che incrociano il suo cammino. Le cose precipitano quando il distratto viaggiatore, dopo aver bevuto troppa birra, si addormenta all’Opera di Stato durante l’esecuzione di un celebre brano di Wagner (“chè L’anel del Nibelungo/ gli par lungo lungo lungo.../”). La chiusa satirica e beffarda, con Girometto spinto oltre il confine, anticipa ben più tragici avvenimenti (“Quale offesa gigantesca/ per la musica tedesca!/ Venga espulso di premura/ chi non è di razza pura!”).
Angoletta però, l’abbiamo già notato, è un poeta impolitico che lavora seguendo la sua ispirazione (o, perché no, su commissione). Così nel dicembre del ‘35 non ha alcun imbarazzo a spedire sulle ambe dell’impero da ricostruire in Africa (missione troppo impegnativa per Marmittone) i due furbi balillini Romolino e Remoletto. Naturalmente tutti i giornaletti d’Italia erano stati reclutati per l’esotica campagna militare. Già nel giugno del 1935 L’ “Avventuroso” e “Il Balilla” avevano pubblicato i passi salienti del discorso alle camicie nere di Cagliari in cui il duce l’aveva detto chiaramente: abbiamo dei vecchi (e nuovi) conti da regolare e li regoleremo. Il tempo della pazienza è finito. Quando nell’autunno la guerra comincia davvero, accanto ai fumetti epici che continueranno anche dopo la vittoria (il più famoso resta I tre di Macallé di Giove Toppi, che nel settembre del ‘38 sostituì traumaticamente Gordon nella copertina dell’ “Avventuroso”) fra le pubblicazioni per i più piccini spicca “Il Balilla” con una serie di allegri coloniali disegnati dal beffardo De Seta (Gaetano “un modello d’italiano”, il didattico Peperino e la famiglia Piroletto). Ma è assai violento nella crociata razziale contro la stupidità dei “poveri negri” e la voracità del Negus (“Nel suo parco personale/ oggi il Negus Sellassiè/ lungi da ogni generale/ mangia solo, ma per tre”) anche il meno diffuso “Cartoccino dei piccoli”. Il Corrierino si adegua con il ruspante Venturino di Vittorio Cossio (un incrocio fra un balilla e Tarzan) e appunto con le imprese di Romolino e Remoletto. La prima tavola è pubblicata nel dicembre del ‘35: essendo troppo giovani per essere accettati fra i volontari regolari, i due inseparabili gemellini si infilano di soppiatto dentro il fodero della bandiera del reggimento in una nave che sta salpando. Il vessillo viene sfoderato solo all’arrivo in Africa e il buon capitano non se la sente di rispedire a casa i due fanciulli coraggiosi. Senza perdere la leggerezza del tratto disegnato e dello stile verseggiato, Angoletta esalta l’intelligenza dei due soldati-monelli, facili vincitori davanti alla primitiva rozzezza del nemico nero. La loro campagna finisce il 24 maggio 1936, aggrappati, in una tavola trionfale, al tricolore nell’alto del cielo (“Si distende maestosa/ la bandiera vittoriosa,/ e il bel segno immacolato da ogni popolo è ammirato;/ sopra l’Africa sommessa/ è di pace la promessa;/ nell’azzurra immensità/ simbolo di civiltà”).
