Se è vero che lo spazio è un’entità inscindibile dal tempo, è evidente che il racconto dei luoghi è allo stesso tempo racconto degli eventi, di ciò che è stato e non è più, e di ciò che non è più riconoscibile o recuperabile neppure attraverso la memoria. E così per gli scrittori più maturi raccontare un luogo significa spesso raccontare la propria storia, quella della propria famiglia e persino della propria terra.
Mentre per i giovani i luoghi e gli ambienti del passato riemergono come sfondo di altre storie che niente hanno a che fare con la loro vita.
La citazione che segue era forse evitabile; anzi sarebbe stato meglio evitarla (tanto più che, in questo Tirature, se ne serve anche Luca Clerici). La tentazione di trascriverla è tuttavia forte: «I luoghi che abbiamo conosciuto non appartengono solo al mondo dello spazio dove per semplicità li collochiamo. Essi non erano che una parte esigua del complesso di sensazioni confinanti che formavano la nostra vita d’allora; il ricordo d’una certa immagine non è che il rimpianto d’un certo istante; e le case, le strade, i viali sono, ahimè, fugaci come gli anni».
Nelle parole con cui si chiude il primo volume della Recherche di Proust è inscritta la chiave di lettura di molte delle pagine che raccontano i luoghi che non ci sono più. Lo spazio non può essere scisso dal tempo, e, nel racconto dei luoghi, è inscritto il racconto degli eventi che da quei luoghi non possono essere separati. A partire da questa primissima osservazione, si può tentare di allestire una breve lista di casi tratti dalla produzione dell’ultimo decennio-quindicennio (naturalmente, pleonastico il sottolinearlo, senza alcuna pretesa tassonomica).
Sicuramente va inscritto in questa lista il grande recupero memoriale condotto da Luigi Meneghello su Malo e dintorni. Avviato con i libri degli anni Sessanta, da Libera nos a malo a I piccoli maestri a Fiori italiani, conosciuti però dal pubblico più vasto solo con le edizioni economiche (negli «Oscar Oro») della seconda metà degli anni Ottanta, questo recupero è poi proseguito con Bau-sète e con Il dispatrio. In tutti i libri di Meneghello la rivisitazione dei luoghi si accompagna a un continuo scambio linguistico – per dirla schematicamente: da un lato, forme dialettali o di italiano regionalizzato ripescate nel passato, dall’altro la lingua del presente, colta e comunque sempre di registro alto – che è continuo scambio di punti di vista: il racconto di ciò che era è riletto esplicitamente con la consapevolezza di ciò che è.
L’imperfetto di Meneghello (come sempre con questo verbo, principe della funzione narrativa: ce lo ricorda Tempus di Harald Weinrich) dà risalto al racconto, che si svolge allineando, soprattutto in Bau-sète (Il dispatrio richiama i primi momenti del soggiorno in Inghilterra), incontri politici e amorosi, resi possibili dall’esistenza dei luoghi che li favorivano: le piazze dei comizi, le strade dove correre in moto, i posti delle gite dove portare le amiche, e finanche la casa del Professore dove «celebrare la fine degli anni di guerra», con l’emblematico (per molte famiglie italiane) «tinello» che «serviva da stanza da pranzo», nel quale «ardeva la lampada dal piatto di porcellana, e la tovaglia sulla tavola faceva un laghetto bianco». In Bau-sète, tuttavia, si intravede già la tensione per luoghi cercati e non trovati: «il senso di [ .. . ] vagabondare, di percorrere spazio, diretti in qualche parte che forse non c’è … ».
