Un tigrotto per amico

Protagonista della striscia comica di maggior successo dopo i Peanuts, Calvin può essere definito il nipotino di Charlie Brown, di cui eredita l’inquietudine esistenziale, la tendenza all’ossessione nevrotica, la condizione di eterno perdente. Lo distingue, però, dal celebre eroe di Schulz un dinamismo estroso ed esuberante anche se privo di slanci autenticamente estroversi. Ma è indubbiamente Hobbes, il giocattolo che si anima in presenza di Calvin, la vera trovata del fumetto di Bill Watterson: personaggio polivalente e multiforme, ironico e spiritoso, filosofo scettico e disincantato.
 
«Sospetto che la maggior parte di noi invecchi senza crescere e che in fondo ad ogni adulto (a volte nemmeno tanto in fondo) ci sia un moccioso che vuole tutto a modo suo. Uso Calvin come sfogo della mia immaturità, […] come un modo di ridicolizzare le mie ossessioni e come un modo per commentare la natura umana». Così Bill Watterson, Fautore di Calvin e Hobbes, ha spiegato la genesi creativa e la matrice autobiografica del personaggio, lasciando trapelare anche qualche indizio implicito sui modelli. Non c’è dubbio che i Peanuts abbiano fatto scuola: ancora una volta è la regressione nel personaggio infantile la chiave determinante della rappresentazione umoristica, ma anche la formula di successo. E su entrambi i piani il paragone con Schulz non è inopportuno giacché la comic strip di Watterson non è solo il fenomeno più interessante nel panorama del fumetto umoristico degli anni novanta ma anche la striscia di maggior successo, in senso assoluto, dopo i Peanuts.
Lo confermano alcuni dati: apparse per la prima volta nel 1985, le strisce di Calvin e Hobbes sono state pubblicate su più di 2.400 giornali e sono state poi raccolte in quattordici volumi tradotti e diffusi in tutto il mondo. Un successo che perdura tuttora, nonostante la decisione presa dall’autore di cessare la pubblicazione della striscia nel 1996, a un decennio dall’esordio. In Italia la strip di Calvin e Hobbes ha già una tradizione consolidata e continua a fare tendenza: la rivista «Linus» ha iniziato a pubblicarla sin dal 1986 e, una volta esaurito il materiale a disposizione a seguito del ritiro dell’autore, ha ricominciato a stampare le strisce di Calvin e Hobbes secondo un criterio rigorosamente cronologico e filologico. La editrice Comix ha diffuso, inoltre, a partire dal 1993, quattordici pubblicazioni in volume, corrispondenti alle raccolte già stampate negli USA, e si accinge a dare alle stampe un volume che raccoglie le tavole domenicali, riproponendo il catalogo di una mostra americana dedicata a Watterson. In Italia e anche altrove, insomma, la popolarità della striscia non accenna a declinare, anzi recluta consensi tra un pubblico quanto mai vario: pare che le vignette di Calvin e Hobbes non dispiacciano ai piccoli, ma piacciano sicuramente ai giovani e postgiovani. Secondo Nicoletta Parvi, la traduttrice italiana della striscia, è la comic strip preferita dai trentenni: sembra che siano soprattutto loro gli adulti mai cresciuti pronti a riconoscersi nella figura del bambino dal nome pretenzioso, un po’ filosofo, un po’ teologo ma soprattutto imprevedibile e pestifero.
Si può facilmente prevedere, senza dubbio, che tra i fanatici della striscia di Watterson si contino tanti orfani e nostalgici dei Peanuts (qualcuno osa persino definirla più bella degli stessi Peanuts). Nessuna sorpresa: Calvin è, in un certo senso, un nipotino di Charlie Brown, da cui eredita la vocazione introspettiva, la tendenza all’ossessione nevrotica, la condizione di eterno perdente. Eppure Calvin non è Charlie Brown: all’indole malinconica del personaggio di Schulz contrappone un dinamismo istintivo, forse non gioioso e vitalistico ma certamente esuberante ed estroso. La fisionomia del personaggio si articola in una duplice dimensione: Calvin è un filosofo in erba e, nello stesso tempo, un moto perpetuo, una figura dotata di spessore interiore e, insieme, il protagonista di situazioni francamente comiche. Associa all’umorismo fine delle battute una gestualità concitata.
L’uso della linea modulata nel tratteggio della figura ne suggerisce, infatti, la predisposizione irrefrenabile al movimento; Calvin ha una testa grossa e un corpo minuto, come i personaggi di Schulz, può apparire isolato sulla scena per dar risalto alla battuta del balloon ma si produce anche in salti, rotolamenti, cadute rovinose. E un personaggio all’insegna della bizzarria imprevedibile: si pone inquietanti interrogativi esistenziali, è preda di nevrosi e fobie che gli amareggiano la vita quotidiana (il bagno, i pasti, i mostri sotto il letto durante il sonno notturno), ha rapporti difficili e tormentati con adulti e coetanei ma sa contaminare vittimismo e gusto per la provocazione, esibendosi in bravate di ogni sorta. Dà vita a giochi spericolati e si abbandona a fantasie spettacolari, sognando di visitare lo spazio interstellare o l’era giurassica, di essere astronauta o dinosauro. Sembra avere ereditato, in questo senso, oltre che le nevrosi di Charlie Brown o di Linus, anche il mimetismo camaleontico di Snoopy.
