La divulgazione secondo Piero

La straordinaria storia della vita di Piero e Alberto Angela: un bestseller di cui è difficile spiegare il grande successo, al di fuori della fama televisiva dei due autori. Presentato come il diario di un viaggio, ma con uno stile da insegnante poco accattivante e poco palpitante, il libro risulta, per usare una terminologia cara proprio al mondo della televisione, fisso sul «primo piano» e privo dell’indispensabile «profondità di campo».
 
Nato nel 1928, Piero Angela ha festeggiato il 4 giugno 1999 le duemila puntate di Quark e annessi, trent’anni di divulgazione scientifica in televisione, sulla stampa e in ventisette libri con una tiratura di oltre due milioni e mezzo di copie.
Sulla copertina del volume La straordinaria storia della vita, che raccoglie La straordinaria storia della vita sulla terra e La straordinaria storia dell’uomo, il Parasaurolophus – un dinosauro del Cretacico, erbivoro e bipede alto 4 o 5 metri e lungo una decina – risulta molto più piccino di Angela e del figlio e coautore Alberto. Entrambi ridono, il Parasaurolophus non ne ha motivo, si scopre a pagina 316 che verrà azzannato da un Tirannosauro e comunque sta per cascargli il cielo in testa. Gli autori sono in giacca e cravatta – più sobria quella di Alberto – e Piero punta il dito sull’osservatore, nella posa resa celebre dal manifesto «Uncle Sam wants YOU! » che chiamava gli americani alle armi. Sotto la copertina, il lettore è invitato a una gita nel tempo, grazie al «diario di bordo di due viaggiatori immaginari che, nel corso di 4 miliardi di anni di evoluzione, hanno potuto osservare dal vivo gli avvenimenti che avevano luogo sul nostro pianeta … Si tratta naturalmente di un espediente narrativo» (ma davvero). La storia è nota e non la racconteremo. Diciamo che la gita è pacata e i punti controversi, in particolare a riguardo dell’evoluzione umana, sono riassunti con equanimità.
Si tratta naturalmente di un best-seller, ma non riusciamo a trova me la ragione al di fuori della fama televisiva degli autori. L’espediente narrativo del diario di viaggio lasciava presagire di meglio. Non si pretende che il primo venuto emuli Bruce Chatwin, forse inarrivabile. Ma perfino uno scienziato olandese di basso profilo come Tijs Goldschmidt riesce a far passare una notte in bianco fra risate e struggimenti con l’evoluzione biologica, la genetica e la tassonomia dell’Haplochromis, un pesciolino in via di estinzione (Lo strano caso del Lago Vittoria). In assenza dell’umorismo di Goldschmidt e della sua simpatia priva di condiscendenza verso gli africani, di cui si è preso la briga di imparare la lingua, si può provare ad avere un punto di vista. Morale magari, à la Pietro Greco di Hiroscima, la fisica conosce il peccato, o polemico, o critico. Si può provare a esserci, insomma.
Già in passato, l’impressione di trovarsi davanti soltanto a una giacca e una cravatta si era ricavata da libri che non avevano un filo conduttore e incollavano cocci sparsi di trasmissioni televisive, come Viaggi nella scienza, La macchina per pensare, La vasca di Archimede. Veniva il sospetto che una narrazione probabilmente resa vivace da immagini e suoni, ci rimettesse una volta trasferita sulla carta. I tentativi di richiamare il medium originario facevano digrignare i denti. Digrignano tuttora: nel nostro Vita la tivù s’intromette con effetti speciali del tipo «Mentre affrontiamo l’ultima parte del percorso, improvvisamente veniamo investiti da un’onda sonora: è una musica di Beethoven. La Quinta Sinfonia!» (p. 373). Pietà.
Nella seconda parte del volume, cade l’espediente del diario e viene adottato uno stile da insegnante aggrappato al manuale come a un salvagente: «[Lo] sviluppo del cervello ha portato a un’altra caratteristica tipica dell’evoluzione umana: la capacità di usare la mano in modo sempre più raffinato. La mano, infatti, è diventata in pratica un prolungamento del cervello, un “tentacolo” esterno capace di tradurre il pensiero in movimenti. Essa viene comandata da impulsi cerebrali … » (p. 563 ). Essa, la frase, né più ottocentesca né più piatta di altre, illustra la scelta di fondo: stare nella media, nella neutralità, non cedere a impulsi cerebrali inconsulti. Così forse si spiegano i ripetuti best-seller: nella proposta, cioè, di un consumo rituale e rassicurante.
Abbiamo citato un’immagine di copertina, una colonna sonora e un tono di voce, perché dimostrano come sia difficile liberarsi del mestiere televisivo. Non che sia incompatibile con la scrittura, e lo dimostrano i deliziosi racconti di David Attenborough (sì, lo sappiamo perfino noi, nell’editoria gira voce che Piero Angela non abbia scritto i volumi usciti con la sua firma, ma finché questo non viene dimostrato pezze alla mano deve valere la presunzione di innocenza). Scrivere è un’altra arte, ci sembra, da praticare con più cura ora che il talento abbonda anche fra i ricercatori, soprattutto nelle scienze della vita e dello spazio di cui Angela preferisce occuparsi, probabilmente perché producono immagini seducenti e quindi materiale per il datore di lavoro. In tivù non c’è problema: nemmeno il commento più lugubre può rovinare l’incanto della nebulosa del Cavallo, la bellezza di una molecola di emoglobina che «respira» o del batterio Archeoglobus fulgidus.
