Romanzo memoriale: le ambiguità dell’autobiografismo

Autobiografia senza alcuna convergenza tra scrittura e vita o autobiografia come perfetta convergenza tra vicende personali e fatti realmente accaduti? Oppure autobiografismo come memoria in cui il tema centrale è quello dell’identità? O ancora come narrazione episodica che seleziona nel continuum biografico avvenimenti variamente esemplari? Il romanzo «memoriale» italiano dell’ultimo decennio ha messo in luce tutte le sue varie anime e le sue diverse tipologie.
 
Questa è un’autobiografia, non un romanzo, dichiara il narratore di Scuola di nudo – che si chiama, come l’autore, Walter Siti. Impassibile, l’Avvertenza finale recita però: «Ogni riferimento a fatti accaduti o a persone esistenti è da considerarsi puramente casuale; la coincidenza delle mie generalità con quelle del protagonista di questo libro non è che una sconcertante omonimia». Non è il caso, ora, di avanzare congetture: cioè di chiedersi quali parti della narrazione debbano essere considerate assolutamente vere, quali soltanto probabili o verosimili, e quali inventate. Importa, invece, il dato di fondo: Scuola di nudo è un’opera strutturalmente giocata sul confine tra romanzo e autobiografia. Potremo poi parlare, come Filippo La Porta, di «un’autobiografia che contiene un romanzo che contiene un’autobiografia»; ovvero, prelevata l’opportuna citazione – «di notte … ho il coraggio di ammettere che sto fingendo di fingere» – postillare, con Stefano Giovanardi: «Se la letteratura è per definizione il luogo della finzione, chi da esso dichiari che finge di fingere non fingerà per caso di star fingendo di fingere?». O ancora, sostenere l’ipotesi che Siti non sappia narrare se non parlando di sé, ma sappia parlare di sé solo entro un contesto romanzesco: sì che il racconto rimbalza di continuo fra testimonianza e invenzione, impedendo che il bisogno (o il piacere) di confessarsi e il piacere (o il bisogno) di raccontare prevalgano definitivamente l’uno sull’altro. Di qui l’effetto di sconcerto evocato dall’Avvertenza: esperito dall’autore, forse, prima e più che dal pubblico stesso.
Beninteso, il caso non è del tutto inedito. Anche Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, se vogliamo, era un libro tutto vero, che però l’autrice desiderava fosse letto come un romanzo. Ma qui c’è qualcosa di più: c’è una elusione sistematica di quello che è stato chiamato il «patto autobiografico», ossia l’accordo fra autore e lettore sulla veridicità di principio del racconto, garantita dall’identità del nome dell’eroe con quello dello scrittore in carne e ossa. Siti rifugge da qualsiasi impegno di fedeltà al vissuto, così come da qualunque sospetto di amore istintivo per l’esistenza (molla segreta d’ogni vero autobiografo). Si veda questo fulminante scambio di battute: «Tu dici che non bisogna essere autobiografici?» / «Anzi, devi esserlo a un punto tale che la vita sparisca». Forse il riferimento meno incongruo è alla categoria critica di autofiction, coniata per libri come Fils di Julien Serge Doubrovsky (1977): neologismo dal significato volutamente elastico, parafrasabile in modi diversi. Resta comunque certo che tutto ciò non ha nulla, proprio nulla a che vedere con l’istanza anti-letteraria, ingenuamente o consapevolmente referenziale, congenita all’autobiografia: si tratta di un’operazione di squisita, sofisticatissima letterarietà. Lo conferma, se ce ne fosse bisogno, la seconda prova del Siti narratore, Un dolore normale. Rispetto a Scuola di nudo, è un romanzo più temperante, per misura e imagery: meno scintillante, e insieme meno pletorico e ossessivo. Ma l’assetto non cambia: nessuna convergenza fra scrittura e vita, bensì una manipolazione genetica dell’autobiografia che vanifica ogni discrimine tra realtà e artificio. La spia più eloquente è la stratificazione delle quinte testuali: una storia d’amore punteggiata da poesie, e intrecciata a un diario, che la complica e la perturba; un libro, derivato da questo diario; una seconda stesura, dopo il rifiuto dalla casa editrice; aggiunte ulteriori, in carattere tipografico differente … L’aderenza al vissuto moltiplica inesorabilmente le maschere.
