Mentre a Milano è in corso una mostra documentaria, esce nei Meridiani un'edizione critica dei suoi testi
Palazzeschi, libertà e divertimento.
Alla riscoperta della figura e dell'opera di uno scrittore «dimenticato»
Adesso, mentre è appena uscito uno dei Meridiani di Mondadori interamente dedicato alle sue poesie, alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano c'è - curata dalla Fondazione Mondadori - una singolare, efficacissima mostra dal titolo Il codice della libertà. Aldo Palazzeschi, che offre un simbolico «viaggio» alla scoperta di questo scrittore e poeta, perenne contro-corrente, che non ha mai rinunciato a farsi beffa anche di sé stesso, tanto da affermare, fin dal lontano 1915: «gli uomini che prendono sul serio gli altri mi fanno compassione, quelli che prendono sul serio sé stessi mi fanno sganasciare dalle risa».
La mostra milanese ci offre una quantità di documenti, di immagini, di fotografie, di istantanee, che ritraggono Palazzeschi in compagnia di amici, di colleghi, e di altri «nomi» destinati come lui a lasciare un segno. Lo si vede, per esempio, ormai anziano seduto in poltrona, sorridente, col suo sguardo aguzzo, mentre ascolta l'editore Arnoldo Mondadori, e vicino a lui c'è anche Marino Moretti, suo coetaneo, l'autore di Poesie scritte col lapis. Invece lui, Palazzeschi, ha appartenuto - seppure per breve tempo - al movimento futurista, quello fondato da Marinetti col Manifesto del 1909. Tant'è vero che quattro anni dopo, nel 1913, è a Marinetti, «anima della nostra fiamma», che Palazzeschi dedica il suo L'Incendiario (un'opera, «che già reca la forma inconf
ondibile della filastrocca grottesca», come ha notato efficacemente Graziella Pulce).
«Chi sono?» si era chiesto in una di quelle poesie ritmico-ironiche, che hanno costituito la sua sigla forse più originale, il suo distintivo certo più genuino. «Il saltimbanco dell'anima mia», era stata la drastica risposta, destinata a diventare famosa, quasi un suo auto-ritratto, felicemente icastico. Del resto, di scherzi simili Palazzeschi ce ne ha lasciati parecchi, destinasti a caratterizzare - potremmo quasi dire - una vita da poeta non-poeta, o meglio da poeta che rifiutava le pose, che voleva essere l'esatta antitesi del poeta-vate (alla D'Annunzio, per intenderci).
La mostra, aperta a Milano fino al 16 novembre, è curata molto bene da Simone Magherini e da Gloria Manghetti, gli stessi studiosi esperti che hanno pubblicato un delizioso Album Palazzeschi, intitolato Scherzi di gioventù e altri scherzi (edito da Pagliai Polistampa, Firenze): un libro forse troppo grande (come dimensioni) per trovare spazio in biblioteca, ma eccezionalmente carico di immagini, che serve da felice complemento e completamento dell'esposizione milanese, per conoscere e capire come e perché il «codice della libertà» è sempre stato il felice principio ispiratore di questo personaggio, capace di conservare, sempre e dovunque, la massima indipendenza, anche quando aveva a che fare con temperamenti duri, rudi, prepotenti: tipo il Papini dell'epoca
di Lacerba, per intenderci...
«Io sono un intuitivo, non un letterato, un teorico» diceva di sé. Poteva sembrare una confessione, oggi diremmo, minimalista; e invece, coglieva bene il suo carattere di autentico artista, che da giovane aveva calcato anche le scene, non perché concepisse la vita come una recita, come una commedia, ma perché - pur confessando di non avere mai posseduto un vero patrimonio di cultura - possedeva delle doti, anzi delle antenne naturali, che gli permettevano di comportarsi sempre con piena libertà, anche a costo di stupire con certe affermazioni ai limiti del paradosso, come quando sosteneva che «la gioventù e la vecchiaia sono il tempo della follia». E lo diceva sul finire del 1971, quando aveva superano l'ottantina, e gli rimanevano appena tra anni da vivere,
fino al 1974.
Chi l'ha definito «una voce fuori dal coro», ha colto sicuramente un aspetto della personalità di Palazzeschi, il suo spirito individualista e quello spirito di indipendenza che non lo ha mai abbandonato, perché sapeva addolcire anche una certa vena malinconica con la fragranza di un'allegria improvvisa, anzi esplosiva. La stessa che rende indimenticabili i due versi della raccolta Cuor mio: «Vita: / orrenda cosa che mi piaci tanto»... Del resto, che il riso fosse «il profumo della vita in un popolo civile» era un altro dei suoi convincimenti, che in lui diventavano una regola di vita, elementare, quasi ovvia. Come quando sosteneva che proprio l'ironia va considerata la «estrema punta della politica dello spirito» (così si legge in Lazzi, frizzi, schizzi, gh
irigoli e ghiribizzi).
D'altra parte, però, Palazzeschi, proprio per sua natura e forma mentis non è stato un isolato, non ha voluto starsene in disparte. Sapeva benissimo che mai come oggi i poeti hanno vita grama; ma proprio per questo non esitava a reclamare almeno: «e lasciatemi divertire!». Anche in parole così semplici e scanzonate c'era il richiamo costante al suo personalissimo «codice della libertà». Lo stesso che fin dal 1934, in una pagina del quel suo fortunato romanzo tragicomico Sorelle Materassi, aveva fatto scrivere a Palazzeschi: «L'essere canzonati un pochino, e qualche volta un po' di più, è cosa che attrae molto, tanto gli uomini che le donne, più assai che l'essere trattati con serietà e rispetto».