Non è vero che in Italia si legge poco, la lettura è proporzionale alla nostra realtà economica, sociale e culturale; non è vero che le novità sono troppe, perché non esiste un solo paese che abbia sviluppato l’editoria senza aumentare il numero di novità; la risposta ad alcune inefficienze della distribuzione potrà venire dal book on demand o dalle librerie virtuali. Ma è necessario che il libraio sia un professionista efficace, che lavora in base a un suo solido progetto, frutto di scelte ben precise.
Luciano Mauri è il presidente delle Messaggerie Libri, il più importante distributore di libri del nostro paese, il cui fatturato a prezzo di copertina raggiunge i 400 miliardi di lire. Dai magazzini delle Messaggerie passa circa un terzo dei volumi di «varia» che raggiungono il mercato italiano.
Luciano Mauri, tutti gli operatori del settore denunciano da anni la scarsa abitudine alla lettura degli italiani; indicando in ciò il problema di fondo del nostro mercato editoriale. Lei cosa ne pensa?
Non è vero che in Italia si legge poco. Direi piuttosto che si legge proporzionalmente alla nostra realtà economica, sociale e culturale. In Italia, infatti, il consumo di libri è direttamente proporzionale al livello generale di modernità del paese. Secondo la graduatoria mondiale dell’indice di sviluppo (calcolata a partire da un insieme di parametri, tra cui la ricchezza pro capite, l’istruzione ecc.) siamo al quattordicesimo posto, una posizione che occupiamo anche nella graduatoria mondiale della diffusione della lettura. Naturalmente si tratta di una media nazionale, visto che poi nell’Italia del Nord si consumano più libri che al Sud. Al Nord, dove risiede il 45% della popolazione, si concentra infatti il 60% delle vendite di libri, mentre nelle isole il 12% della popolazione assorbe solo il 5 % del mercato librario. Le differenze di reddito evidentemente contano molto.
Di conseguenza, sarà possibile sviluppare la lettura solo se parallelamente si fanno evolvere tutti gli altri parametri della società. E innanzitutto il reddito pro capite, gli anni di istruzione obbligatoria, il grado di urbanizzazione ecc. Questa è la realtà, è inutile lamentarsi per le poche letture degli italiani. Gli italiani leggono quanto le circostanze storiche permettono loro. E la scarsa diffusione della lettura nel nostro paese è il prodotto di una situazione che ha origine in una lunga catena di circostanze storiche.
Lei ha parlato anche di urbanizzazione. Significa che la lettura è direttamente legata alla vita urbana?
La lettura è legata alla modernità, di cui è al contempo una derivata e una concausa. È vero inoltre che in città gli stimoli culturali sono maggiori ed è provato che nei grandi agglomerati urbani si comprano più libri. Le grandi metropoli gonfiano il mercato del libro. Oggi è possibile aprire una grande libreria di 1500m2 a Roma, perché nella capitale transitano ogni giorno 5 milioni di persone. A Milano ciò non è ancora possibile.
Eppure i tempi della vita urbana sembrano essere sempre più refrattari alla lettura …
Evidentemente tra l’acquisto di libri e la lettura degli stessi vi è un’enorme differenza. Sempre più la gente compra libri che poi non legge, anche se naturalmente non è necessario leggere per intero un libro per trame un beneficio. Nascono nuove forme di lettura, la situazione si evolve. Vedremo in futuro come si trasformerà lo spazio della lettura di fronte alla presenza diffusa dei nuovi supporti di comunicazione.
Attenzione però a non cadere nelle tradizionali invettive contro la televisione responsabile della fine del libro. Non credo che ciò sia vero, anche perché i paesi dove si legge di più sono proprio quelli in cui la presenza della televisione è più marcata. Insomma, la diffusione della lettura è legata allo sviluppo della società, come pure lo sviluppo dell’editoria è legato all’aumento dei titoli. Tutta l’editoria internazionale lo dimostra: ovunque è verificabile la stessa tendenza all’aumento delle novità.
Nessuna editoria si è sviluppata quantitativamente riducendo il numero dei titoli. Ecco perché il numero di titoli per migliaia di abitanti è un indicatore molto preciso del livello di modernità editoriale di un paese. In Germania e Inghilterra il numero di titoli pubblicati per migliaia di abitanti è più alto che in Italia, sebbene da noi le cose stiano migliorando: nel 1997 abbiamo pubblicato 51.000 titoli, mentre nel 1998 abbiamo raggiunto i 56.000. Naturalmente questa moltiplicazione dell’offerta implica un processo di segmentazione e diversificazione del mercato editoriale, il quale è sempre più composito, fatto di nicchie e microsettori.
Tutti però si lamentano per le troppe novità…
Si tratta di una riflessione miope. Non esiste un solo paese che abbia sviluppato la propria editoria senza aumentare il numero di novità. Un’offerta sempre più ampia stimola e allarga la domanda: è il meccanismo generale di tutti i consumi. Inoltre va ricordato che, dati alla mano, il 55% dei libri venduti è stato pubblicato nell’anno in corso. Di conseguenza, riducendo l’offerta di novità si riduce il volume delle vendite relative, ma senza avvantaggiare i titoli di catalogo, giacché tutto quello che si vende è funzione delle novità.