Quello di Siti è un caso estremo, e in fondo isolato. Abbastanza numerosi sono invece i narratori dell’ultimo decennio che, più convenzionalmente, hanno attinto all’esperienza biografica senza lasciare in sospeso lo statuto di realtà dei fatti narrati. Una sommaria tipologia può basarsi sull’estensione delle memorie chiamate in causa. Ad esempio, Il gioco dei regni di Clara Sereni ha la misura della saga familiare: su se stessa l’autrice mantiene un sostanziale riserbo, l’attenzione si concentra sugli antenati (e, in particolare, sulle figure femminili). Pur attraverso la specola degli interni domestici, a prender forma è una serie di vicende strettamente connesse alla storia del nostro secolo: il destino dei vari personaggi evoca l’opposizione alla tirannia zarista, l’ antifascismo, l’esilio, la deportazione, la prigionia, la Resistenza, il sionismo, le battaglie politiche del dopoguerra, la storia del Pci. Ma i fatti collettivi non fanno aggio sulla dimensione umana e intima dell’approccio: a lettura conclusa, l’impressione che rimane è quella di una galleria di forti personalità, e insieme di un’ atmosfera familiare peculiare, in cui lo stridere dei contrasti e delle contraddizioni non inficia la condivisione di un complesso, più che di ricordi, di valori. Il centro di gravità appare tuttavia spostato verso le generazioni più anziane (fors’anche per la scelta dell’autrice di esporsi il meno possibile).
Altri hanno puntato invece sull’immagine di un nucleo familiare ristretto, cioè- essenzialmente- sulla famiglia d’origine, quale è stata percepita attraverso lo sguardo del sé stesso bambino. Star di casa di Fabrizia Ramondino compensa la focalizzazione cronologica con una maggiore apertura spaziale. Come in altri suoi libri, ma qui (mi pare) con singolare felicità rappresentativa, in primo piano è Napoli, una Napoli vera, pulsante e ombrosa, ctonia, quasi carnalmente segnata dall’inquieta geologia dell’area dove sorge. La rievocazione dell’ambiente familiare diventa così il ritratto di una certa borghesia partenopea, arroccata in un puntiglioso, asfissiante senso del decoro, e tuttavia permeabile da una realtà esterna che di volta in volta appare traumatica, sordida, solare, vivificante. Napoli svolge un ruolo di primo piano anche in Non ora, non qui di Erri De Luca (1989): la Napoli misera dei vicoli e dei bassi, che la famiglia vive come un temporaneo degradante esilio, contrapposta ai quartieri più agiati a monte di Mergellina, estranei e freddi per il protagonista bambino. L’ottica del racconto è decisamente più intimista; largo spazio è concesso infatti a un sofferto colloquio con la madre – donde le implicazioni patetiche pressoché congenite all’uso della seconda persona. Alla repressiva figura materna risale il titolo: «Non ora, non qui» è il monito (o il rimprovero) che incombe su un’infanzia non felice, e simbolicamente aduggia anche il destino dell’adulto.
