Romanzo fantascientifico: fantadetection e cyberpunk

Sulle orme un po’ della letteratura popolare e un po’ della letteratura fantastica, la scrittura fantascientifica italiana contemporanea mescola, in modi sempre differenti e personali, avventura e riflessione con una sempre maggiore predilezione per le storie alternative, le reinvenzioni-rivisitazioni del passato e le atmosfere onirico-ossessive generate dallo sviluppo scientifico e tecnologico.
 
Il 24 ottobre 1994«Urania» pubblica il primo romanzo di Valerio Evangelisti, Nicolas Eymerich, inquisitore, vincitore del premio Urania 1993: è una data significativa per la fantascienza nazionale. Il libro ha immediato successo, per la prima volta un testo italiano vende più dei prodotti stranieri. Inizia qui la rapida e tutt’ora in ascesa fortuna di Evangelisti e del suo personaggio: appaiono altri cinque romanzi dedicati all’inquisitore, tutti targati Mondadori (anche direttamente in hard-cover, o in appendice al «Venerdì» di Repubblica, o nella veste di originale radiofonico) e un’antologia di racconti (Metallo urlante, nei «Tascabili Einaudi Vertigo», curati da Daniele Brolli). A conferma della popolarità dell’autore, il sito internet dell’Evangelisti fan club contava, a inizio settembre 1999, più di ventitremila contatti. Ma Nicolas Eymerich, inquisitore non è il primo romanzo della serie scritto da Evangelisti, che aveva già concorso due volte al premio Urania: in entrambi i casi però i suoi libri, pur molto apprezzati, erano parsi «troppo poco fantascientifici» per vincere. E forse proprio in questo difetto di purezza, nella propensione a mescolare liberamente aspetti tematici e strutturali che provengono da differenti tradizioni di genere (horror, fantastico, giallo, romanzo storico), si trova una delle ragioni decisive della fortuna dei libri di Evangelisti. Non credo sia un caso che un’analoga apertura alla ibridazione dei generi dell’immaginario popolare si trovi in Dylan Dog, forse il prodotto più importante della narrativa di massa italiana anni Novanta.
Il ciclo di Eymerich si fa apprezzare prima di tutto per la compattezza (e la duttilità) del progetto. Alcune caratteristiche ricorrono e costituiscono il marchio di fabbrica della serie. Innanzi tutto il ritorno del medesimo protagonista, come segno di immediata riconoscibilità e strumento per incidere più a fondo nell’immaginario collettivo; poi il procedere su piani temporali alternati, distinti ma interconnessi, come via per creare «una suspense ai limiti del tollerabile», soddisfacendo l’ «ossessione personale» di scrivere un romanzo che «il lettore, una volta iniziato, non possa più lasciare» (Storia vera di Eymerich, il mio fanta-inquisitore, «Avvenimenti», 23 ottobre 1996). I personaggi sono costruiti con semplicità, badando soprattutto all’efficacia, ma anche, nel caso delle figure maggiori e in particolare di Eymerich, con dinamicità e inventiva. L’inquisitore è uomo dell’ordine e della razionalità, ambizioso e politicamente abile, difensore inflessibile della religione cattolica (e più ancora dell’istituzione ecclesiastica) e nemico acerrimo di ogni forma di eresia e di spiritualità eterodossa. Ma come rivelano alcune idiosincrasie (insofferenza per il contatto fisico, avversione per le folle, repulsione per gli insetti), la sua rigorosa e incessante lotta contro le mille forme di Satana è il prodotto di un’ipertrofia della volontà, ed è il frutto, anche, di una rimozione: «Padre Nicolas, considerate i vostri incubi. Voi idolatrate la ragione. Perché odiate il vostro corpo, e pretendete di viverne al di fuori. E una frattura che crescerà in voi, e un giorno le soccomberete», gli dice padre Arnau, uno dei suoi primi avversari. Eymerich è costruito su caratteristiche contrastanti, ha due facce, una sempre in piena luce e l’altra per lo più in ombra. Gli ultimi testi apparsi sono più maturi e convincenti; a questa crescita non è estranea la capacità di approfondire la rappresentazione delle contraddizioni interiori dell’inquisitore dimostrata soprattutto in un’opera riuscita come Cherudek. Beninteso, non per via d’analisi psicologica ma di trasfigurazione fantastica: il libro è un’altra avventura di Eymerich e, nel contempo, un’avventura dentro Eymerich.