La prosa, come abbiamo visto, ha il pregio della pacatezza ma non è delle più accattivanti e non regge il confronto con la potenza stilistica della concorrenza, in particolare degli scienziati colti e fantasiosi come Freeman Dyson e Roald Hoffmann, o più filosofici e progressisti come Je an-Mare Lévy-Leblond e Richard Lewontin, e perfino di certi riduzionisti puri e duri come Edward O. Wilson, che nella stessa pagina riesce a farci sentire nella pelle dell’entomologo e in quella della formica guerriera.
Eppure forma e contenuto dovrebbero rispecchiare quello che Angela disse all’intervistatore Giuseppe Ferrari in Raccontare la scienza: «Fare il divulgatore scientifico è un lavoro di scoperta continua, in cui si ha sempre l’impressione di attraversare un paesaggio nuovo, sconosciuto, dove la nebbia mano a mano si dirada e lentamente appaiono i contorni delle cose. È una grande avventura, che certamente si confà soprattutto a chi ha desiderio di esplorare, di conoscere. È in definitiva un viaggio, un bellissimo viaggio … Il mio scopo è quello di aiutare la gente a capire il proprio tempo, a capire la natura e la tecnologia, un po’ come farebbe un esploratore che va in avanscoperta e riferisce le cose che ha visto e che ha sentito dire.»
Le metafore dell’esploratore, del viaggio e del paesaggio, che erano state segnalate nella recensione di Fabio Pagan apparsa su «Le Scienze» (agosto 1988, n. 240), sembravano ingenue ma giuste a noi che allora debuttavamo nella divulgazione. Il libro era pubblicato in una collana dedicata ai linguaggi della comunicazione e prometteva una riflessione proprio sul racconto, quindi sulla traduzione in narrativa di storie scientifiche. Però era deludente: un’esplorazione, del linguaggio o della scienza, dovrebbe essere qualcosa di palpitante, di pericoloso (perché a ogni passo si è insidiati dall’ignoranza), di felice (perché si arriva in luoghi che la mente rimasta a casa non immagina nemmeno). L’avventura, per il divulgatore, dovrebbe essere un farsi largo fra il linguaggio della scienza e il linguaggio comune del suo tempo come Livingstone nelle giungle dello Zambesi. Altrimenti che avventura è?
Senza rischiare altro che il crampo dello scrittore, si possono usare espedienti letterari già rodati. La scienza si presta alla forma del giallo perché ogni volta qualcuno pensa di aver capito chi è stato a creare il Big Bang o a far venire la gastrite. Basta ricordare che la spiegazione finale à la Hercule Poirot è un’illusione: verrà soppiantata da una versione più convincente, escogitata da un Poirot con cellule grigie – o microprocessori – più moderni, che avrà scovato nuovi indizi o ricomposto i tasselli del puzzle per creare un altro disegno. Si presta alla forma del ritratto: pullula di personalità smisuratamente intelligenti, eccentriche, megalomani. Alla ricostruzione genealogica, quando l’esploratore risale il fiume fino alla vera fonte del Nilo, e Max Perutz la corrente delle pubblicazioni sulla doppia elica del Dna nel 1953, sempre più su, fino alla perplessità di Oswald Avery davanti ai pneumococchi lisci e a quelli raggrinziti nel 1916. Al saggio critico anche feroce perché gli capita di avanzare pretese arroganti. Al poema in dodecasillabi come il Canto dello Stirene (da intendersi come polistirolo) di Raymond Queneau. All’inno alla sua libertà di dubbio e alla sua convivenza con l’incertezza.
Questo e altro volevamo trovare nei resoconti delle avventure di Piero Angela, insieme alle idee e agli strumenti della scienza, all’esultanza quando riescono a far vedere oltre l’apparenza.
Richard Feynman, il fisico americano al quale James Gleick ha dedicato la biografia giustamente intitolata Genio, sbagliava di rado, cosa che lo rendeva insopportabile ai più. Qui si riferisce a una nuova edizione di Storia chimica di una candela, sei conferenze per ragazzi tenute da Michael Faraday alla Royal Society durante le vacanze di Natale del 1860-1861, e scrive: «Faraday sostiene che qualunque fenomeno, se si osserva abbastanza da vicino, risulta collegato all’intero universo; e lo dimostra parlando di ogni aspetto della candela, combustione, chimica ecc. Nell’introduzione, il curatore racconta della vita e della scoperte di Faraday», tra cui la famosa legge sulla quantità di elettricità necessaria per l’elettrolisi di sostanze chimiche. «E spiega che è un principio utilissimo, usato nel processo di cromatura dei metalli così come in decine di altre applicazioni. L’ho trovato desolante. Faraday aveva scoperto che ciò che lega gli atomi tra loro, ciò che determina la combinazione giusta di ossigeno e di ferro per formare l’ossido di ferro, è il fatto che alcuni sono elettricamente positivi e altri negativi … Aveva an-
che scoperto che l’elettricità si presenta in unità minime. Entrambe queste scoperte sono molto importanti, ma la cosa più emozionante è che questo è uno dei momenti più clamorosi nella storia della scienza, uno di quei rari momenti in cui due grandi campi si fondono e vengono unificati. All’improvviso Faraday vide che due cose apparentemente diverse erano solo aspetti diversi della realtà. Si studiava l’elettricità e si studiava la chimica. D’un tratto diventarono due facce della stessa medaglia: trasformazioni chimiche prodotte da forze elettriche, ed è un’interpretazione valida ancora oggi. Quindi dire semplicemente che queste scoperte si usano nel processo di cromatura è imperdonabile» (Il senso delle cose).
Ecco, Piero Angela ricade sempre nel processo di cromatura, gli sfuggono il momento emozionante, la sfida baldanzosa dell’interpretazione. Ogni sua storia si annuncia «straordinaria», ma il primo piano è fisso su un signore ingessato, dalla voce monocorde e dalla visione ristretta. Non abbiamo il televisore, ma crediamo che gli manchi la profondità di campo.