Mandati in licenza Romolino e Remoletto (ritorneranno nel continente nero solo una volta nell’ottobre del ‘35 impegnati a costruire una strada per l’impero e più tardi, in patria, quando l’Italia entrerà nella Seconda guerra mondiale), Angoletta, mentre continuano senza sosta le sciagure minime di Marmittone, inventa nel 1937 un nuovo burattino, Pampam della Micragna, “cavaliere e spadaccino senza il becco di un quattrino”. Sempre affamato, nonostante la rotonda mole, il simpatico Pampam se la deve vedere con l’odioso Baron della Cicoria, “un signor pieno di boria”. Pur goffo e inelegante, Pampam è assai abile nel manovrare la spada e umilia invariabilmente con arditi mulinelli e colpi in punta di fioretto, il suo vanitoso avversario. Angoletta, con il suo segno semplice ed essenziale, tratteggia un passato immaginario e per niente remoto, anticipando il tema della fame e della lotta ai prepotenti, che sarà una delle linee capitali degli eroi del Corrierino del dopoguerra (si pensi al leggendario grido di battaglia del Tamarindo di Manca, “alla prima che mi fai, ti licenzio e te ne vai”). Durante gli anni duri del conflitto mondiale, Angoletta, accanto a Marmittone e Pampam, propone poi una serie inedita, unendo con insolita procedura i protagonisti di cicli diversi. Il personaggio nuovo è Mac Keron (o Mac Kerone), un poliziotto privato dotato di scarsissimo acume investigativo. Accanto a lui c’è il cane Pancotto, ora ribattezzato Gnocco; e durante le indagini ecco, di volta in volta, affacciarsi il mite Centerbe Ermete e il più bisbetico dottor Tubo, un signore bassotto e occhialuto, con la testa sempre coperta da un enorme cappello cilindrico, che già aveva fatto capolino, col suo pessimo umore, in alcune strisce senza parole sin dal 1935. Se nei disastri compiuti da Mac Keron già si notava una vena ironica contro la presuntuosa stupidità anglosassone, Angoletta torna poi alla satira politica lasciata nella prima gioventù, con il superbo americano Mister Dollar (1942-‘43), un capitalista prepotente, assai brutto a vedersi (un volto grifagno sormontato da un enorme naso), che essendo il re dei tostini da caffè, “vuol passare nella storia come il re della vittoria”. Più aggressivo e spietato del solito, Angoletta si avvicina con questa striscia alle parodie che dal 1941 De Seta disegna per “Il Balilla” contro i nemici della patria: ovvero re Giorgetto d’Inghilterra, l’imbelle sovrano “che per paura della guerra chiede aiuto e protezione al ministro Ciurcillone”; il terribile Stalino, l’orco rosso del Kremlino, che urlando come un pazzo dice alla guardia del palazzo: “i compagni qui segnati siano tutti fucilati”; e infine Rusveltaccio Trottapiano, imbarazzato presidente americano, che poveretto, “obbedisce alla signora, la terribile Eleonora”. Allo stesso modo, in un crescendo drammatico, Mister Dollar, forte dei suoi miliardi (“chi ha più soldi vincerà”) arma una flotta destinata ad affondare nell’oceano; prepara con effetti sconvolgenti (per lui) lo sbarco in Europa e, dopo il fatidico 8 settembre ‘43 (sul Corrierino del 25 ottobre, per l’esattezza), con un ciclopico supercannone provoca la distruzione di Washington e dintorni (“Un,due,tre! Preme un bottone/ Mister Dollar e il cannone /rimbombando furibondo/ d’improvviso squassa il mondo./ La diabolica granata/ spinta fuor dalla volata/ da una carica eccessiva/ ha tal forza propulsiva,/ che si schianta intorno al mondo/ in fischiante girotondo,/ cosicché, cosa inaudita,/ torna là donde è partita.../ Strage, morte, distruzione!/ Salta in aria anche il cannone./ Morti, sotto i resti immani,/ sono mille americani”.
L’apocalisse, invano sognata nella lontana America, sta però avvenendo davvero nelle città d’Italia. Se ne accorgerà anche il serafico Marmittone, impegnato a combattere la sua strana guerra fra il fronte e la prigione.
