Ma è forse in una lettera ad Achille Rosa che Grassi, nel gennaio del 1949, già insediato al Piccolo Teatro della città di Milano in via Rovello, esplicita in modo chiaro la stretta connessione tra editoria e teatro che aveva guidato e guiderà le sue scelte future. Lo fa a partire da cifre e conti, che svelano però con chiarezza un progetto culturale o, per usare le sue parole già ricordate, «un progetto artistico-industriale» che lo aveva da sempre orientato nelle sue oculate scelte in casa editrice, scelte che avevano consentito alla collana «Teatro» di essere l’unica «ATTIVA».
Come ricordava Roberto Cerati, per Paolo Grassi «Uno spettacolo lo si doveva vedere, ma anche leggere». Per questo, continuava, «se pensava ai libri da produrre e agli autori da proporre al tempo stesso cercava la veste grafica, chi li avrebbe potuti curare, come offrirli al mercato e quale ne avrebbe potuto essere l’esito». Un lavoro di mediazione editoriale che diventava mediazione culturale, dalla scelta dell’autore alla scelta del traduttore, dall’attenzione alla promozione del testo fino alla sua distribuzione, che doveva seguire i tempi del teatro e incontrare là il suo lettore: non a caso i banchi di libri a teatro, ricorda sempre Cerati, furono una sua iniziativa.
Una visione moderna del lavoro culturale e della cultura, «circolare, globale, fatta di tutto ciò che può essere patrimonio di un uomo curioso e nuovo».
Quell’uomo che nel 1946 scriveva sul primo numero di «Arte e spettacolo»: «Oggi il vento è cambiato […] critici e registi è troppo poco: faremo gli agenti, gli editori, i traduttori e gli organizzatori […] fino a quando non saremo certi di poter dividere gli incarichi in mani solide e sicure».