Collane di poesia che nascono, che si sviluppano, che si modificano. Con in tutte un’attenzione agli stranieri che non è nuova in Italia, ma che, a partire dagli anni Settanta, si è andata via via dilatando verso le più diverse aree culturali (dall’America alla Scandinavia, dalla Germania a Israele, dalla Serbia al Portogallo, dalla Polonia all’Irlanda) e ormai coinvolge, con un sempre maggiore incremento di titoli, editori grandi e piccoli (quest’ultimi forse più inventivi e coraggiosi) verso una stessa ricerca, che non è solo gusto del nuovo, ma bisogno effettivo di conoscenza.
Sono passati cinque anni da quando, nel 1996, l’editore Donzelli decideva di aprire con un testo di Andrea Zanzotto, Meteo, la sua collana di poesia. Scelta felice, che a uno dei nomi più significativi della poesia contemporanea (guardato con favore, anche se con qualche riserva, dai critici «tradizionalisti»; apprezzato non di meno, anche se con un po’ di sospetto, dai fautori del nuovo) affidava emblematicamente un messaggio insieme di continuità e d’apertura, confermato via via dalle successive proposte. Fra queste, il nome più prestigioso, consacrato nel 1979 dal premio Nobel, è quello di Odisseus Elitis, rappresentante a pieno diritto della «tradizione del Novecento» e nel suo muoversi dallo sperimentalismo surrealista a una sorta di classicità epica delle stesse tensioni che hanno caratterizzato il secolo ormai trascorso; il suo nome può essere indicato anche come esempio dell’apertura di questa collana, che non solo accosta nomi affermati ad altri non ancora entrati nei «canoni» periodicamente stilati in proposito, ma soprattutto si muove su un orizzonte ben più ampio di quello nazionale e che anzi, se è vero che solo quattro dei tredici autori finora pubblicati sono italiani, mostra una vocazione decisamente internazionale. Accanto agli americani Stevie Smith, Mark Strand, Tess Gallagher abbiamo il danese Henrik Nordbrandt; accanto ai tedeschi Peter Waterhouse ed Ernst Meister, l’israeliano Natan Zach e il serbo Charles Simic; nomi di tutto rispetto e da tempo riconosciuti nel panorama internazionale (a Meister, deceduto nel 1979, è stato assegnato nello stesso anno l’importante premio Bùchner), eppure pressoché ignoti al pubblico italiano, tanto che Elitis a parte e a parte Stevie Smith, non a caso narratrice prima che poetessa non li registra nemmeno la più diffusa delle enciclopedie letterarie, la «Garzantina».
Proviamo a seguire questa traccia, perché la presenza di un nome in un’enciclopedia costituisce, se non una prova, certo un indizio interessante del grado di ricezione di un autore in un determinato ambiente letterario, e la «Garzantina» può farcene avvertiti se guardiamo ai nomi che l’hanno via via arricchita nel passaggio dalla sua prima edizione (1972) a quella recente del 1997: una rapida campionatura ci permette di notare ad esempio la nuova presenza di John Ashbery, John Berryman, Sylvia Plath, William D. Snodgrass dall’area anglosassone; di Pierre Emmanuel, Philippe Jaccottet, Aimé Césaire da quella francofona; di Peter Huchel, Gustav Kunert, Rainer Kunze, Wolf Biermann, Peter Rùhmkorf, Ernst Jandl, Volker Braun da quella tedesca; minore sembra l’attenzione prestata al mondo ispanico, dove continuano a mancare autori come José Hierro e Angel Crespo, ma senza cercare oltre ci accontenteremo di notare che anche alcuni Nobel sono stati registrati solo post laureami Czeslaw Milosz (Nobel 1980) non compare prima dell’edizione 1985, anche se la sua notorietà sul piano internazionale data almeno dal 1953, quando viene pubblicato in francese il romanzo La prise du pouvoir, Derek Walcott (Nobel 1992) si afferma con la sua opera tra gli anni Sessanta e Settanta, ma compare solo nell’edizione del 1997.