L’ultimo capodanno di pace (il 31 dicembre del 1939) il caporale Marmittone l’aveva passato, insolitamente in cella sin dalla prima vignetta, in compagnia di uno stravagante commilitone, il visconte Don Gastone, figlio di un miliardario, bisbocciando in uno sfrenato lusso: cibi prelibati, camerieri, musici, staffieri. Uomini e cose erano ovviamente un privilegio dell’aristocratico compagno di cella, ma anche Marmittone ne aveva potuto approfittare perché, quando vogliono, i ricchi hanno buone maniere (“Mi fareste offese se/ non cenaste insieme a me!/ Egli accetta con delizia tal cuccagna natalizia”). A Oreste del Buono questa tavola è sembrata assai importante e istruttiva: “Un ritratto, addirittura sorprendente per realismo, dell’Italia di quella fine d’anno, ancora indecisa fra paure e speranze, in bilico sull’abisso della guerra”. La pausa di serenità è breve: i primi cinque mesi del 1940 sono scanditi da esercitazioni sempre più nervose (marce nella neve e prove d’oscuramento) tutte finite nella solita prigione. E il destino privato del soldato non cambierà granché anche dopo il 10 giugno, il giorno delle decisioni irrevocabili, quando ascolterà, si presume sbigottito, nel piazzale della caserma il discorso del Duce (“Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’impero e del Regno d’Albania! Ascoltate!...”). Già sul Corrierino del 30 giugno, impegnato insieme ad alcuni compagni in un’ardua operazione di sbarco su una costa non precisata, Marmittone è travolto con la sua scialuppa da un’ondata maledetta. Prima di cadere nella sabbia a testa in giù, il severo maggiore aveva imprecato: “Troppo lenti! Giurabacco/ in prigion tutti vi sgnacco!”. Se l’erano cavata decisamente meglio gli altri due soldatini di Angoletta, Romolino e Remoletto, tornati in patria dalle terre d’oltremare e apparsi con celere prontezza sulla copertina del Corrierino del 16 giugno, intenti (“nel momento in cui si vive tutto insidie ed offensive”) a studiare le difese sui confini del paese. Le risorse naturali d’Italia (le Alpi eccelse con i camosci di vedetta, gli alberi allineati come rigidi soldati) insieme all’intrepido ardire del vero esercito in armi (non senza i Balilla di riserva), sembravano costituire un valido baluardo. La vignetta conclusiva, che univa in un unico colpo d’occhio il paesaggio contadino e le ciminiere fumanti delle città industriali, era ritmata da versi che cercavano di trasmettere una impossibile serenità: “Come dentro a una fortezza,/ con tranquilla sicurezza/ può l’Italia lavorare: tra i suoi monti ed il suo mare”.
Marmittone invece no, lui non vive neppure un giorno da leone, forse non lo cerca neppure. Il Corrierino si è adeguato al clima di guerra. Persino Bonaventura e sor Pampurio devono affrontare i primi spaventi da allarme aereo e rifugio. Fra i combattenti-ragazzini spiccano Martin Muma, disegnato da De Vita, e specialmente Marinello, la nuova creazione di Antonio Rubino, uno scanzonato subacqueo che forza la base inglese governata dal superbo Lord Picnic e dalla sua odiosa signora, proponendosi come l’erede ideale di quell’Italino che durante il primo conflitto mondale aveva più volte beffato il grasso Kartoffel Otto e la sua bruttissima figlia. Marmittone, che è al contrario molle e infingardo come i due martiri per caso (Gassman e Tognazzi, naturalmente) che una ventina d’anni dopo saranno al centro de La grande guerra di Monicelli, è capace di appisolarsi quando il comandante gli assegna il compito di esplorare il cielo per avvertire la difesa in caso di attacco aereo (“Si sta meglio orizzontali/ per guardare coi cannocchiali/ Ma quand’uno sta giacente/ s’addormenta facilmente...”). La prigione, come sempre, lo attende. Questa disavventura (sul Corrierino del 4 maggio ‘41) fu pubblicata, come parecchie altre di questo periodo, in una tavola breve da pagina interna.
Il caporale troppo pacifico era stato in qualche senso degradato: una decisione redazionalmente ineccepibile, vista l’atmosfera che aveva bisogno di eroi. Il soldatino di Angoletta di tanto in tanto torna comunque in prima pagina e trova immancabilmente una non sperata consolazione per le feste di fine anno. Nel 1939 l’abbiamo lasciato a banchettare in cella col visconte don Gastone; nel 1940 aveva brindato in trincea con più umili commilitoni. Ora, nel ‘41, può santificare il Natale con i suoi. A sorpresa infatti, e un po’ in contraddizione con le pasticciate imprese precedenti, “in licenza fu mandato come ottimo soldato”. Ma le cose e le persone non cambiano facilmente: nel rigido marzo del 1942 (Corrierino numero 10) l’incorreggibile caporale prende a palle di neve un suo superiore (un baffuto sergente) scambiandolo per un pupazzo, ingannato da una candida tuta mimetica. La punizione è più severa del solito: addirittura cento giorni di prigione. A poco a poco, e in punta di piedi, Marmittone si metterà così da parte, uscendo di scena nel fatidico 1943. Nel ribaldo e disperato Corrierino di Salò sarebbe stato decisamente fuori posto. Secondo Franco Cavallone, al di là della volontà dell’autore, il buffo soldato continuò sino in fondo “da un lato a combinar malestri anche nel corso di operazioni belliche, dall’altro a ridicolizzare, per innocente e insopprimibile vocazione, le strutture mentali e istituzionali dell’esercito”.
