L’ingresso di un nuovo libro nel mercato è necessariamente accompagnato da una produzione di informazioni indispensabili per indirizzarlo nel modo più efficace al pubblico appropriato.
Ma l’informazione standardizzata delle case editrici non può sostituire la mediazione umana costituita dal promotore editoriale.
«Era un ispettore di una nota casa editrice, una figura importante per i librai: era il consulente, così lo chiameremmo ora, colui che indicava quali nuovi libri erano stati pubblicati o ristampati, quali poi sarebbero stati più adatti a quella libreria o più precisamente a quei lettori. Era un bel lavoro, affascinante, un lavoro da tessitore per una trama di cui autore e lettore erano i fili da far incontrare» (da Calvino in Topolino di F. Mora, Stampa Alternativa). Una figura con mansioni di verifica della vendita e della giacenza dei volumi inviati in conto deposito alle librerie direttamente dall’editore è presente fin dall’inizio del secolo; figura nella quale si può forse intravedere la professione del promotore editoriale.
Bisogna però attendere il 1948 perché una società proponga agli editori un servizio di promozione in libreria come lo intendiamo oggi: l’Unione editoriale, ideata e amministrata da Enrico Montanari a Firenze, che ebbe tra i suoi clienti, per esempio, Sansoni, Mediterranee, Corbaccio, Dall’Oglio e De Agostini.
I promotori dell’Unione editoriale erano agenti, talvolta anche ratealisti, remunerati quindi in percentuale sulle vendite. Una quindicina di persone con zone ben definite visitavano i librai una o due volte al mese portando spesso con sé una copia dei volumi appena stampati, raramente i libri da vendere insieme alla bolla d’accompagnamento oppure, come accadde in seguito, semplicemente le informazioni relative alle novità in uscita nel mese immediatamente successivo.
Le librerie erano molte meno di adesso e costituivano talvolta veri e propri centri culturali dove i librai (in qualche caso raffinati lettori) non disdegnavano di osservare i passanti dall’uscio, pronti a riconoscere i propri clienti e ad affrettarsi a richiamarli con il libro giusto. Nei confronti di tutte le librerie, anche di quelle che non erano necessariamente meta di pellegrinaggi intellettuali, l’atteggiamento usato dai promotori era comunque di grande rispetto e doverosa cura: un’assistenza che spaziava dalla comunicazione di informazioni sulle novità in uscita e l’aggiornamento sulla reperibilità dei titoli all’esecuzione delle pratiche per ottenere l’uso di bacheche o altri spazi espositivi dai comuni, fino alla risoluzione di eventuali problemi di vario genere, oltre naturalmente alla «raccolta degli ordini», alle proposte di riassortimento e di libri da consigliare e così via. n diritto alla resa, la cui autorizzazione era già di competenza dei promotori, non era concesso da tutte le case editrici: molte di queste contemplavano però una diversa soluzione costituita da una resa cambio, con acquisti pari talvolta al doppio della resa; tale pratica era comunque utilizzata il meno possibile e veniva non di rado considerata dai librai un segnale di scarsa professionalità nella vendita.
Non accadeva spesso che gli editori fornissero conti deposito ai librai, ma in compenso, a partire dai primi anni cinquanta e per circa un ventennio, seguendo l’esempio dell’Unione editoriale, i distributori concedevano talvolta la possibilità di fornire titoli nuovi anche in conto sospeso: a quell’epoca le scadenze relative a simili invii venivano regolate con molta flessibilità tra promotori e librai, ben diversamente da come accade oggi.
L’alta componente artigianale dell’editoria libraria non prevedeva ancora la pianificazione del lancio delle novità: fu anche a causa della mancanza di sincronia tra la stampa dei volumi e il giro delle visite ai librai che il cosiddetto invio d’ufficio (l’invio di volumi non concordato con il libraio) si diffuse immediatamente, al punto che all’inizio degli anni cinquanta lo stesso Montanari lo formalizza, proponendo ai titolari delle librerie più grandi, circa 250, la firma di un accordo che prevede, a fronte di fasce che dividono per prezzo e argomento i libri, l’invio automatico delle novità in conto deposito da parte del distributore. Pare siano bastate poche stagioni perché all’Unione editoriale capissero che non si trattava del metodo migliore.