A dettare o a condizionare tali «acquisizioni» sono spesso ragioni tutte interne al mercato editoriale italiano. E si può essere sicuri che figure oggettivamente rilevanti ma tuttora assenti, come è il caso dell’inglese Tony Harrison o dello spagnolo Jaime Gil de Biedma, vi compariranno prossimamente, visto che un volume tutto loro è ormai apparso in traduzione italiana (cfr. T. Harrison, V. e altre poesie, a cura di Massimo Bacigalupo; J. Gil de Biedma, Le persone del verbo, a cura di Giovanna Calabro).
Vediamo più specificamente il caso degli ultimi Nobel assegnati alla poesia, o meglio a poeti in senso stretto, quelli del 1995 all’irlandese Seamus Heaney e del 1996 alla polacca Wislawa Szymborska. Dell’uno possediamo oggi numerosi testi tradotti in italiano, sia della significativa opera saggistica, sia delle raccolte poetiche (limitiamoci a queste ultime: Station Island, a cura di Gabriella Morisco; Attraversamenti, a cura di Anthony Oldcorn; Poesie scelte, a cura di Roberto Sanesi; Una porta sul buio, a cura di Roberto Mussapi; North, a cura di Mussapi; Veder cose, a cura di Gilberto Sacerdoti; La lanterna di biancospino, a cura di Francesca Romana Paci; The Spirit Level, a cura di Mussapi). Dell’altra, Pietro Marchesani ha tradotto per Scheiwiller Gente sul ponte e La fine e l’inizio (da queste due opere Mondadori ha tratto le 25 poesie pubblicate nel 1998 nella collana «I miti poesia»); e, per Adelphi, un’ampia scelta di componimenti sotto il titolo Vista con granello di sabbia.
A parte Station Island, del 1992, si tratta di opere stampate tutte dopo il 1995. E se prima di questa data non erano mancati segni di interesse per questi due autori (L’«Almanacco dello Specchio» aveva proposto nel 1979 alcune poesie della Szymborska, e nel 1981 di Heaney; nel settembre 1992 era stato il mensile «Poesia» a ospitare testi di Heaney), bisogna pur dire che si trattava di pubblicazioni rivolte a un pubblico molto selezionato, piccola parte del già ristretto «pubblico della poesia». L’assenza dalle librerie di titoli specifici impediva di fatto un reale allargamento dei lettori, nonché una conoscenza davvero adeguata dei due poeti; anche Heaney e Szymborska sono dunque, per il pubblico italiano e fino alla data della loro premiazione, degli illustri sconosciuti: la «Garzantina» non li contempla nella sua prima edizione del 1972; nell’aggiornamento del 1985 vi è presente la Szymborska, ma Heaney vi farà la sua comparsa solo nell’edizione del 1997 (post Nobel, pour cause).
Osservazioni come queste potrebbero essere facilmente estese ad altri autori, e non solo per la poesia, soprattutto se estendessimo i sondaggi verso le letterature afroasiatiche (chi conosce, tuttora, il premio Nobel 2000, Gao Xingjian?), ma inferirne uno scarso interesse della cultura italiana per ciò che avviene oltre frontiera sarebbe riduttivo, e sbagliato nella misura in cui non si terrebbe conto, ancor più che del passato, delle tendenze in atto, della direzione che le cose hanno preso da tempo e che configurano invece un opposto e irreversibile processo.
Il Novecento ha costituito infatti per l’Italia un periodo di progressiva apertura al mondo; forzata per tanti aspetti (dobbiamo ricordare il numero dei nostri connazionali emigrati?), ma anche stimolata e cercata attraverso le difficoltà stesse del periodo: è negli anni della censura fascista che si registra uno dei momenti di più attivo confronto con le letterature straniere, e di maggiore impegno sul piano della traduzione, poetica in particolare. Volontà e bisogno di questo confronto esplodono nel dopoguerra, con la caduta del regime e soprattutto attraverso la (faticosa) conquista di un più diffuso benessere economico, che anche sulla conoscenza e sulla pratica della poesia ha precise conseguenze, a cominciare dalla pubblicazione di numerose antologie spesso arricchite dal testo a fronte, che soprattutto sul finire degli anni Cinquanta propongono un sistematico approccio alle diverse realtà culturali: «Scrivere e leggere versi ha perduto gran parte del carattere sacrale che aveva nel periodo anteguerra», annotava Franco Fortini, sottolineando i cambiamenti che si andavano registrando nei confronti delle letterature straniere e della loro influenza: «divulgazione della poesia anglosassone e americana moderna, con riscoperta o scoperta di “fonti” capitali, di ieri o di oggi, Hopkins, Pound, Frost, Williams, Cummings…, caduta della influenza di Valéry e di Rilke, larghissima lettura degli spagnoli, influenze centroeuropee e slave…» (Saggi italiani, pp. 89-90).