Nondimento, tra Calvin e i piccoli eroi di Schulz corre una distanza quasi epocale: Calvin è, senza dubbio, un bambino degli anni novanta. Innanzi tutto è solo: è figlio unico e ha pochi amici tra i coetanei. Gli altri due protagonisti infantili della striscia, il bullaccio Moe, delle cui sbruffonate Calvin è vittima, e Siusi, la compagna di giochi detestata e amata nello stesso tempo, intrattengono con lui rapporti carichi di tensione. I bambini di Watterson giocano soltanto a cercare di sopraffarsi a vicenda, incapaci di comunicare se non attraverso le modalità distorte della scontrosità aggressiva. Non per nulla il dinamismo di Calvin sfiora l’ipercinesi ma manca di slanci estroversi. La striscia di Watterson, peraltro, non è in linea con le comic strips più note, che tendono a mettere in scena la vita di comunità di personaggi; ripropone piuttosto la formula, in verità non estranea neanch’essa alla tradizione del fumetto umoristico, della coppia di eroi comici, il protagonista e la sua spalla.
Il punto è che Calvin ha una spalla d’eccezione, un compagno inseparabile che, in fondo, ne ribadisce la condizione di solitudine: Hobbes non è un essere umano, è un felino, ma non un felino in carne e ossa, è un tigrotto di pezza, il giocattolo preferito di Calvin che si anima in sua presenza e lo affianca in gag straordinarie. E innegabilmente Hobbes la trovata più originale della strip di Watterson: non è soltanto un animale pensante, come Snoopy, e neanche il bambolotto che prende miracolosamente vita caro a certa tradizione fiabesca.
Hobbes è un personaggio polivalente il cui statuto articola in modo complesso e ambivalente il gioco dei punti di vista del fumetto. E se l’autore ha dichiarato di non pensare a Hobbes «come il frutto della immaginazione di Calvin», ha ammesso, però, che «Calvin vede Hobbes in un certo modo e tutti gli altri lo vedono in un altro». Hobbes risulta dunque un personaggio multiforme: è un felino ironico e spiritoso, un filosofo scettico e disincantato sulla natura umana, ma è anche un tigrotto di pezza, l’oggetto transizionale di cui il bambino non si è mai liberato, che ne filtra e distorce il rapporto con il reale. È insomma l’alter ego che il bimbo si è creato su misura per farne l’interlocutore privilegiato e il partner insostituibile, a volte persino il rivale affettuosamente rassicurante nelle risse giocose. Va detto che Watterson non insiste sulla situazione di scissione schizoide insita nel rapporto tra il bambino e il tigrotto, anzi ne dissolve ogni elemento di inquietudine conturbante per trasformarla in una trovata divertente, oltre che in una soluzione efficace per drammatizzare l’indagine dell’interiorità infantile.
La poliedricità di Hobbes è l’espediente che offre al discorso comico della striscia opportunità molteplici. In più occasioni lo svolgimento della strip, sviluppandosi secondo lo schema classico della sequenza tripartita o quadripartita di vignette, segue il ritmo binario del rapporto dialogico tra i due personaggi.
Calvin filosofeggia su questioni esistenziali o metafisiche di largo respiro e Hobbes interviene a smorzare, con una battuta, il tono del discorso, operandone una riduzione comica di effetto sicuro. Del resto la stessa onomastica pretenziosa dei protagonisti propone in prima istanza l’ottica del rovesciamento ironico. Allo stesso esito concorre, in altri casi, il ricorso a un ulteriore rovesciamento di prospettiva ottenuto attraverso l’adozione del punto di vista del tigrotto. Ecco le situazioni in cui Hobbes fa valere l’ottica felina ribaltando la visione antropocentrica degli altri personaggi, Calvin incluso.
A volte, tuttavia, Hobbes travalica ogni artificio retorico e si comporta semplicemente come un compagno di giochi complice e solidale: eccolo seguire Calvin nelle avventure mirabolanti e nelle iniziative spericolate che lo contraddistinguono. Sono queste le occasioni in cui, peraltro, il tratto grafico di Watterson si allontana dalle soluzioni alla Schulz, di cui pure riprende alcuni accorgimenti stilistici.
Dall’autore dei Peanuts Watterson deriva il gusto per l’essenzialità dell’immagine: la prospettiva è assente o appena suggerita, di scorcio, da pochi elementi del paesaggio o dell’arredo, nelle scene di interni; i personaggi sono spesso isolati sulla scena e raffigurati in campo medio per dar risalto alle loro battute. Quando, tuttavia, essi abbandonano le dispute filosofiche per darsi alle birichinate furfantesche impongono uno stile grafico tutto diverso, adatto alla rappresentazione delle loro performance dinamiche: la modulazione della linea si fa più marcata e nervosa, il gioco delle inquadrature diviene più vario, abbondano gli espedienti di visualizzazione sonora e di raffigurazione sintetica. A volte, tuttavia, anche le scene di movimento sottintendono una prospettiva complessa, imposta dalla presenza ambigua di Hobbes: entra allora in gioco il contrasto tra il punto di vista di Calvin, che anima incessantemente il giocattolo considerandolo il partner di un sodalizio inscindibile, e l’ottica a volte scettica e distante, a volte bonariamente complice degli altri, coetanei ma soprattutto adulti.