Nel 1953 Giangiacomo Feltrinelli fonda la EDA, Editori Distributori Associati, una società distributrice che porterà al mercato una ventata di libri e idee nuove, spesso di provenienza straniera: in breve l’azienda assumerà dei promotori che dipenderanno dai direttori di filiale.
Einaudi aveva già assunto alcuni promotori allo scopo di seguire esclusivamente le librerie, ma molti dei «rappresentanti editoriali», come spesso venivano chiamati all’epoca, erano ancora figure polifunzionali: alcuni promuovevano anche libri di parascolastica e scolastica, altri erano agenti di sola varia con deposito (Longanesi, Garzanti), oppure come nel caso di Mondadori erano veri e propri «agenti generali» aventi l’esclusiva di tutte le vendite, sia rateali che librarie, in vaste aree comprendenti diverse regioni.
Tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta il panorama varia in maniera significativa: le reti eli promozione offrono finalmente una copertura abbastanza uniforme a tutto il paese, talvolta con l’ausilio di plurimandatari per le zone meno ricche, e varie case editrici si sono dotate eli reti eli promozione a capo delle quali figurano veri e propri direttori commerciali che cominciano a parlare di obiettivi di vendita.
Per ottenere una presenza più capillare sul territorio gli editori hanno assunto gli agenti, così da poterli controllare meglio. Sono i cosiddetti «ispettori alle vendite» (definizione mutuata dalle edicole), i quali percepiscono buoni stipendi con spese a pié di lista e godono di uno status abbastanza elevato, che agli occhi dei librai si identifica con l’immagine dell’azienda per cui lavorano; partecipano a riunioni con l’editore e talvolta vengono anche coinvolti nelle decisioni da prendere, anche se solo formalmente. Erano, più spesso di adesso, persone acculturate o molto appassionate ai libri, che avevano lavorato in libreria o che avevano rivestito incarichi in ambito lavorativo o politico tali da far presupporre una certa autorevolezza. n rapporto nei confronti dell’editore era spesso più fideistico che tecnico e la formazione professionale veniva affidata, nel migliore dei casi, a un periodo di apprendistato: gradualmente i promotori acquisivano una approfondita conoscenza del catalogo, dei librai, delle librerie e del loro pubblico, dei meccanismi distributivi e delle condizioni di sconto praticate e praticabili, della geografia delle mode e dei gusti, oltre naturalmente alla capacità di relazionarsi con il libraio. Accanto ai tradizionali compiti esecutivi, prendeva forma un ruolo, oltre che di trasmettitore di informazioni dall’editore al libraio, di elaboratore dell’informazione in rapporto alle potenzialità del punto di vendita e, quindi, di consulente del libraio stesso.
All’inizio degli ani sessanta Mondadori istituisce, con molto anticipo rispetto ad altre aziende, la figura del capo area: funzionari che dovevano fondamentalmente controllare e assistere gli ispettori.
Fanno la loro comparsa, ma passerà molto tempo prima che si diffondano, le prime schede informative usate per illustrare le novità ai librai al momento della prenotazione; talvolta allo stesso scopo vengono usate anche le copertine e molti editori pianificano con un certo anticipo buona parte dei lanci. In questo periodo alcune case editrici sono già dotate di centri meccanografici: usano schede perforate per elaborare i dati e ottengono statistiche che sempre più spesso vengono messe a disposizione degli ispettori.
In media le librerie italiane visitate regolarmente erano circa 800: buona parte di queste erano dislocate in zone ad alto reddito.
