Editoria scientifica e Dio: così si potrebbe semplificare il dibattito sugli organismi geneticamente modificati. Nel 2000, anno giubilare, successo hanno infatti riscosso i testi su scienza e religione, soprattutto tra il pubblico anglosassone. Un pubblico, rispetto a quello italiano, con un più spiccato interesse per la spiritualità e capace di discutere in pubblico faccende che riguardano la vita privata: non è un caso che la mappa del genoma umano non sia apparsa su una rivista specializzata, ma proclamata urbi et orbi in una conferenza stampa organizzata alla Casa Bianca da Clinton con Blair in videoconferenza da Londra.
Nell’ultimo anno, i due protagonisti dell’editoria scientifica sono stati gli organismi geneticamente modificati e Dio. Non si trovano per forza negli stessi libri, anche se un rapporto c’è sempre. È il cosiddetto teorema di Carlo d’Inghilterra: il principe ha dichiarato che rimescolare i geni degli organismi non va bene perché significa usurpare il ruolo di Dio. Con rare eccezioni, gli autori che citeremo la pensano come lui. Sono convinti che «in natura» c’è una Forza che avvolge ogni organismo, dal virus all’elefante e dalla nascita alla morte, lo protegge dall’invasione del Dna (o Rna) altrui e gli vieta di mischiare il proprio con chiunque non sia della stessa razza. Questa ideologia creazionista (e razzista) nega subdolamente l’evoluzione darwiniana e si ritrova anche fra i laici di sinistra, generosi e terzomondisti. I miscredenti, quelli che hanno visto in provetta o in giardino virus, fagi o batteri iniettare allegramente a piante e bestie pezzi di geni propri o di quelli presi a prestito da altre piante o bestie, si sentono emarginati. Con ciò, non è detto che gli organismi geneticamente modificati facciano bene. Né che facciano più danni di quelli ottenuti con l’agricoltura chimica, cresciuti a prodotti chimici cancerogeni e distruttivi dell’ambiente. Negli Stati Uniti, riflettono l’affarismo cieco e sordo delle corporations già denunciate nel 1962 da Rachel Carson in Primavera silenziosa (ristampato da Feltrinelli, meno male) a proposito dell’abuso di DDT e di altri pesticidi.
In Italia, il raccolto di «frankencibi» è stato più abbondante nelle librerie che nei campi. A partire dal gennaio 2000 ci sono arrivati: un bigino ben fatto e non ideologico di Luca Carra e Fabio Terragni, Il futuro del cibo, gli alimenti transgenici; seguito da Osservazioni sull’agricoltura geneticamente modificata e sulla degradazione delle specie, a cura dell’«Encyclopédie des nuisances», una brillante analisi dell’economicismo corrente. Sul versante scientifico, è meno aggiornato. Gli autori danno per scontato che una specie sia qualcosa di oggettivamente definito e non una categoria dai contorni sfumati e dai contenuti discutibili, alla quale i naturalisti diedero un nome di comodo e spesso fuorviante, ad esempio Homo sapiens, pur di raccapezzarsi nel caos della diversità. Da qualche tempo perfino i biologi, così rozzi e digiuni di filosofia, poverini, si sono accorti che tra phoné e lekton ce ne corre e, come Antistene, vedono «il cavallo ma non la cavallinità».
Sul lato apocalittico, invece, citiamo Jean-Marie Pelt, L’orto di Frankenstein, e la triade Daniel Ramon, I geni che mangiamo, Valeria Mangani e Adolfo Panfili, OGM e clonazione: la bomba nel piatto, clonato due mesi dopo da Mariella Bussolati e Sabina Morandi, Il gene nel piatto. Gli ultimi titoli suscitano una curiosità: prima, verdure e carni erano prive di geni oppure questi erano sputati come i noccioli delle ciliegie? A dispetto dei rischi di indigestione, mentre scriviamo sono annunciati altri tre testi italiani di cui uno di Edoardo Boncinelli. Il noto genetista lavora presso l’opera pia di Don Verzè, la Fondazione San Raffaele di Milano, e ha già inserito l’Onnipotente in un libro sul cervello umano. Speriamo che i sentimenti repubblicani e la preparazione scientifica gli impediscano di accodarsi al principe d’Inghilterra.