Gli anni Sessanta portano a compimento questo processo, soprattutto attraverso la definitiva sostituzione della lingua inglese alla francese nelle scelte preferenziali dell’ambito scolastico, in armonia con i mutati orizzonti economici e culturali di riferimento, tutti rivolti ormai oltre oceano; ma è con il decennio successivo che, sul piano della poesia, si assiste a qualcosa di davvero nuovo, sia per le dimensioni del fenomeno, sia per quanto riguarda le sue manifestazioni. Non si tratta di un fatto solo italiano; dopo il disinteresse o addirittura il rifiuto dell’estetico che si era manifestato presso il pubblico giovanile negli anni della contestazione, il fallimento o almeno il ridimensionamento di quelle istanze spinge altrove la ricerca di libertà e il bisogno di espressione dei giovani. L’immaginazione non conquista il potere e rifluisce come da tradizione sul terreno dell’arte, ma si fa spazio nel costume, occupa nuovi ambiti della vita civile e, insofferente di limiti e confini usati, si proietta soprattutto verso l’esterno, verso il mondo che, prima e più che in Italia, ha accusato gli stessi sintomi di insofferenza e lo stesso bisogno di una profonda revisione dei valori usati. Le mutate condizioni economiche hanno reso più facile viaggiare; gli incontri hanno confermato le affinità e rinnovato il bisogno del confronto e della sperimentazione. Le letture di poesia diventano, come i concerti rock e pop, e sul modello soprattutto anglosassone, luoghi di aggregazione e un ospite straniero è più che benvenuto. Il festival internazionale di Castelporziano, del 1979, è rimasto nelle cronache come il culmine di questa varia attività condotta di città in città tra tavolini di caffè, vecchi cortili o piazze famose, ma anche nel 1980 iniziative analoghe si ripetono a Roma e a Napoli; nel 1981, a Firenze in piazza della Signoria e poi a Napoli al Teatro dell’opera San Carlo, è presente Allen Ginsberg, che proprio da una pubblica lettura delle sue poesie aveva ottenuto, nel lontano 1955, la notorietà che la folla accorsa a sentirlo testimoniava non tramontata.
L’editoria sia quella «ufficiale», sia quella «spontanea» che fiorisce ovunque, appoggiata magari soltanto a piccoli stampatori risponde a questa fiammata di entusiasmo con un incremento dei titoli di poesia, con ampia attenzione sia alle voci nuove che al panorama straniero; Guanda mette a punto, con i «Quaderni della Fenice», la pubblicazione addirittura mensile di una serie notevolissima di autori (fra gli stranieri citeremo, seguendo l’ordine di apparizione, Mandel’stam, Garcìa Lorca, Ritsos, Apollinaire, Esenin, Kerouac, Ady, Ginsberg, Hesse, Gunn, Elitis, Genet), nonché, tra il 1980 e il 1981, la serie programmaticamente aperta al duplice versante italiano e straniero Poesia 1, Poesia 2, Poesia 3, volumi antologici intesi a «fornire ai lettori un continuo, agile, puntuale aggiornamento e una vasta e articolata documentazione sulla ricerca poetica di ieri e di oggi». Appunto Poesia 2 offriva una serie di testi stranieri che andavano da Machado e Sinadino a Bataille, Bousquet, Bunting, Holan, Williams, fino a un gruppo di cinque contemporanei olandesi: J. Bernlef, H. Faverey, J. Hamelink, G. Kouwenaar, H. C. ten Berge; la programmata continuità purtroppo non poté darsi, perché la crisi che era già andata manifestandosi nel settore editoriale non poteva infine che influire negativamente su un mercato necessariamente ristretto quale quello della scrittura in versi. Fatica a tenere il passo anche l’«Almanacco dello Specchio», il prestigioso osservatorio mondadoriano a cura di Marco Forti, che già nel 1972, uscendo con il primo numero, si era proposto di «testimoniare il lavoro