Per non pochi dei narratori migliori degli anni Novanta potrebbe valere un’espressione usata parecchio tempo addietro da un celebre studioso, cioè che scrivono i loro racconti con lo stesso inchiostro delle memorie (veramente egli diceva: i loro romanzi; ma era un’altra epoca). Già Non ora, non qui evita di esibire contrassegni autobiografici espliciti; a maggior ragione, dobbiamo dunque escludere dal nostro terreno d’indagine libri come I beati anni del castigo di Fleur Jaeggy, Camerati di Antonio Franchini o Tu, sanguinosa infanzia di Michele Mari. Con il libro d’esordio di Helena Janeczek, Lezioni di tenebra, rientriamo invece nell’autobiografismo dichiarato, e tramato da un assiduo confronto l conflitto con un’immagine di madre. La questione dell’identità – tema cruciale dell’autobiografia come genere – s’impone qui in maniera vertiginosamente complessa. I genitori della protagonista erano due ebrei polacchi prossimi all’assimilazione (sintomatica l’imperfetta conoscenza della lingua yiddish), unici scampati allo sterminio delle due rispettive famiglie di origine. Stabilitisi dopo la guerra a Monaco, avevano acquisito la cittadinanza della Repubblica Federale. La madre però, titolare d’un negozio di moda italiana, passa per italiana agli occhi della clientela bavarese; e alla figlia, nata e cresciuta a Monaco, non si stanca di ripetere «noi non siamo tedeschi» (tra le pagine più belle del libro l’illustrazione del «lessico famigliare» in uso tra madre e figlia, fatto di un tedesco curiosamente selettivo, di frasi e locuzioni polacche, di sparsi residui yiddish). A sua volta, la figlia si trasferisce in Italia, eludendo per quanto possibile la richiesta di permesso di soggiorno – vuoi per repulsione verso una burocrazia ingrata e avvilente, vuoi per una consolidata abitudine alla dissimulazione. A ciò si aggiunga che Janeczek non era il vero cognome del padre, bensì un cognome fittizio assunto a suo tempo nella speranza di passare per polacco, anziché ebreo (e magari di origine tedesca) agli occhi delle autorità del Reich. L’espediente non era servito a evitare la persecuzione; e tuttavia fino al termine della sua breve esistenza il padre aveva mantenuto i dati anagrafici fasulli, seguitando a festeggiare un compleanno inventato.
Anche la Ramondino si presenta come una napoletana atipica, mal volentieri riconosciuta come tale dai concittadini. Il caso della Janeczek è però senza dubbio molto più clamoroso, e ( questo sì) sconcertante. Si potrebbe notare, per inciso, che problemi non dissimili di auto-identificazione non sono rari nella giovane narrativa tedesca: i figli di quelle che nell’immediato dopoguerra venivano qualificate come displaced persons scoprono (o constatano) di patire un deficit di identità, che in qualche modo occorre colmare (se non altro, facendone oggetto di racconto). E non stupisce che l’acme narrativo di Lezioni di tenebra sia un pellegrinaggio nell’avita Polonia, coronata da una drammatica visita ad Auschwitz. Nella coscienza contemporanea, Auschwitz rappresenta il luogo dove l’identità – personale, nazionale, umana – viene negata: in senso letterale per alcuni, simbolicamente per tutti. Accade così che un narratore quarantenne privo, non che di problemi anagrafici, di ricordi familiari del Lager, come Eraldo Affinati (la madre, deportata, era venturosamente riuscita a scappare durante una sosta del treno a Udine), decida di andare a piedi ad Auschwitz, al fine di confrontarsi con «l’incommensurabilità del Male». Campo del sangue è insieme una raccolta di riflessioni sul tema dello sterminio, una serie di pagine autobiografiche, un’antologia di testimonianze, un taccuino di viaggio: pregevole, a suo modo, per ciascuno di questi aspetti. Ma questa postuma discesa agli inferi serba alcunché di troppo intenzionale, di volontaristico. Se la destinazione ultima s’impone comunque, per una sorta di magnetica necessità, quel lunghissimo cammino di avvicinamento non storna da sé il sospetto della gratuità: quasi una simulazione di esperienza, più che un’esperienza vera e propria.
Più significativi appariranno allora, in questa luce, altri e meno solenni esperimenti di scrittura di confine, tra diario, memorie, saggismo, cronaca: libri sorretti da una maggiore concretezza esistenziale, quali – per intenderei – Maggio selvaggio di Edoardo Albinati, resoconto di un’esperienza di insegnante presso il carcere romano di Rebibbia, o Com’è grande la città di Bruno Pischedda, riflessione in chiave autobiografica sul significato della modernità, avviata nel momento più critico per la sinistra (cioè all’indomani della vittoria di Berlusconi nelle elezioni nel 1994). In questi casi la contaminazione con le scritture dell’io alimenta la vena narrativa. Nella fiction vera e propria accade invece talvolta che la memoria costituisca piuttosto una tentazione, o una scorciatoia, che una risorsa (la nostra tradizione letteraria reca tuttora un’impronta più lirica che drammatica, e più incline alla soggettivizzazione delle vicende che all’aggettivazione dei caratteri). In tanti, troppi libri vediamo personaggi appena sbozzati, e quindi non ancora resi interessanti, avvitarsi precocemente in ricordi d’infanzia che annacquano o fuorviano la storia. Non mancano peraltro nella narrativa d’invenzione applicazioni sagaci del modulo pseudo-autobiografico. Si veda ad esempio Il talento di Cesare De Marchi, robusto romanzo in prima persona dove protagonista e autore non hanno nulla in comune (ferma restando l’identità di principio tra Flaubert e Madame Bovary).
