A vent’anni esatti dal Nome della rosa, nell’epoca della globalizzazione e del confronto di civiltà, Eco torna all’amato Medioevo raccontandoci una «bella storia» e riscoprendo il fascino dell’esotismo orientale anche un po’ eccentrico. La mescolanza postmoderna di generi alti e bassi e di registri stilistici opposti funziona ancora, ma la figura del narratore è sfuocata e la logorrea dilagante del protagonista frastorna il lettore: è infatti proprio il personaggio camaleontico di Baudolino a condensare in sé i motivi di forza e di debolezza del romanzo.
Abbandonato lo scenario sperduto delle isole, ormai invaso dagli spot pubblicitari dei telefonini cellulari, Eco torna all’amato Medioevo per raccontarci ancora una «bella storia», piena di menzogne spudorate e di molte verità sospette. L’intento compositivo di Baudolino ricalca la strategia romanzesca da cui era nato il più clamoroso successo italiano dell’ultimo ventennio. Al pari del Nome della rosa, anche quest’opera, ambientata ai tempi di Federico Barbarossa, recupera lo sfondo di un passato remoto per rispondere agli assilli del nostro presente inquieto: «immaginare altri mondi per dimenticare quanto sia doloroso quello in cui viviamo», sapendo, nel contempo, che «ad immaginare altri mondi, si finisce per cambiare anche questo» (p. 104). Non viene meno, insomma, la volontà di dialogare con le cerchie ampie di lettori, a cui offrire una narrazione interessante e insieme non priva di suggestioni critiche e problematiche. E come nel primo best seller, l’adozione delle coordinate del racconto misto di storia e d’invenzione punta, con gusto postmoderno ultraddestrato, ad accostare generi alti e bassi, mescolare registri stilistici opposti, intrecciare sequenze di sbrigliata affabulazione con note di sofisticata metaletterarietà e filologica erudizione: gli ingredienti ci sono tutti e forse qualcuno di più. Sul piano delle formule combinatorie Baudolino non offre novità clamorose: i materiali tratti dal repertorio fantasmagorico dell’immaginario medievale sono riplasmati con le tecniche della mescidanza allusiva e del citazionismo parodico, per la gioia di un lettore modello, controfigura sputata dell’autore reale. Quest’ultimo, d’altra parte, mai dimentico delle sue competenze semiologiche, si diletta a contaminare anche gli episodi più leggendari con i riferimenti criptici al dibattito contemporaneo. Valga per tutti, il nome del saltellante scudiero incontrato nell’impronunciabile città di Pndapetzim, Gavagai, che riprende un esempio noto dell’analisi semantica di Quine: gli addetti ai lavori sicuramente apprezzano, tutti gli altri, e sono la stragrande maggioranza, neanche se ne accorgono.
Più strutturalmente ambiziosa è semmai la tendenza a dilatare i confini del racconto fino a inglobare nel tessuto narrativo gli indizi e le tracce di una dimensione spaziale che incanta e spaventa. In epoca di globalizzazione, il romanzo neostorico si intride dell’eco fascinosa dell’esotismo eccentrico: il viaggio intrapreso da Baudolino e compagni alla ricerca del regno del Prete Gianni si svolge oltre il fiume di pietre rotolanti, in lande preuste e tenebrose, affollate di serpenti crestati e mostri orrendi. A dare spessore al resoconto narrativo non è, però, né la sfilza degli incontri più o meno conturbanti né la sequela degli ostacoli superati con coraggio o aggirati con furbizia; a colpire il lettore è la varietà sgranata degli scenari da cui ogni singola vicenda attinge una sfumatura tonale particolare. La struttura canonica del viaggio è organizzata con un montaggio franto che alterna, in una sorta di schidionata enciclopedica, squarci descrittivi e allucinazioni deliranti, discussioni teologiche e appuntamenti amorosi, battaglie campali e cene disgustose: ma in questo itinerario caleidoscopico non è inscritta nessuna quête iniziatica, non è previsto nessun percorso di crescita intellettuale o sentimentale. Per quanto esibito sia il tema della ricerca di oggetti sacri, immagini fantasmatiche, figure mitiche, mondi utopici ad accamparsi sulla pagina è la serie strabiliante dei paesaggi entro cui si svolge il cammino. D’altronde, la reliquia più preziosa il santo Graal è già stata trovata, per non dire fabbricata, prima della partenza, nella povera casupola del papà di Baudolino e il suo furto è solo un espediente per rilanciare una trama che rischia di arenarsi dopo la morte di Federico. Perché, appunto, l’interesse precipuo di Baudolino è nella torsione spaziale che il recupero del passato assume, ad avvalorare un duplice intento polemico: per il neoilluminista Eco non solo il corso della Storia non è affatto concluso, ma anche la topica degli «spazi lisci» o dei «non luoghi» ipermoderni richiede un’inedita reinvenzione romanzesca. Se la dialettica degli eventi non cancella il gusto e la necessità di grandi narrazioni, il confronto conflittuale con modelli di civiltà e di cultura extraoccidentali rimescola le carte e ridisegna le mappe. Anche i Cavalieri che fecero l’impresa di Pupi Avati, balordo racconto medievale di cappa e spada, documenta la tendenza neostorica a interconnettere tempo e spazio; ma, nell’opera d’esordio letterario del regista, la trovata si limita a organizzare l’ordine paratestuale dell’indice, senza incidere sull’articolazione dell’intreccio.