della poesia contemporanea» nella consapevolezza che il suo linguaggio era «veramente diventato internazionale»: il numero del 1981 è l’ultimo a rispettare la cadenza annuale della pubblicazione, che uscirà ancora nel 1983, 1986, 1989 per concludersi dopo un più lungo stacco di tempo nel 1993. Impossibile ripercorrere i molteplici itinerari che, tra passato e presente, sul piano saggistico e su quello della presentazione dei testi, vengono tracciati in questo ventennio di attività; anche se, in molti casi, l’«Almanacco» si limita ad anticipare ciò che i volumi dello «Specchio» offriranno poi in forma più organica, la posizione mondadoriana di leader nel campo della poesia gli consente di offrire materiali di grande interesse e qualità. Vi alluderemo semplicemente attraverso la citazione dei nomi di Octavio Paz, Yves Bonnefoy, Ted Hughes, Josif Brodskij, Jorge Luis Borges, Paul Celan, Sylvia Plath, senza dimenticare le «cronache» più militanti sulla «Scuola di New York» (1973), sui poeti messicani (1976), cubani (1978), polacchi (1979) e perfino, con un’etichetta che oggi farebbe forse sussultare gli antologizzati, «padani»: ma era il 1978, tempi «non sospetti» come si dice, ed escluderemo intenti profetici.
Gli anni Ottanta sono comunque di assestamento e riconsiderazione rispetto al fervore precedente e segnano l’uscita di scena di collane e di editori che pure si erano generosamente spesi sul fronte della poesia. Senza considerare i piccoli e magari i minimi, del resto continuamente soggetti a eclissi e resurrezioni, ricorderemo come Feltrinelli chiuda nel 1982 la sua collana «sperimentale» (fra gli ultimi titoli pubblicati, V. Magrelli, Ora serrata retinae, 1980; B. Frabotta, Il rumore bianco, 1982; E. Sanguineo, Segnalibro, 1982), e come Guanda sia costretto a un ridimensionamento che lo porterà via via a perdere la fisionomia di «editore di poesia» che l’aveva contraddistinto fin dall’immediato dopoguerra (alla cadenza mensile delle pubblicazioni ricordata prima, fa attualmente riscontro quella non più che annuale di poeti stranieri nella collana della «Fenice contemporanea»; fra gli ultimi apparsi il siriano Adonis, Memoria del verbo, a cura di Valentina Colombo, 1998, la cilena Carmen Jànez, Paesaggio di luna fredda, a cura di Roberta Bovaia, 1998, e il già citato Heaney).
Per altro, e con una contraddizione che il moderno andamento dei mercati sa bene soltanto parziale, è nello stesso periodo che nuove sigle editoriali fanno invece la loro comparsa: è del 1981 la fondazione di Crocetti, i cui bianchi ed eleganti volumetti (fra i primi stranieri pubblicati Ritsos, Aragon, Seifert, Kavafis, Dickinson) continuano ancora oggi a proporre, accanto ad autori ormai classici come Whitman, Machado, Rilke, Valéry, figure tutte da scoprire, come l’israeliano Yehuda Amichai, l’austriaco Alfred Kolleritsch, il boliviano (non più in vita, per altro) Jaime Saenz e, dalla Grecia, Kiki Dimulà e Antonis Fostieris.
Nel 1988, Crocetti lancia addirittura un rotocalco mensile dal titolo «Poesia», una vera scommessa per il mercato italiano, e giunta ormai oltre il 150° numero. Fra i caratteri che ne costituiscono l’indubbia vitalità vogliamo qui sottolineare proprio l’attenzione alla produzione straniera, sia per quanto riguarda nuove traduzioni di poeti noti, sia per ciò che attiene al lavoro dei contemporanei: su quest’ultimo piano segnaliamo Clara Janés, Enis Batur, John Ashbery, Tahar Ben Jelloun, Michel Deguy, Friederike Mayrócker, Zbigniew Herbert, Philippe Jaccottet, Pedro Gimferrer, Cees Nooteboom, nonché i frequenti interventi sulla poesia orientale e le recenti panoramiche dedicate ai giovani poeti inglesi (settembre 1997) e russi (maggio 1999).