L’inquisitore è un personaggio legato intimamente al proprio contesto storico, al Medioevo della Guerra dei Cent’anni, ma il segno della sua azione tocca i futuri lontani raffigurati nelle trame parallele dei romanzi di cui è protagonista e nei racconti «senza inquisitore» di Metallo urlante. Come ha notato Giuseppe Lippi (Valerio, Evangelista meus, «Urania», n. 1364, 20 giugno 1999), i lavori di Evangelisti si iscrivono in un coerente mondo fantastico. In questo universo l’uomo vorrebbe essere primattore (l’ordinamento, il dominio della realtà sono gli obiettivi primi sia dell’inquisitore, sia degli eretici-negromanti contro i quali combatte), mentre ne è invece per lo più ospite, semplice comparsa quando non prigioniero: le sue vittorie sono precarie e imperfette. La storia è un organismo, «è il pianeta stesso che muta ed evolve»; il tempo non vi scorre lineare, i diversi livelli temporali sono connessi da «una sorta di immenso sistema di rimandi» (Lippi). Presa in questo intrico opaco, l’umanità vive in simbiosi e attrito con natura e tecnologia, sfrutta il mondo vegetale-animale e il mondo dei metalli e insieme ne subisce la minaccia. Proprio nella rappresentazione di ibridi naturali-tecnologici, di paesaggi e persone che portano su di sé le tracce di una mutazione, di uno straniamento radicale, la scrittura di Evangelisti raggiunge gli esiti visionari migliori (si vedano i racconti di Metallo urlante). «Tutto ciò che esiste è tenuto assieme da un tessuto comune, da una sostanza unica impalpabile, che sta tra la materia e la non materia, e che partecipa di tutte le essenze senza identificarsi con nessuna di esse», dice un personaggio di Cherudek: questa sostanza fatta di particelle – gli psioni, con il termine scientifizzante impiegato in altri libri – è l’immaginario (l’inconscio collettivo junghiano, lo spirito delle filosofie antiche); lo scrittore gli dà una base fisica, quasi la consistenza di una materia, a indicare quanto le proiezioni fantastiche, le creazioni mentali condivise incidano nella vita degli uomini e delle società.
Evangelisti conta non solo per la sua produzione letteraria, ma altrettanto per le sue doti di organizzatore culturale: in una serie di articoli, prefazioni, interviste, curatele, sulle pagine della prozine «Carmilla» di cui è animatore, ha parlato con intelligenza e chiarezza d’intenti della propria scrittura e dell’idea di letteratura che la sorregge. Per lui la fantascienza è il filone della letteratura popolare «che situa le proprie storie nel contesto dei sogni e degli incubi generati dallo sviluppo scientifico, tecnologico ed economico di una determinata epoca» (intervista a Marco Deseriis, «l’Unità», 16 ottobre 1997): si tratta di un’idea allargata ed elastica di fantascienza, sentita sempre come parte integrante del territorio più vasto della letteratura fantastica, «unica forma di realismo possibile in un universo dalla realtà incerta» (editoriale, «Carmilla», n. 1). Il suo è un fantastico pessimista, dello spaesamento e insieme della consapevolezza: nel mondo di Eymerich e dintorni l’orientamento etico del lettore (come quello spazio-temporale) non è facile e univoco. Non per caso Evangelisti colloca al centro del quadro e segue per lo più il punto di vista di un eroe «cattivo», o meglio, per usare le sue parole, «perfido senza mai essere meschino», insomma uno «sgradevole idealista» che non esita di fronte ad alcun mezzo pur di conseguire il proprio fine. Al protagonista d’altronde si contrappongono altri idealisti discutibili, aspiranti demiurghi caratterizzati dalla medesima assolutezza intransigente, che manifestano – anche quando si collocano dalla parte degli oppressi – la stessa inclinazione a privilegiare sistematicamente i propri grandi disegni rispetto agli individui concreti. Il narratore sembra così cercare di costringere i lettori soltanto a identificazioni perplesse e diffidenti. Evangelisti muove dalla convinzione che la narrativa fantastica «con la sua natura di sogno consapevole, da cui si entra e si esce a volontà, costituisca un buon addestramento a evadere dai sogni imposti ed eterodiretti» (editoriale, «Carmilla», n. 1). Il fantastico ha dunque un valore anche politico, una carica «antagonista», in grado di provvedere i lettori degli anticorpi migliori per affrontare un’epoca di colonizzazione dell’immaginario come l’attuale.