Eccoci arrivati all’aspetto ulteriore che distingue il fumetto di Watterson dal mondo di carta dei piccoli eroi di Schulz. Charlie Brown si muove in un universo di coetanei in cui gli adulti si sottraggono alla rappresentazione diretta. Attorno alla coppia singolare di Watterson ruotano, invece, pochi personaggi tra i quali spicca la presenza adulta. Si distinguono innanzi tutto le figure genitoriali rappresentate all’insegna dell’antisentimentalismo ironico: poco inclini agli slanci affettuosi, sempre presi dalle loro faccende, i genitori di Calvin annaspano nei goffi tentativi di fronteggiare l’estro eversivo del figliolo, cui tentano vanamente di imporre norme accettabili di comportamento. E se alla figura materna sembra spettare il compito di disciplinare i riti della vita quotidiana (il sonno, il bagno, il risveglio, il consumo dei pasti), la figura patema pretende di dare al piccolo lezioni di morale o di vita, magari costringendolo a seguirlo nell’esperienza straziante del campeggio di fine settimana.
In questi casi le occasioni della comicità vanno al di là dell’evidente spaccato ironico sull’american way of life: traggono alimento, piuttosto, dalle battute o dalle trovate con cui Calvin vanifica gli intenti dei genitori e li sottopone a una provocazione logorante. Perché anche per questo aspetto Calvin è un bambino degli anni novanta, alquanto scoperto sul versante dei rapporti solidali con i coetanei, certamente scettico e disilluso sull’autorevolezza presunta degli adulti ma anche ansioso di riconoscerla e di sfidarla. Ai poveri genitori non resta che far valere una strategia difensiva ben misera, giocata sulla consapevolezza ironica del proprio sostanziale fallimento. Tale spessore manca, invece, alle altre figure adulte della striscia, che sono ancora significativamente degli educatori, se pur fallimentari: la babysitter Rosalyn e la maestra, la terribile signora Vermoni, ambedue rappresentate attraverso un procedimento di marcata deformazione caricaturale. La babysitter è colta sempre in un atteggiamento biecamente interessato: restia a ogni cedimento affettuoso, scarsamente sollecitata dalla cura del piccolo è unicamente intenta a neutralizzarne ogni iniziativa per dedicarsi con tranquillità alle conversazioni telefoniche con le amiche. La maestra appare tanto ottusa quanto pateticamente protesa a cercare di affermare la propria autorità: l’urlo e il lamento sono gli atteggiamenti che meglio ne individuano il carattere ma che la rendono anche poco disponibile al confronto comunicativo.
Ecco che di fronte alla rappresentante dell’istituzione scolastica Calvin tende persino a sottrarsi alla dimensione dialogica: lo scambio di battute cede il posto al monologo interiore del protagonista, rivolto non tanto all’indagine introspettiva quanto all’evasione ludica e alla fantasia solitaria. Calvin immagina di affrontare alieni spaventosi o mostri preistorici che si rivelano rappresentazioni fantasmatiche dell’orribile maestra.
Va detto, peraltro, che la rappresentazione delle escursioni fantastiche di Calvin trova lo spazio privilegiato nelle tavole domenicali, che associano all’uso del colore una maggiore ricercatezza e ricchezza del disegno. Anche l’impostazione grafica della pagina diviene più varia e complessa e si lascia alle spalle lo schema classico della sequenza tripartita o quadripartita di vignette. Del resto l’evoluzione della striscia di Watterson ha puntato su una progressiva valorizzazione dell’immagine, che le prime serie di vignette relegavano, invece, in secondo piano rispetto al testo. Non sono mancati, persino, in queste occasioni, i flirt con le tecniche del fumetto postavanguardistico, a partire dalla citazione parodistica degli stilemi e dei tratti del fumetto di genere, fantasy, fantascientifico o poliziesco. E dalla temperie culturale del fumetto d’avanguardia derivano forse certi aspetti della personalità di Watterson. Insofferente ai ritmi stressanti della stampa quotidiana, in polemica con i syndicate americani, contrario al merchandising, l’autore di Calvin e Hobbes ha vissuto con alcune riserve l’esperienza del successo significativo arriso alla sua strip. Alla fine deve essergli parso tutto troppo stretto: i tempi, lo spazio della striscia e persino quello della tavola. Pare che adesso prediliga la tela e si sia dato alla pittura. I suoi personaggi, tuttavia, gli sopravvivono con enorme successo e conquistano le simpatie di grandi e piccini: forse perché sanno coniugare il disincanto ironico degli adulti e la spensieratezza istintiva dell’infanzia.