Ben diversa la funzionalità compositiva che l’impatto con la cultura d’Oriente acquista nel libro di Eco, a partire dalla costruzione della cornice: in una Costantinopoli in fiamme, il sessantenne Baudolino narra a Niceta Coniata, storico e teologo bizantino, la sua storia, «una piccola vicenda nata in una palude lontana, in paesi barbari e tra genti barbare» (p. 525). L’alternanza dei tempi narrativi – l’adesso del racconto e l’allora delle vicende rievocate non solo dinamizza le giunture dell’intreccio ma consente un confronto vivace di voci e punti di vista dissimili. Nel dialogo in cui i due intellettuali si fronteggiano, fra un pranzo e l’altro o lungo le pause di una fuga accidentata, si sviluppa una riflessione serrata sui paradigmi di civiltà, dogmi religiosi e soprattutto meccanismi e regole della prassi politica. Sullo sfondo di una crisi di valori universali, sacri e profani, mentre lassù tra le nebbie della palude si avviano le prime rudimentali forme di convivenza moderna questo il senso della suggestiva sequenza dedicata alla fondazione di Alessandria due diverse figure, appartenenti entrambe all’élite colta, si interrogano sulle ragioni del dominio imperiale conquistato con la forza delle armi, mantenuto con gli strumenti dell’inganno e avallato dai principi di una cultura fragile e insieme potentissima.
Sul rogo che inceneriva l’illustre patrimonio dei classici si chiudeva Il nome della rosa, sull’incendio in cui brucia «la più grande città della cristianità» si apre Baudolino-, troppo evidente il parallelismo per non essere intenzionale. E d’altronde il ri-uso delle coordinate del genere storico, a vent’anni esatti dalla cronaca di Adso, all’alba del nuovo millennio, suggerisce, per non dire impone, una lettura comparativa, accompagnata da un’altrettanto inevitabile domanda: perché il ritorno al Medioevo da parte di chi l’aveva proposto e imposto a critici e lettori questa volta non ha funzionato? Perché Baudolino, a differenza di Guglielmo da Baskerville, non è riuscito a conquistare il consenso del vasto pubblico?
La risposta, come Eco ben sa, è già implicita nelle modalità dell’interrogazione. E proprio lui, Baudolino, il fabulatore camaleontico, il figlio adottivo dell’imperatore, il giovane popolano educato a Parigi che crede nel «sapere come fonte del potere», a condensare i motivi di forza e di debolezza dell’intero romanzo. Sempre in scena, protagonista e primo narratore, il ragazzo fantasioso che già da piccolo vedeva gli unicorni diventa il fulcro di una compagine testuale che deliberatamente ruota intorno al suo destino e alla scrittura che gli dà voce: l’indice ne illustra, con la mimesi della rubrica medievale, il primato assoluto. Ma sotto un tale carico di responsabilità il personaggio vacilla e il meccanismo dell’intreccio spesso si inceppa. A minarne la funzione di cardine strutturale non è tanto il ritornello martellante sulla natura menzognera di ogni atto comunicativo anche se il motivo della falsità suona fastidiosamente insistente e non è neppure l’affastellamento elencatorio dell’immaginario medievale di cui il resoconto abbonda in ogni sequenza, anche nelle più intrise di intenerimento elegiaco. No, a rendere poco avvincente la lettura è, innanzitutto, l’articolazione lasca del montaggio, privo di salde coordinate di genere, a cui Baudolino, per quanto sempre in scena e in azione, non riesce a dare unità, né a imprimere una direzione di senso: la ricerca del Graal scomparso, connessa alla morte misteriosa di Federico, non regge il confronto con la detection investigativa di Guglielmo: «Tre confessioni sono troppe per un solo omicidio» (p. 502), figuriamoci se sono pure fasulle e se a esse se ne aggiunge una quarta, altrettanto balorda!
Baudolino compare in scena nelle vesti dell’eroe vendicatore, a cui l’ironia postmoderna dà un simpatico tocco di beceraggine spavalda: «E fu in quel momento che in Santa Sofia entrò Baudolino. Apparve bello come un Saladino, su un cavallo ingualdrappato, una gran croce rossa sul petto, la spada sguainata, urlando “ventrediddio, madonnalupa, mortediddio, schifosi bestemmiatori, maiali simoniaci, è questo il modo di trattare la cose di nostrosignore?”» (p. 23).