A metà degli anni sessanta vengono stampati i primi libri concepiti come best seller. Mondadori, che lancia gli Oscar, introduce il marketing nell’editoria italiana e mensilmente riunisce i suoi ispettori (che incentiva, come altri editori, mediante una retribuzione composta da stipendi medi, provvigioni e premi aggiuntivi) per parlare di obiettivi e assorbimenti o per tenere veri e propri corsi di formazione. L’editore, attraverso il direttore vendite, chiede spesso di forzare gli invii a garanzia di una forte presenza dei titoli ovunque, e incoraggia gli ispettori a decidere in qualche caso autonomamente i quantitativi di novità da inviare. Sempre allo scopo di raggiungere la massima capillarità possibile, rendendosi conto che esisteva il grande mercato sommerso delle cartolibrerie al quale la ventina di ispettori attivi sul territorio non avevano modo di dedicarsi, nel ‘68 delega più o meno un grossista per ogni regione a promuovere le sue edizioni nei punti minori: gli accordi contemplano l’assunzione di uno o due ispettori, solitamente commessi di libreria, che rispetto ai dipendenti della casa editrice ricevono uno stipendio minore con provvigioni più alte. L’incremento di fatturato fu del 60% circa. Solo molti anni dopo, quando per ragioni diverse il meccanismo si inceppò, Mondadori dovette sopperire aumentando di molte unità la propria rete di promozione. In funzione della periodica necessità di spazio per le alte quantità dei titoli nuovi in libreria, compì inoltre i primi passi verso una nuova e diversa concezione della resa, abituando i librai alla necessità di una periodica revisione del monte merci e alla sostituzione di libri di scarsa vendibilità o importanza con titoli nuovi.
Nello stesso periodo aumenta oltre alla vendita dei tascabili quella dei libri di saggistica ed esplode letteralmente quella delle case editrici «di sinistra»: nascono nuovi editori e librerie molto orientati politicamente e aumentano di nuovo i promotori. Quell’epoca segnò per loro un po’ in tutte le case editrici una fase di maggior qualificazione: venivano spesso interpellati e consultati sulle richieste dei lettori, anche se talvolta solo formalmente.
In quegli anni il libraio considera spesso l’invio d’ufficio (effettuato di solito in maniera abbastanza equa) un vero e proprio servizio di aggiornamento.
Fino a ora il promotore è stato in libreria a tutti gli effetti «l’editore»: la sua azienda non si sarebbe sognata di intromettersi o addirittura di scavalcarlo nel rapporto con i librai. A metà degli anni settanta comincia però una vera inversione di tendenza: la vendita ideologica è stata sostituita da quella a misura, i libri si vendono anche nei supermercati, e chiudono molti degli editori e delle librerie che erano nati sulla scia dell’euforia politica sessantottina. Il mercato cambia radicalmente e i dirigenti dei grandi gruppi, vuoi per generare forti aumenti di fatturato, vuoi per far tornare i conti, chiedono agli ispettori di forzare gli invii in libreria. Le rese balzano a livelli fino ad allora sconosciuti: nate come una risposta all’incertezza dell’esito commerciale e all’evoluzione della domanda di lettura, divengono uno strumento di finanziamento dell’acquisto da parte del libraio e una condizione per la vendita da parte dell’editore.
Nel giro di pochi anni cambia il rapporto tra il promotore e l’editore, che inizia a orientare le sue preferenze su personale tendenzialmente più facile da gestire: tra gli ispettori diminuisce il senso di appartenenza all’azienda e aumenta la fedeltà ai dirigenti. Anche a causa degli onerosi conti economici rappresentati dal personale stipendiato e spesato, comincia la fase della conversione dei contratti da dipendente in contratti di consulenza o di agenzia, pena le minacce di prepensionamento o trasferimento. I costi medi di promozione si attesteranno in seguito su valori dal 4 all’8 % del fatturato, in ragione inversa alla grandezza degli editori. È una riconversione che tende ad attribuire a quelli che sempre più spesso verranno chiamati venditori una produttività legata esclusivamente, appunto, alla vendita, cioè al piazzamento in libreria, con un coinvolgimento sempre minore sia con il libro sia con l’organizzazione che lo produce e ne decide destinazioni, modalità di lancio ecc. Il naturale ricambio dei dirigenti e dei promotori subisce una forte accelerazione, con tutte le conseguenze del caso, sia all’interno delle case editrici sia nei confronti delle librerie; in alcuni casi i premi destinati alle reti di promozione e ai loro dirigenti raggiungono livelli tali da alterare il naturale flusso di entrata e uscita dei volumi dalle librerie. Agli agenti alcune aziende cominciano a chiedere di occuparsi del recupero crediti, una funzione che di regola era sempre stata di competenza dei settori amministrativi.