Evangelisti rivendica con orgoglio l’artigianalità della narrativa popolare, la sua diversità rispetto alla letteratura «alta». La sua intenzione è quella di lavorare per una letteratura di genere «pienamente consapevole sia dei suoi limiti che delle sue potenzialità» (ancora in «Avvenimenti»), perché gli pare che oggi abbia una forza critica e una capacità di dialogo con un largo pubblico che la letteratura mainstream va sempre più smarrendo.
La concezione di una scrittura fantascientifica fiera della propria natura artigianale, che sappia avvincere il pubblico e allo stesso tempo svolgere un discorso critico sul presente è condivisa dal piccolo gruppo di scrittori che è riuscito in questi ultimi anni a conquistarsi una certa visibilità editoriale. I «nuovi» autori, come ha notato Vittorio Curtoni nella sua vivace autobiografia fantascientifica (La mia love-story con la fantascienza, in Retrofuturo), «hanno capito benissimo l’importanza della serialità» e si affidano volentieri a personaggi ricorrenti: Luca Masali, per esempio, all’aviatore della grande guerra Matteo Campini (I biplani di D’Annunzio e La perla alla fine del mondo); Nicoletta Vallorani alla detective sintetica Penelope D.R., Il cuore finto di Penelope D.R. e Dream box). Anche la sintonia sulle grandi coordinate con le quali considerare la letteratura di genere e la fantascienza, la disponibilità a presentarsi come un gruppo, è un fatto nuovo per l’ambiente fantascientifico italiano, storicamente incline al dissidio (si veda in proposito ancora Curtoni).
Le strade percorse dai vari autori restano peraltro diversificate, la miscela di avventura e riflessione è realizzata in modi differenti e personali. Due libri usciti da poco come La perla alla fine del mondo di Masali e Nell’anno della Signora di Carlo Formenti lo testimoniano con chiarezza. Masali attualizza il modello verniano presentando una storia di voyages extraordinaires nel tempo, nel sottosuolo e nelle culture: l’intreccio ben costruito e il dialogo spesso da commedia brillante (anche se non sempre del tutto convincente) sanno tener viva l’attenzione del lettore, al quale il narratore fa compiere anche un primo percorso di avvicinamento al mondo arabo. Formenti racconta di una pianura padana immersa in un nuovo Medioevo nella quale si stagliano enigmatici i manufatti della società postindustriale, dalle Grandi Rovine della città di Milano all’unità di ibernazione in cui è conservato il corpo della Signora del titolo. I modi di un’avventura che mescola Conan il barbaro e Mad Max offrono lo strumento per condurre una meditazione problematica, senza toni euforici o apocalittici, sul rapporto fra civiltà e tecnologia. Nel complesso nella fantascienza italiana di questi anni si nota una predilezione per le atmosfere cyberpunk e un interesse per le ucronie, le storie alternative e più in generale la reinvenzione-rivisitazione del passato (da Masali a Pierfrancesco Prosperi a Franco Ricciardiello ), un interesse quest’ultimo al quale non è forse estranea la lunga fortuna del romanzo storico nella nostra tradizione.