La sua figura si accampa al centro dell’universo romanzesco, occupandone ogni interstizio: concentrato di funzioni intellettuali e di ruoli attanziali, Baudolino assomma in sé furbizia contadina e sapienza diplomatica, culto dell’amicizia e cinismo ribaldo, autenticità d’affetti e inettitudine sentimentale; grazie alla sua invadenza onnipervasiva, i fatti pubblici si intrecciano agli eventi privati, la dimensione sociale si intride dei moti risposti dell’intimità domestica, l’ansia vagabonda di chi rincorre la giovinezza fa tutt’uno con la tensione utopica verso il «luogo ideale in cui ciascuno vorrebbe andare» (p. 104), ricettacolo di sogni individuali e di miti collettivi. Nella sua personalità d’eccezione trovano sintesi la nascita d’origine popolare e il dominio esercitato a corte, l’ironia demistificante del buon senso e la consapevolezza angosciosa della precarietà, la fedeltà coniugale e l’appassionamento amoroso, persino la devozione incorrotta a due padri, che più inconciliabili non potrebbero essere. A consentire un simile prodigioso amalgama è il tratto dominante del personaggio: un incontenibile estro fabulatorio, sorretto da uno strepitoso patrimonio di dottrina acquisita. Ma a dare credibilità e interesse alla rappresentazione narrativa di tempi remoti e spazi eccentrici non basta la fiducia proclamata all’inizio: «tu scopri che il mondo deve essere pieno di cose meravigliose e per conoscerle tutte, visto che la vita non ti basterà a percorrere tutta la terra, non rimane che leggere tutti i libri» (p. 73). Troppo stretto e vincolante diventa il cortocircuito fra eroe protagonista, primo narratore e autore reale per non rischiare l’autocombustione.
L’intera compagine romanzesca patisce la centralità opprimente di Baudolino. Il sistema dei personaggi è monocorde, privo di chiaroscuri: i compagni che l’affiancano nel soggiorno parigino e poi nelle peripezie d’Oriente sono appena disegnati e dopo la prima efficace entrata in scena, perdono ogni spessore di carattere. Non dissimile il trattamento delle opposte schiere familiari: se nella vicenda con l’imperatore è inscritta la storia esemplare dei rapporti fra l’intellettuale e il Potere, le relazioni di parentela naturale e acquisita non si sottraggono alle cadenze convenzionali. Gagliaudo incarna la burbera saggezza contadina; Federico è un sovrano «non stupido», capace di avvalersi degli stratagemmi ingegnosi del figlio adottivo, ma impotente davanti alla fragilità del primogenito o alla litigiosità delle città italiane; la moglie adolescente Colandrina è delineata con garbo struggente, mentre l’incontro con Ipazia è gustoso e nulla più.
Ma è soprattutto nel confronto con Niceta, fulcro del dialogo interculturale, che l’opera rivela il suo scacco più grave: se nel Nome della rosa il congegno romanzesco aveva il suo punto di forza nella coppia Guglielmo e Adso, qui la dialettica fra le due figure intellettuali non oltrepassa mai l’abile brioso piano della disputalo retorica. Lo storico bizantino assume, senza mai abbandonarla, la posa dell’ascoltatore che, per quanto curioso e intelligente, non aggiunge nulla al racconto. A differenza del rapporto fra il vecchio Maestro e il giovane pupillo che alludeva all’assillo del futuro, nella «convincente filogenesi del racconto da avo a nipote» (Pischedda), i colloqui che interrompono la rievocazione degli eventi trascorsi non dischiudono varchi prospettici o derive stranianti: si illanguidisce, fino a vanificarsi, l’energia compositiva dell’intreccio fra recupero del tempo passato e apertura agli spazi esotici. Di più e peggio: al contrario di Adso, che ormai anziano si fa cronista di una vicenda di cui è stato testimone diretto e partecipe, ora il narratore non solo ricorre all’onniscienza tradizionale della terza persona, ma non acquista mai una fisionomia precisa e riconoscibile. Che sia più bugiardo di Baudolino, come suggerisce l’epilogo, è scontato; che, al pari del protagonista, ami abitare nei mondi possibili della finzione pur nella consapevolezza della crisi epistemologica, è sicuro; che talvolta si diverta persino a confondere voci e intonazioni, fa parte del gioco; ma per quanto addestrate siano le competenze fabulatorie di Eco, la mancata individuazione dell’io narrante e della sua pratica enunciativa frastorna il lettore, che alla fine non sa con chi abbia stipulato il patto di fiducia narrativa. Se ne immiserisce il motivo, caro al semiologo, della falsità legittima e autenticante del messaggio comunicativo; si svuota, annullata nel ri-uso convenzionale del narratore esterno, la sperimentazione delle tecniche compositive del relativismo postmoderno.
Tanto più che all’opacità che caratterizza la fonte del racconto corrisponde, per contrasto, la chiarezza con cui è schizzato il profilo del destinatario ideale: l’ascoltatore Niceta ne esemplifica la personalità massimamente colta; e nella raffigurazione narcisisticamente orchestrata del dialogo a due voci si dissolve la strategia combinatoria di una scrittura pluristratificata che nel Nome della rosa aveva saputo coinvolgere e unificare, con meritato successo, le cerchie più diverse dei lettori.
Forse ha ragione l’Eco saggista: «scrivere il secondo romanzo significa appunto mostrare che si è capaci di farne più di uno. Scrivere il terzo, è come farne trenta, non ha più senso». E con il quarto, allora?