Intanto i librai si trovano stretti tra un monte merci sempre più oneroso – sia sul piano finanziario sia su quello lavorativo – e la necessità di un aggiornamento costante che non sempre riescono a ricevere dal promotore, solitamente perché non ne ha il tempo, ma purtroppo talvolta anche per la carenza dell’informazione editoriale. Anche gli editori medio – piccoli pretendono sempre più spesso di essere rappresentati in libreria da personale «dedicato», nella vana convinzione che i loro libri non abbiano la fortuna che meriterebbero a causa di librai distratti o di agenti scarsamente motivati. I librai iniziano così a mostrare segni di insofferenza e a metà degli anni ottanta, mentre i computer fanno la loro comparsa in alcune librerie, il loro rapporto con i promotori è molto cambiato: questi ultimi vengono identificati ormai indistintamente con l’aggressività delle politiche editoriali e con il generale imbarbarimento del settore. I grandi gruppi editoriali dimostrano di non credere nella maniera più assoluta alla validità di un sapere diffuso, capace di selezionare autonomamente la proposta editoriale nelle diverse situazioni di mercato, e quindi di credere sempre meno alla figura del libraio capace di scegliere la composizione del proprio assortimento e a quella del promotore capace di decifrare il senso dei progetti editoriali. Queste due figure risultano così molto marginalizzate: messe fuori gioco dagli editori, che decidono di avocare a sé il momento promozionale per inseguire una diffusione di massa dei propri libri, si preoccupano ormai solo di garantire la propria sopravvivenza.
All’inizio degli anni novanta nasce l’Associazione Promotori Editoriali: un’associazione professionale che ha per scopo l’ottenimento di una normativa specifica, la salvaguardia della figura e della dignità professionale della categoria (attualmente composta da più di cinquecento persone) e un dialogo costruttivo con le altre associazioni per essere parte attiva nel processo di riorganizzazione del settore.
I rischi per questi operatori, veri e propri anelli di congiunzione tra la produzione e la vendita, non risiedono in una maggiore informatizzazione né in una irrealizzabile impostazione esageratamente tecnicistica del settore, il quale, è bene ricordarlo, tratta un prodotto ad alta componente artigianale che ne riduce di molto le possibilità di pianificazione. I rischi risiedono in una perdita di capacità critica nello svolgimento di questo lavoro, che viene quotidianamente pagata con il disconoscimento del ruolo e dell’utilità professionale. Vale la pena di citare anche in questo caso la Mondadori che, dopo aver chiesto per anni ai suoi agenti dei quantitativi di lancio spesso elevatissimi, ha annunciato di voler automatizzare tale pratica per procedere a una distribuzione più calibrata e ottenere così una diminuzione delle rese.
Non è da soluzioni di questo tipo, dimostratesi peraltro chiaramente inefficaci, che potrà venire alcuna rivalutazione del canale librario; occorrerebbe invece recuperare la specificità del prodotto libro e ripristinare quella possibilità di dialogo tra il libraio e l’editore in cui consiste il lavoro del promotore editoriale correttamente inteso: la conoscenza individuale delle singole librerie e del contesto territoriale in cui si inseriscono permette ai promotori di consigliare il libraio, ricevere da lui indicazioni preventive riguardo alla sua capacità di assorbimento e graduare quindi la spinta sulle novità, nella logica della vendita al pubblico e non alla libreria; selezionare i titoli del proprio catalogo più consoni a quel punto vendita o a quella manifestazione in piazza in quella data stagione; avere il polso del mercato, individuarne le nicchie e fare da riscontro sul territorio delle idee elaborate in sede di progettazione e previsione editoriale. In una parola mettere realmente in collegamento l’editore con il mercato.