Ma il decennio appena trascorso ha registrato anche una vera, integrale autobiografia di assoluto rilievo: un’opera che in un certo senso rappresenta il corrispettivo di Una scelta di vita di Giorgio Amendola – a sua volta rappresentativa del clima, anche letterario, degli anni Settanta. Mi riferisco a Servabo. Memoria di fine secolo di Luigi Pintor. Tre le caratteristiche salienti di questo libro. Innanzi tutto l’ampiezza cronologica del racconto, che copre l’intera parabola vitale del protagonista (nato nel 1925): fatto tanto più degno di nota, se si pensa che la memorialistica novecentesca ha volentieri percorso la via della narrazione episodica, selezionando nel continuum biografico avvenimenti variamente esemplari, per scrutinarli al microscopio. In secondo luogo l’opzione per una misura breve, sottolineata dalla scansione in parti di lunghezza omogenea: 12 capitoli (più un prologo e un epilogo), contraddistinti da titoli generalissimi, quasi stazioni di una via sacra (L’isola, La città, La guerra, La mina, La prigione, La pace, Il matrimonio, Lo scenario, L’esilio, L’avamposto, Il dolore). Terzo, l’estrema sobrietà espressiva, a cui va ascritta anche la vistosa, «catoniana» scelta di omettere oltre alle date tutti i nomi propri, si tratti di persone, luoghi, istituzioni. L’effetto così raggiunto è straordinario, proprio in termini di memorabilità del discorso. L’autobiografia di un noto giornalista e militante politico perde ogni risvolto contingente e cronachistico per svolgersi in una dimensione di prosciugata essenzialità umana: nessun cedimento al gusto per la digressione o l’aneddoto, nessun abbandono narcisistico all’effusione (così frequente presso chi si mette a narrare di sé), bensì la riduzione della vita a un tracciato esistenziale dall’approdo incerto, ma dal decorso quanto mai limpido. Al gusto del racconto – o del romanzo – subentra insomma un singolare recupero della tradizione dei «ricordi». Anziché una proliferazione tollerante e indiscriminata di memorie, o un’introspezione analitica tesa a contrastare le forze dell’oblio, un’ordinata serie di «cose da ricordare».
Quanto alla successiva prova autobiografica di Pintor, La signora Kirchgessner, colpisce il mutamento di prospettiva psicologica (tanti lutti personali non possono del resto non lasciare ferite profonde). Ma anche in questa rivisitazione amarissima della propria parabola esistenziale – che in molti punti si sovrappone al percorso di Servabo, rileggendo gli eventi in chiave di accentuato pessimismo – Pintor mette in atto dispositivi testuali di notevole efficacia. Allo sforzo di generalizzazione e astrazione sintetica subentra un impulso allo straniamento: «Un mio conoscente di genio non si lasciò sfuggire l’occasione di morire in giovane età» (riferito al fratello Giaime); «Si nominavano comunisti e avevano nei cinque continenti ottantadue rappresentanze» (nel capitolo sul 1956). Date e nomi, pur non numerosi, qui compaiono: ma non sono di solito quelli che ci si potrebbe aspettare (a partire dal titolo, che ricorda una suonatrice settecentesca di glassarmonica). Così, più che un cedimento all’umor nero, questa nuova memoria di fine secolo sembra andare a compiere un ideale dittico: da un lato un’orgogliosa rivendicazione di coerenza, dall’altro un senso di sconsolata vacuità. Un doppio monito per quanti avranno in sorte di invecchiare nel secolo venturo.