Quando fu chiaro che non c’era più niente da ridere, fu soppresso, ma ormai era troppo tardi. Chiudendo la sua introduzione al citato volume antologico sull’opera di Angoletta, Cavallone sembra addirittura imbarazzato: “Così può accadere, all’italiana, che l’Angoletta, mancato caricaturista del Cav. Benito Mussolini, collaboratore del Balilla e del Candido, passi alla storia (si fa per dire) come un poeta delle classi subalterne, un amico degli umili e degli oppressi, un seminatore di dissenso (se non di resistenza) all’interno dell’ufficialità del Regime. Tanto meglio”.
Come affezionato lettore del “Corriere dei Piccoli” che fu, ho la sensazione che Cavallone scrivendo questa cauta e un tantino caustica premessa, sia stato frenato da eccessivi scrupoli ideologici. Quelli che per l’appunto Angoletta (a mio nostalgico avviso uno dei massimi artisti in servizio per il giornalino di via Solferino, insieme a Rubino, Sto e Mussino) non aveva. Con il buon soldato e i suoi fratelli (dal dottor Centerbe Ermete a Pampam della Micragna) Angoletta dette un’interpretazione, poetica e originale, delle contraddizioni del suo tempo. Non tanto puntando sullo ‘squallore’ (come è sembrato a Faeti) della quotidiana esistenza, quanto mettendo a fuoco un mondo piccolo e dolcemente distratto, che non era sempre in grado di comprendere le calamità che gli piovevano sulla testa. Ma quella sorta di inconsapevolezza era forse l’unica possibilità di sopravvivere, senza inchini e compromessi. Non è facile immaginare cosa avrebbe fatto Marmittone dopo l’8 settembre: probabilmente, come molti altri, avrebbe cercato di tornare a casa, senza fucile e senza divisa. Ma questa storia non ci è mai stata raccontata.
In compenso, dopo un lungo congedo, il soldato viene richiamato in servizio nel Corrierino del 1952. Angoletta riprende il suo personaggio principe su pressante invito di Giovanni Mosca, un direttore liricamente conservatore, devoto alla tradizione. La tavola del ritorno è quasi straziante: il “famoso e disgraziato” Marmittone rientra nella sua vecchia caserma, quella dove più di trent’anni prima era venuto per la ferma. L’edificio, abbellito e riammodernato, sembra nuovo.
Dentro, sopravvissuto chissà come al corso del tempo, c’è persino un antico compagno (“Chi si vede! Marmittone/ Pelegali! Rivedere/ vecchi amici è un gran piacere”). L’abbraccio è tenero ma il finale è ancora quello. Grazie agli aggiornamenti tecnici, il colonnello vede Marmittone organizzare in camerata un festoso, e ahimè non autorizzato, coro di rimpatriata. La porta della prigione si riapre.
Ormai l’autore e il suo personaggio sono vecchi e stanchi. Si avvicina il tempo del grande addio. Alla fine del ‘52 però Marmittone ricomparirà, per una volta disegnato non da Angoletta. Per suggellare il suo primo anno da direttore (resterà in carica sino al febbraio del ‘61) Mosca affidò infatti ad Antonio Rubino il compito di dipingere un surreale “ballo angelico”, un carosello con i personaggi più belli dei giorni perduti. Sfilano in parata Pierino, non senza l’odiato burattino, e Bilbolbul, Fortunello e la Checca, Arcibaldo e Petronilla, Bonaventura e appunto Marmittone. Scrivendo ormai venticinque anni fa una breve storia del “Corriere dei Piccoli”, mi è già capitato di notarlo (mi scuso per l’autocitazione ma, come la prigione, la sensazione è sempre quella). Mosca non lo sapeva, però la tavola ha il gusto un po’ amaro delle cose smarrite. Dietro l’omaggio al passato ruggente, si affacciava l’ipotesi di un futuro labile e diverso (i gusti dei nuovi bimbi d’Italia erano cambiati irrimediabilmente). Come se dal disegno provenisse una musica troppo dolce e troppo triste, quasi il lamento di un’epoca, a suo modo felice, che non poteva più tornare.