Nessuno dei testi citati contiene una riga sui ricercatori del Terzo Mondo che stanno studiando cibi transgenici per sfamare e curare i propri concittadini, sostenuti dalle «banche dei poveri» e associazioni umanitarie non a scopo di lucro. Nella globalizzazione che tutti gli autori deplorano, si capisce che Cuba, Kenya e Senegal li facciano ridere, ma India, Cina e Brasile rappresentano un terzo dell’umanità e hanno governi irrispettosi dell’ambiente. Chissà perché non contano? Se non ci fosse di mezzo il Brasile, si potrebbe dire che sono paesi di miscredenti, dove la reincarnazione in specie diverse dall’Homo sapiens non è esclusa e nemmeno l’unità strabiliante dei viventi, fatti con la stessa farina, come la pasta, e tutti diversi.
Rimaniamo nella tradizione giudeo-cristiana e passiamo al secondo protagonista. Essendo il 2000 anno di Giubileo anche per gli scienziati, il cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificium Consilium de Cultura, li ha invitati in maggio al congresso internazionale su L’umana ricerca della verità. Filosofia, scienza, fede: la prospettiva per il terzo millennio. Lo stesso cardinale aveva fatto precedere la lettera d’invito da una conferenza stampa in cui accusava i futuri ospiti di arroganza perché non si curano del bene comune, di disonestà perché rubano le idee ai colleghi e di altri peccati per i quali urgeva un pentimento pubblico in Vaticano. li Pontefice avrebbe assolto i convenuti purché promettessero di non farlo più e avrebbe ricambiato la cortesia ammettendo alcuni fraintendimenti passati. Quanto al congresso, diversamente dai seminari organizzati d’estate in Vaticano in cui si discutono questioni fondamentali grazie anche alla presenza dell’astrofisico nonché gesuita Padre Coyne, responsabile della Specola vaticana, sembrava obsoleto. Infatti, è da mo’ che gli scienziati usano la parola verità con le virgolette e se hanno bisogno di una prospettiva millenaria, la fanno fare al computer. Quindi hanno declinato l’invito in massa. Meno male che era rimasta l’editoria.
Stranamente, in quella non confessionale il pioniere del connubio tra scienza e fede è stato il filosofo Giulio Giorello che ritenevamo un laico. Nella sua collana per Raffaello Cortina, hanno detto la propria l’ex ministro francese per la ricerca Claude Allègre (Dio e l’impresa scientifica), la Decima cattedra dei non credenti sotto l’egida del cardinale Carlo Maria Martini ( Orizzonti e limiti della scienza), il fisico e pastore anglicano John Polkinghome (Credere in Dio nell’età della scienza). Polkinghome è fra i più attivi fautori di una riconciliazione tra cosmologia e Bibbia. E anche fra i più intelligenti e Gerald Schroeder ne riprende gli argomenti in Genesi e Big Bang: «i capitoli di apertura del libro della Genesi e le scoperte della moderna cosmologia si sostengono a vicenda anziché smentirsi». A questi e simili autori americani e inglesi, si è ispirato il fisico Antonio Zichichi in Perché io credo in Colui che ha /atto il mondo. Diversamente dai concorrenti, in sei mesi il libro ha avuto 12 edizioni e venduto circa 30.000 copie. Che il tema del cardinale Poupard non sia così obsoleto, dopotutto?
Il successo potrebbe esser dovuto agli avanzi dell’ansia millenarista, rimasta disoccupata dopo il superamento del bug del 2000 grazie ai miliardi spesi per lo spurgo dei sistemi informatici. Alla proclamazione del (quasi) completamento della mappa di tutti i geni umani per cui il fango servito per fare il primo uomo risulta in realtà acido desossiribonucleico. Alla conferma che era presente acqua sul suolo di Marte (forse) di recente per cui, in teoria, forme di vita marziana sono più plausibili e sfuma la divina unicità del nostro pianeta. A queste e a notizie simili nelle quali il magistero della scienza sconfina in quello della Chiesa con sgradevoli sovrapposizioni foriere di conflitti, per dirla con Stephen Jay Gould in Rocks of Age, Science and Religion in the Fullness of Life, di prossima traduzione.