La scrittura del passato di Meneghello potrebbe, metaforicamente, essere spiegata con la gita sull’Altipiano raccontata in Bau-sète: «eravamo andati in Altipiano non si sa se per ritrovare le cose di lassù, o per separarci da loro, !asciarle per sempre». Si potrebbe anche ricorrere a un’altra annotazione dello stesso libro: «Frammenti alla rinfusa, da una parte: dall’altra l’impressione ricorrente che ci siano dei tratti generali. Riguardano sia le nostre percezioni di allora, il modo in cui sentivamo le cose, sia il modo in cui le vediamo oggi». I luoghi di un tempo non ci sono più, o comunque, se anche ci sono ancora, chi li guarda non può più farlo come una volta. Lo conferma un’emblematica pagina di Raffaele La Capria, da Capri e non più Capri: «Ogni volta che salgo per questa via di Sopramonte non posso fare a meno di ricordare quando venivo da queste parti per raggiungere una casa che rimane nella mia memoria come un sogno. L’ho cercata tante volte senza ritrovarla, e quella che ho ritrovato – che è probabilmente proprio la stessa dove ho abitato – mi è parsa talmente diversa, perché completamente in rovina, che non l’ho più riconosciuta, e non ho potuto connetterla con la casa del mio ricordo. Forse avviene così anche del nostro passato, tra le cui rovine tutto diventa irriconoscibile».
Il commento lascia il posto a una considerazione più generale: «Non c’era più il luogo che avevo lasciato, non era più possibile il ritorno. E questo luogo in cui ora io mi trovo è un luogo che non riconosco».
Sulla linea qui descritta si attraversa il passato movendo dal presente – dalla sua percezione – e sempre al presente si torna. In questi casi il pronome «io» è ben presente: il narratore non esita a filtrare tutto attraverso il proprio sguardo, la propria cultura (soprattutto in Capri e non più Capri, nelle cui pagine i luoghi che non ci sono più sono anche quelli dei quali è ricca la storia dell’isola, a tratti qui ripercorsa) , e, in Meneghello più di ogni altro, la propria voce.
Un altro ambito di racconti è invece quello dei luoghi del passato che si inseriscono come comprimari e a volte come veri protagonisti nello sviluppo di un intreccio, occupando, peraltro, il proscenio del titolo.
È il caso del romanzo La casa del padre di Giorgio Montefoschi, nel quale tornano più volte le esperienze di perdita e di ritrovamento di un luogo del passato: la casa di un quartiere residenziale di Roma, dove in due riprese, nell’infanzia e nella giovinezza, ha abitato l’io narrante della prima parte, Pietro Belel. Pietro ricorda, a distanza di anni, la villetta di via Adelaide Ristori, luogo di sensazioni infantili, di sofferenze, di turbamenti, di gioie per i primi amori. Sullo sfondo la stessa Roma, rivista nella grazia di allora, assume sottilmente l’aspetto di luogo perduto. «Apprensivo, nostalgico, disponibile a credere in un evento che, presto, sarebbe accaduto», Pietro, quando, ventenne, torna ad abitare nella casa dell’infanzia, si accorge subito che ogni recupero è impossibile, perché comunque è il tempo trascorso a segnare i luoghi: «guardavo il soffitto, lo stucco che riconoscevo, la persiana che riconoscevo, il nuovo interruttore, le pareti ridipinte di bianco: ma il passato restava sulla soglia. Un’epoca era finita per sempre». Ogni strappo (rappresentato dall’idea del trasloco con la quale si apre il libro) chiude «un’epoca» e ne apre un’altra, e così non si è mai gli stessi anche se si è negli stessi luoghi lasciati e ritrovati. Nella seconda parte del romanzo (emblematicamente intitolata «La palude») la casa è ormai venduta, e la storia prosegue in un altro tempo, quello dei personaggi adulti. A raccontare le aspirazioni, i fallimenti (anche degli amori nati in quella casa), le crisi individuali e familiari è ora un narratore in terza persona, ma la prima persona singolare torna nella terza parte, quando la villetta occuperà di nuovo il posto che le spetta nella narrazione, seppure all’ultimo, in extremis. Il narratore adesso è Mario, il figlio di Pietro: è lui che accompagna il padre in via Ristori, seguendo un’inserzione sul giornale. Pietro, per l’ennesima volta di fronte alla casa che ha segnato la sua vita, è tentato di affittarla, ma muore improvvisamente. La narrazione si chiude con Mario Bellelli che pensa di scrivere un romanzo, il cui inizio sia un trasloco.