Un altro piccolo editore nato nel 1981 e che va cementando ultimamente alcune scelte che lo qualificano sul piano della poesia, e della poesia straniera in particolare, è Marcos y Marcos. Sua è la prima traduzione in Italia delle poesie di Kenneth Rexroth (Su quale pianeta, a cura di Flavio Santi, 1999), mentre le Arie di Philippe Jaccottet sono apparse l’anno scorso nella traduzione di Albino Crovetto; ma è soprattutto con la promozione della rivista «Testo a fronte» (già di Crocetti e prima ancora di Guerini e Associati) che il suo impegno è apparso riconoscibile, sia per l’inequivoco profilo della rivista, che del problema del tradurre ha fatto il suo oggetto principale di riflessione, sia dal punto di vista teoretico nonché da quello pratico e analitico, sia per la serie di testi («I testi di Testo a fronte») che ne procedono a frequenza ravvicinata, e che in particolare hanno visto la messa a punto di una serie di antologie dedicate alla poesia contemporanea inglese (a cura di Edoardo Zuccato, 1997), austriaca (a cura di Luigi Reitani, 1999), francese (a cura di Fabio Pusterla, 2000).
A Firenze, due editori che annoverano ormai un ricco catalogo di poeti stranieri sono Passigli e Le Lettere, anche se si tratta soprattutto di autori ben noti, magari originalmente rivisitati (Le Lettere ha pubblicato l’anno scorso con il titolo Il ragazzo, ad esempio, un poemetto della Cvetaeva inedito in Italia). L’uno e l’altro editore stanno riproponendo importanti traduzioni del nostro Novecento (ricordiamo quelle di Leone Traverso), e contribuiscono così alla salvaguardia di un patrimonio ormai storico; del primo citeremo la riedizione del Fiore del verso russo di Renato Poggioli, mentre il secondo ha ripreso nel 1997 sotto il titolo Lirica spagnola del Novecento gran parte del lavoro di Francesco Tentori Montalto.
Più tese alla contemporaneità (ma, si sa, ogni traduzione ripropone in fondo come «contemporaneo» l’autore di cui si occupa) altre sigle editoriali. Limitiamoci a qualche titolo, in ordine sparso, che vuole solo suggerire l’ampiezza del ventaglio di proposte: R. Carver, Blu Oltremare) R. Me Gough, Sconfiggere la gravità-, E. Evtusenko, Arrivederci bandiera rossa-, B. Noèl, Il rumore dell’aria-, K. Takano, Inanima dell’acqua-, N. Sop, Mentre i cosmi appassiscono-, M. Oppenheim, Poesie e disegni-, A. M. Navales, Quel lungo albeggiare-, Sapphire, Sogni americani-, C. Wright, Crepuscolo americano.
Citeremo anche le interessanti proposte della Fondazione Piazzolla di Roma, che in una collana denominata «Percorsi della poesia contemporanea» ha pubblicato nel 1994 Jaccottet (Appunti per una semina, a cura di Antonella Anedda) e nel 1996 Milosz (La fodera del mondo, a cura di Valeria Rossella); l’ultimo titolo è della bulgara Blaga Dimitrova (Segnali, a cura di Valeria Sabrini). Quanto alla neonata collana «inVersi» di Bompiani, vi è appena apparso uno dei poeti francesi «di punta», Michel Houellebecq (Il senso della lotta, a cura di Anna Maria Lorusso).