Questi conflitti, come la Coca Cola e gli organismi transgenici, sono endemici negli Stati Uniti dove l’industria editoriale del «non c’è più religione, dove andremo a finire, signora mia?» è ricca, varia e accogliente verso gli oriundi. Oltre agli addetti alla ricerca fondamentale su che cosa ci fosse mai prima del Big Bang, à la Stephen Hawking, o sulla comparsa delle molecole complesse precorritrici della materia vivente à la Christian De Duve, adesso si buttano nella mischia anche gli addetti alle scienze applicate. Dicono che sommandosi, ingegneria genetica, robotica, nanotecnologia e i discendenti del lento e goffo Internet attuale ci consegneranno entro una o due generazioni a robot pensanti e autoreplicanti. Questi si sostituiranno all’Homo sapiens et faber, relegandoci a specie ornamentale tipo orchidea (rimandiamo per un’ampia bibliografia all’articolo di Bill Joy, direttore scientifico della Sun Microsystems, sulla rivista «Wired», aprile 2000, Why the Future Doesn’t Need Us – Perché il futuro non ha bisogno di noi). Oppure dicono che l’inquinamento da consumi di energia sporca e l’esaurimento delle risorse spingerà i più avventurosi a mollare gli ormeggi e a colonizzare altri pianeti dando luogo a un secondo ramo dell’umanità, selezionata per adattarsi a luoghi in cui un terricolo non sopravvivrebbe. Come nei libri italiani sugli organismi transgenici, ma con la prospettiva millenaria richiesta dal cardinale Poupard, sottolineano che è inevitabile l’effetto boomerang, o l’hybris. Nessuna novità, le creature sfuggono da sempre al controllo del creatore e si riproducono senza chiedere il permesso, da figlioli ingrati o da femmine peccaminose. In una società multietnica dove però gli intellettuali sono quasi tutti bianchi e giudeo-cristiani, se scappa il Golem ci si rivolge alla religione in tutte le sue varianti.
Roald Hoffmann, chimico e professore all’università Curnell, Ythaca (N.Y), nonché Nobel nel 1981, è uno scienziato americano di origine polacca, divulgatore e poeta con tre raccolte di versi già pubblicate e due in preparazione e insieme a Carl Djerassi della commedia Oxygen, e da Mondadori sta per uscire un suo saggio scritto con una teologa israeliana. Non si colloca nell’attuale boom editoriale su scienza e religione, ma lo osserva da tempo cercandone le ragioni. Ci manda questi appunti: «Effettivamente c’è stata un’ondata di libri il cui successo può sembrare curioso agli europei, come d’altronde sembrano curiosi molti atteggiamenti religiosi nella sfera pubblica americana, basti pensare al ben palesato andare in chiesa di Al Gore e di George Bush Jr, o alle battaglie per legittimare l’insegnamento del creazionismo nelle scuole. Se il 70% degli americani crede in una creazione divina e non nell’evoluzione darwiniana (dubito però che questi rappresentino il 70% del pubblico che legge) è logico aspettarsi che compri libri che, attorno alla cosmologia per esempio, lasciano posto per storie di intervento, se non proprio divino, almeno compatibile con una credenza religiosa. E tra l’altro sono credenti anche bravi divulgatori oltre che bravi scienziati, come lo stesso Polkinghome.
Altri motivi contribuiscono al successo di questi libri anche fra i lettori istruiti: esiste uno spiccato interesse per la spiritualità. Dai tempi degli hippy e del musical Aquarius, due generazioni prendono sul serio le medicine alternative, la cucina vegana o il buddismo: come Richard Gere, Bill Joy di Sun microsystems cerca ispirazione nel Dalai Lama. Nella comunione con il linguaggio Java [di cui è l’ideatore, ndr] deve mancargli qualcosa che forse trova nell’incontro tra scienza e religione.
Non penso che gli europei siano meno sensibili all’atmosfera di un mondo in cui la meditazione e gli oroscopi contano. Ci sono gruppi di Hare Krishna ovunque, vegetariani anche in Italia, il movimento per i diritti degli animali e quello della deep ecology sono più saldi in Gran Bretagna che da noi. Ma il terreno è in qualche modo più fertile negli Stati Uniti.
Un’altra ragione è il multiculturalismo della produzione intellettuale statunitense, esemplificato dalla disponibilità a una discussione, impensabile poco più di un secolo fa, tra i poli opposti di scienza e religione, due prospettive sul mondo di grande valore. Insieme a Shiva Leibowitz Schmidt, ho scritto, a partire da quello che chiamerei un multiculturalismo interiore, Old Wine, Flasks New su certi aspetti della scienza e della tradizione religiosa ebraica. In esso, tratto di vicende quotidiane – quello che è considerato naturale, la purezza di date sostanze o l’interpretazione di un cartello per il parcheggio – e di come vengano esaminate dal punto di vista religioso e da quello scientifico. Almeno per me, se non per la mia coautrice, il libro nasce da domande come questa: “Che cosa c’è in una bottiglia di Coca Cola? li rabbino di Atlanta si era chiesto se la Coca Cola fosse kosher; come mai se ne era preoccupato e come ha deciso se lo era oppure no? “ (Come poi risultò, il rabbino aveva motivi per preoccuparsi: la bevanda conteneva una parte per mille di grasso di maiale e la decisione di aggiungere quell’ingrediente era stata deliberata) .