I luoghi della Casa del padre sono quelli di un’età che ha segnato l’intera esistenza: «Ogni volta che ripenso a quel periodo della vita, ho il cuore in subbuglio»; ma quei luoghi sono irrecuperabili, perché irrecuperabile è il loro tempo. Quando la casa torna in primo piano, quando cioè il passato sembra ricollegarsi al presente, la morte cancella bruscamente ogni possibile legame.
Emblematico perché rappresenta un altro esempio di racconto memoriale non autobiografico, il doppio livello narrativo di La fontana invisibile di Roselina Salemi. Il romanzo si apre con la conclusione della contesa – durata oltre cento anni – per un’eredità: dopo un’intera carriera dedicata a sciogliere enigmi e misteri legati ai beni della famiglia Di Natale, il giudice Bonaiuto scrive la sua sentenza senza rendersi conto che «le terre e le case catalogate […] erano scomparse. Che aveva distribuito un’eredità di carte e nient’altro». Il tempo aveva consumato ogni cosa, ma al tempo aveva resistito nonna Rosa, «decisa a vivere sino alla sentenza che le avrebbe dato ragione». È lei, depositaria della memoria di famiglia, che intreccia il racconto del passato con quello del presente, ma i suoi ricordi si alternano alle vicende dell’ingegnere Silvio Provenzano, incaricato di mettere finalmente ordine nell’eredità. A capitoli alterni ci sono i racconti notturni della donna e gli incontri diurni dell’ingegnere con i vari membri della famiglia, o gli abitanti del paese. L’una ripercorre il passato di padri, figli, zii, nipoti, l’altro scava nel passato di persone a lui estranee. Nell’un caso e nell’ altro, tuttavia, oggetti e luoghi sono sfuggenti, come i campi che, segnati sulle mappe, non ci sono più, o come la «fontana invisibile» che dà il titolo al romanzo, che dovrebbe esserci ma, non si trova. Nonna Rosa racconta a partire dalle vicende di suo padre, ormai «macchia bianca nel pozzo buio del passato», eppure una volta grande protagonista «del paese che non c’è più» (proprio così le parole della donna), collocato nell’aspro paesaggio siciliano, con case, strade, campi cancellati da catastrofi naturali e presenti ormai solo su vecchie carte o nella memoria dei più anziani. Provenzano parla con chi vive nel presente, cercando di ricostruire una storia il più possibile plausibile: ma i fatti si accavallano e si confondono, e anche la ricostruzione dell’eredità si rivela fasulla: sarà per altro lo stesso giudice a rivelare da un lato l’impossibilità di raggiungere la verità, dall’altro il suo bisogno di fissare punti fermi, stabilendo in mille pagine un passato che nessuno potrà mai ricostruire, fatto di imbrogli, di delitti, di vicende le più varie: «Era la vita, spiegò Bonaiuto filosofico», affidata a migliaia di documenti destinati a diventare polvere «come gli uomini e le donne che li avevano scritti». Un giorno, «spiando quel passato che non gli apparteneva» Provenzano aveva provato «un indefinibile disagio, come se le foto lo guardassero e giudicassero la sua curiosità»: e tuttavia, dopo inutili indagini, aveva pur conquistato qualcosa: il possesso di «una memoria che era stata di altri».
La memoria come possesso che non può essere disperso è anche al centro di Romanzo di un paese di Severino Santiapichi, dove chi narra non dice mai «io», ma racconta, in terza persona, la storia del protagonista: un intero paese. L’indicazione di genere sottolineata fin dal titolo porta direttamente nell’ambito del mondo delle parole, in un mondo, cioè, che nasce e vive solo nel racconto del narratore: esclusa· ogni possibile tentazione di erlebte Rede, di discorso indiretto libero, la voce di chi racconta, con lenta e costante cadenza, nata anche dal sostrato sintattico della parlata siciliana e dalla continua contaminazione tra dialetto e lingua, fa crescere su se stessa la memoria di Khiafura, nome antico (e, per il lettore che non lo sa, quasi di immaginazione) di un paese della provincia siciliana.