Il 9 novembre 1997 è un’altra data chiave della fantascienza italiana, Giuseppe Lippi, curatore di «Urania», ed Evangelisti presentano Tutti i denti del mostro sono per/etti, un’antologia celebrativa dei quarantacinque anni della rivista, che raccoglie quindici racconti di autori italiani. I fatti di rilievo sono due: la compattezza generazionale (tutti gli autori sono giovani o semigiovani) e la compresenza a pari titolo di scrittori legati a esperienze di genere (Masali, Vallorani, Brolli, Dazieri) e di scrittori esterni al mondo della fantascienza specializzata (Ammaniti, Carabba, Voltolini, Mari). Nella nostra letteratura gli esempi di non-genre science fiction sono stati anche importanti, ma sporadici. Cancroregina di Landolfi, i racconti cosmicomici di Calvino, le Storie naturali di Primo Levi, Dissipatio H. G. di Morselli, Il pianeta irritabile di Volponi sono opere di scrittori atipici: più che delineare una tradizione colta di fantasia scientifica, sono casi particolari di una linea fantastica della nostra narrativa, minoritaria ma ben riconoscibile dalla Scapigliatura in poi. Un esempio recente di questo interesse intermittente per situazioni e atmosfere della fantascienza da parte della letteratura «alta» è 3012 di Sebastiano Vassalli, apologo antibuonista in forma di cronaca di storia futura, di paradossale agiografia del Profeta di una religione della guerra leale in un mondo che la guerra ha bandito, ma in cui la pace maschera infinite soppraffazioni e violenze.
La partecipazione di vari scrittori mainstream a un’antologia pubblicata da «Urania» è la conferma della diffusione crescente tra gli scrittori più giovani di un immaginario letterario ibrido, nutrito di letture varie per generi e livelli, come di suggestioni provenienti da altri media (televisione, cinema, giochi per pc). Per questi autori la fantascienza sembra insomma avviarsi a diventare una possibilità di scrittura fra le altre, non un’opzione professionale o una scelta eccentrica: può capitare così d’incontrare un racconto di fantascienza nelle antologie di Niccolò Ammaniti (Ferro in Fango) o di Silvia Ballestra (Cozze marroni, non fatelo! in Gli orsi). In questa maggiore «disponibilità» dei topoi fantascientifici mi pare abbia svolto un ruolo rilevante Stefano Benni, che forse per primo ha saputo rendere letterariamente produttivo l’immaginario di massa e il cui lontano esordio come romanziere è avvenuto proprio con un’opera di fantascienza satirica (Terra.’). Mentre fra i «nuovi» autori è Enzo Fileno Carabba ad aver dimostrato maggior interesse per motivi e ambienti della fantascienza. La foresta finale è il racconto di una trasformazione totale della terra, progressivamente avvolta da una vegetazione fatta di piante e cavi (segno di una tecnologia riassorbita dalla natura), mentre il mare e il cielo vanno fondendosi. Carabba descrive con brillante vivacità immaginativa la mutazione dell’umanità e del suo ambiente di vita, come apocalissi e insieme nuovo inizio. All’insegna della metamorfosi, dell’innesto, è anche l’uso che Carabba fa della fantascienza, ingrediente di un prodotto letterario cangiante, in oscillazione fra generi e registri, tra epos, avventura e umorismo, tra sospensione favolosa e scherzo: «credo che esista un luogo di origine dove i generi sono uniti [ … ] io cerco appunto quel luogo», ha detto lo stesso Carabba a Fulvio Panzeri, aggiungendo anche di conoscere le regole di genere solo in modo rudimentale e quindi di trovarsi «per forza» a mischiarli (cfr. Senza rete. Conversazioni sulla «nuova» narrativa italiana, peQuod, 1999).