I finanziamenti privati possono essere determinanti. Così come negli anni Novanta George Soros ha davvero aiutato la scienza russa e, prima di lui, Howard Hughes la ricerca medica, la Fondazione Templeton sta patrocinando in maniera decisiva gli studi su scienza e religione e il libro di Polkinghorne citato prima è l’esito di una serie di conferenze molto ben retribuite. Le idee del signor Templeton sono assai strane, ma la munificenza della sua fondazione non è mai stata imbrigliata da un’agenda. Da qui la ragguardevole differenza tra questo e precedenti tentativi di adescare gli scienziati da parte della chiesa del reverendo Moon o del movimento Scientology, i quali solo occasionalmente hanno catturato e convertito qualcuno di noi. Ma il sostegno della Fondazione Templeton, i fondi che assegna a singole persone per creare corsi universitari su scienza e religione, o a premi, conferenze e centri di studio, è stato incondizionato e non programmatico. E anche relativamente facile da ottenere. Penso che abbia alimentato il mercato librario.
Infine gli americani, forse per ingenuità, amano mettere in pubblico faccende che per gli europei sono private: credenze, sessualità, patrimonio. Che questo li renda più simpatici o meno, lascio giudicare ai lettori».
Non sappiamo se il continuo innesto di traduzioni dall’americano convinceranno altri Zichichi a mettere in pubblico la propria (ir)religione. Finito l’anno del giubileo, potrebbe essere più pressante per gli scienziati, italiani o meno, riflettere sulla propria dipendenza da potenze più mondane. Su questa non si dilungano, eppure nel 2000 è stata messa in scena in maniera spettacolare: la mappa del genoma umano è uscita non su una rivista scientifica come usa, ma proclamata urbi et orbi in una conferenza stampa organizzata alla Casa Bianca da Bill Clinton con Tony Blair in videoconferenza da Londra. A fare da pendant ai governanti, c’erano il rappresentante della genetica finanziata con soldi pubblici, Francis Collins, e quello della genetica finanziata con soldi privati, Craig Venter. E i mezzi di comunicazione hanno ripreso e sbandierato sotto il naso di alcuni miliardi di spettatori l’unione di scienza, politica e finanza. Il potere religioso non era stato invitato alle celebrazioni, nemmeno in videoconferenza.
Un’ultima nota. In Italia finora i testi creazionisti sono stati marginali o di fiction, e lo scontro su scuole statali e cattoliche ruota sui dané, per dirla con il governo della Regione Lombardia. Perciò, come il pesce al quale hanno regalato un ombrello e Pietro Corsi nella recensione sul supplemento domenicale del «Sole 24 Ore», non sappiamo cosa fare della versione italiana di Hans-Joachim Zillmer, L’errore di Darwin . «Chiudete il libro e vi chiedete come un editore serio qual è Piemme abbia potuto pubblicare un simile trattatello fondamentalista», scriveva Corsi, invitando i lettori alle ipotesi (che egli sornione non faceva) . Ne abbiamo parecchie. In base alla teoria evoluzionista, Casale Monferrato potrebbe essere il nostro arcipelago delle Galapagos e ospitare specie editoriali costrette dall’habitat isolato e ostile a un’evoluzione diversa, sulla quale ad esempio non ha influito il riconoscimento della fondatezza del darwinismo da parte del Vaticano. In base alla teoria diciamo così della concimazione avanzata da Roald Hoffmann, la traduzione sarebbe stata favorita da un lauto finanziamento dell’Istituto statunitense per le ricerche sulla Creazione. Saltiamo altre ipotesi, ancora meno pubblicabili e veniamo a una più gentile: in base alla teoria epidemiologica, la comica inettitudine del libro fungerebbe da vaccino. Purtroppo, esiste una teoria memetica, quella di Richard Dawkins et al. sull’esistenza di memi, ovvero unità di informazione che si replicano nelle menti umane che popolano l’ambiente culturale come i geni negli organismi che popolano l’ambiente naturale. Dawkins ritiene che i memi religiosi siano tra i più virulenti.