Capitolo dopo capitolo si dispiegano nel romanzo di Santiapichi i luoghi sui quali, negli anni Trenta e seguenti, si proiettavano i comportamenti individuali e pubblici, si organizzavano le feste, religiose e civili, si manifestavano abitudini secolari. Sempre con il verbo all’imperfetto (già a partire dall’incipit: «il paese aveva due piazze») la storia collettiva di Khiafura – solo dentro di essa possono collocarsi gli uomini e le donne, componenti non isolabili da un’entità più vasta – diventa, nello svolgersi del romanzo, la storia della sua trasformazione, alla fine della quale, con l’introduzione di nuove attività lavorative, «Le stagioni s’invertirono e l’inverno fu tempo di raccolta, giugno tempo di vacanza», e «li paese divenne pertinenza, accessorio di serre»: accessorio, appunto, senza più una propria identità.
Forse ci sarebbe da chiedersi come mai due romanzi usciti nello stesso anno per ricordare luoghi scomparsi siano entrambi ambientati in Sicilia. Prima di rispondere si potrebbe ricordare ancora le contemporanee pagine, non più solo romanzesche, di Vincenzo Consolo, che si caricano di aspra denuncia, in Le pietre di Pantalica e soprattutto in L’olivo e l’olivastro. Rinunciando alla linearità della narrazione, lo scrittore ripercorre la Sicilia, leggendo la storia dell’isola come metafora di tutta la civiltà occidentale e della sua crisi: «Cos’è successo, dio mio, cos’è successo a Gela, nell’isola, nel paese in questo atroce tempo? Cos’è successo a colui che qui scrive, complice a sua volta o inconsapevole assassino? Cos’è successo a te che stai leggendo?». Il passato interroga il presente chiedendogli conto di scelte distruttive: non c’è, qui, alcun richiamo a una memoria che sia fonte di dolcezza anche solo individuale: i luoghi del passato diventano i testimoni di una civiltà perduta.
Ogni spiegazione sulla rilevante presenza della Sicilia, nei narratori che ripercorrono i luoghi che non ci sono più, può essere troppo banalmente sociologica, ma forse davvero, nell’isola, è stato più forte che altrove lo strappo da una condizione che, fino a pochi decenni prima, non aveva conosciuto radicali cambiamenti.
Si è già sottolineato che negli ultimi romanzi sopra ricordati non c’è il ricorso esplicito alle forme dell’autobiografia, e che la memoria è introdotta come ingrediente della narrazione, non come strumento per rivelare un’esistenza privata. Aggiungendo una considerazione eminentemente sociologica, sembra di poter dire che i luoghi che non ci sono più occupano tuttavia le pagine di scrittori non giovani, come se, anche sotto la forma della memoria altrui, sia sempre presente, per quanto nascosto, il lungo tratto di esistenza percorso da uno scrittore.
Ci si potrebbe fermare qui, ma vale la pena di sottolineare ancora che, in molti romanzi di giovani scrittori, luoghi e ambienti del passato, a volte ricostruiti minuziosamente, si ripropongono invece come sfondo di altre storie. Valga come esempio il porto di Genova di Maurizio Maggiani nella prima parte di La regina disadorna: «C’era stato dunque un tempo in questo nostro secolo in cui Genova era grande tra le città del mondo». O valgano, per aggiungere altri esempi emblematici, l’ambiente della brughiera lombarda nel Cinquecento, in La signora dei porci di Laura Pariani; gli sfondi padani delle pagine del parmigiano Guido Conti, in particolare del Coccodrillo sull’altare; o infine, per citare un caso diverso, gli eventi privati dell’io narrante, che, proiettati nello svolgersi del secondo Novecento, non sembrano tener conto dei luoghi, in Il cappotto del turco di Cristina Comencini (già autrice di una storia familiare con Passione di famiglia).
Per questa via la lista dei titoli e dei nomi degli autori può diventare lunga, ma non è il caso di andare oltre gli esempi portati: il luogo che non c’è più rimane sempre alle spalle di altri motivi, sui quali invece lo scrittore richiama l’attenzione dei suoi lettori.