L’«inventività» dei piccoli editori, la loro ricerca del nuovo e del diverso va comunque annoverata fra gli elementi positivi dell’ultimo ventennio letterario; e se questa ricerca è stata spesso «rapsodica», o se al coraggio del lavoro di scandaglio non ha sempre corrisposto un’adeguata cura dei testi e delle traduzioni, può essere comunque apprezzato il clima di curiosità che si è stabilito, e la fecondità di un confronto fatto ormai continuo. Quanto agli editori «grandi», si sarebbe tentati di distinguerne le scelte interpretandole in grazia di una forza economica che consente loro di affrontare con altra libertà il problema dei diritti di pubblicazione; ma in realtà il panorama è anche in questo caso molto vario, né vi sembra preponderante, contrariamente a quanto si dà nella narrativa, la presenza della cultura angloamericana. Del resto, anche i grandi hanno attraversato fasi alterne, e la loro fisionomia è mutata di conseguenza. La prestigiosa collana mondadoriana dello «Specchio», già ricordata, non è più quella cui tutti i nostri poeti hanno aspirato nel dopoguerra e che nel campo della poesia straniera ha dato spazio a voci come quelle di Hikmet, Arghezi, Kavafis, Pound, Huchel, Bobrovski, Char, Auden, Celan; tuttavia, come se visto, vi sono apparse diverse opere di Heaney, e la nuovissima serie, appena varata, ci propone un titolo di Bernard Noèl, Estratti del corpo, nella traduzione di Donatella Bisutti.
Più vivace la serie «Poesia del ‘900» che negli «Oscar» riprende alcune glorie della collana maggiore e altre ne propone magari in nuove traduzioni; come il Valéry del Cimitero marino curato da Patrizia Valduga, o il Pasternak di Mia sorella la vita che era già apparso nelle Edizioni Leonardo curato da Nadia Cicognini. Vi si trovano Cvetaeva, Williams, Hemingway, Frénaud, Alberti, Plath, Aragon, Bachmann, Hughes, Borges e vari altri, tutti con testo a fronte e a un prezzo più che accettabile.
Caute ma significative presenze straniere nelle scelte delle collane Garzanti: dagli Stati Uniti, Wallace Stevens tradotto da Nadia Fusini (Aurore d’autunno, 1992); dalla Turchia, Enis Batur tradotto da Isil Saatgioglu (Imago mundi, 1994); dall’Inghilterra, Charles Tomlinson (In Italia, 1995); dal Canada, Michael Ondaatje tradotto da Laura Noulian (Manoscritto, 1999). Più fitto e costante l’incremento che da varie lingue e culture giunge alla «bianca» di Einaudi, si tratti di «recuperi» come (mi limito ai più recenti) Mandel’stam e Baratynskij, o degli inediti celaniani ottimamente tradotti da Michele Ranchetti (ora, arricchiti, anche in edizione «maggiore»: Sotto il tiro di presagi, 2001), o di veri e propri contemporanei, come il già citato Tony Harrison, come Durs Griinbein (A metà partita, a cura di Anna Maria Carpi, 1999), come Yves Bonnefoy (Quel che fu senza luce. Inizio e fine della neve, & cura di Davide Bracaglia, 2001), magari raccolti attraverso organiche antologie: le ultime sono quelle di Anna Chiarloni dedicata ai Nuovi poeti tedeschi (1994) e di Claudia Pozzana e Alessandro Russo sui Nuovi poeti cinesi ( 1995 ).
Un osservatorio di questo stato di cose è dal 1995 l’annuario «Poesia», diretto da Giorgio Manacorda e pubblicato da un altro piccolo editore, il romano Castelvecchi. E anzitutto alla poesia italiana che si guarda, ma la rubrica dedicata alle traduzioni, presente fin dal primo numero, è andata via via rafforzandosi e arricchendosi di testi e interventi saggistici che ne costituiscono ormai parte essenziale; l’ultimo numero, «Poesia 2000», pubblica con il testo originale a fronte un cospicuo numero di testi di Bei Dao, e una scelta da tutto il mondo di versi nati all’ombra delle persecuzioni politiche. Un panorama a largo raggio, sebbene limitato alla cultura occidentale, è infine offerto da due volumi recentemente pubblicati dall’editore Skira di concerto con la Banca Popolare di Milano: Poesia europea del Novecento (1900-1945), e Poesia delle Americhe, entrambi a cura di Piero Gelli (1996 e 1997). I criteri di omogeneità, sul piano delle scelte e dei paesi rappresentati, non appaiono sempre chiari, ma non mancano buone traduzioni e ricchi apparati biobibliografici. Non resta che leggere.