Riducendo le novità, si riducono anche le altre vendite. Più le novità sono stimolate e stimolanti, e più si vendono. E più di conseguenza si vendono anche gli altri libri, che saranno dello stesso autore, dello stesso genere, dello stesso editore ecc. Chi entra in libreria mediamente spende 38.000 lire e compra 1,8 copie di libro. Si può presumere con buona approssimazione che l’uno è la novità che sono andati a cercare, lo 0,8 è il libro in cui si sono imbattuti per caso.
Di conseguenza un best seller di Eco che vende 500.000 copie è responsabile della vendita di altri 400.000 libri di ogni genere. È sempre la novità che stimola il catalogo. Credere che pubblicando meno novità si venda più catalogo è un’illusione. La scommessa dell’editoria è tutta qui: bisogna cercare di vendere meglio le proprie novità e il resto seguirà.
E come si fa a vendere meglio le novità?
A parità di marketing, è certamente la forza autonoma del titolo a fare la differenza, anche se poi c’è sempre qualche elemento imprevedibile. Non si può sapere in anticipo quale sarà il best seller, si sa però che il divario di vendite tra il best seller e gli altri libri diventa sempre più ampio. I best seller vendono sempre di più, gli altri libri sempre di meno. In questo ambito, il peso degli autori stranieri in futuro tenderà ad aumentare, anche perché all’estero c’è un’offerta sempre più ricca, e ormai l’autore italiano sul mercato compete anche con l’autore straniero. Soprattutto in una dimensione di progressiva planetarizzazione della cultura, dove alcuni pochi scrittori s’impongono dappertutto, come la Coca Cola o McDonald’s. Oltretutto noi in Italia siamo per tradizione particolarmente permeabili alla letteratura straniera.
Perché?
Perché la narrativa italiana ha una sua limitatezza, non tanto sul piano della qualità degli autori, quanto su quello della quantità. Per quanto bravi, gli autori italiani rappresentano solo un’infima percentuale degli scrittori presenti sul mercato mondiale. Oggi, grazie all’integrazione di tutti i mercati, è possibile scovare gli scrittori bravi ovunque questi si trovino, in America Latina, in Asia o in Africa. In passato mancavano le informazioni e per un editore era più difficile accedere agli autori stranieri, di conseguenza era costretto a dare maggiore spazio a quelli nazionali. Oggi invece è tutto molto più facile, le informazioni circolano, gli autori di talento non restano più confinati nei loro paesi. Ecco perché non si può più solo ragionare su base nazionale: gli autori stranieri avranno sempre più spazio nel nostro mercato editoriale, come peraltro accade dappertutto. Anche se alcuni mercati, come per esempio quello francese, restano ancora ripiegati su se stessi, più che altro per una certa tendenza allo sciovinismo.
Oltre alla ricerca dei best seller cosa si può fare per allargare il nostro mercato editoriale?
Il mercato – vale a dire la competizione costante – spinge tutti a crescere. Gli sforzi di tutti gli editori per conquistare nuovi segmenti di mercato alla fine allargano il mercato nel suo complesso. Almeno in termini quantitativi, per quanto riguarda cioè il numero di copie vendute. E invece più difficile stabilire se ciò sia vero anche in termini di valore, visto che la concorrenza spinge ad abbassare i prezzi. Per fare lo stesso fatturato dell’anno precedente, un editore deve vendere molti più libri, tenendo conto oltretutto che la tiratura media tende a diminuire. Il che è un problema, perché i costi di distribuzione aumentano e incidono percentualmente di più, anche se certo noi distributori cerchiamo ogni anno di semplificare e automatizzare alcune operazioni.
In Italia però negli ultimi anni il fatturato globale dell’ editoria non è certo cresciuto …
È vero, ma questo fenomeno vale anche per molti altri generi di consumo, si può quindi pensare che la crisi del mercato del libro sia in relazione a una più generale stagnazione dei consumi. E il 1998 non sembra essere stato migliore, visto che quasi nessun editore è riuscito a far crescere il proprio fatturato rispetto all’anno precedente. Di solito ciò è più facile per i piccoli e medi editori, che possono crescere rapidamente con pochi libri. A un medio editore basta un best seller per salvare il fatturato di un anno, mentre un grande editore ne deve trovare almeno dieci. Il piccolo editore, dunque, può crescere più facilmente del grande. Gli ultimi tempi però sono stati difficili per tutti.
Ma si può fare qualcosa per rilanciare il mercato?
Nel medio-lungo periodo, come ho detto prima, i risultati si otterranno solo modificando le condizioni strutturali del paese, per esempio prolungando la scuola dell’obbligo. Quando una categoria di persone passa da un analfabetismo relativo a un’ alfabetizzazione relativa, allora certamente si favorisce un relativo sviluppo della lettura, che poi si tradurrà in allargamento del mercato. Sul breve periodo invece si può solo contare – come peraltro già si fa tutti i giorni – sulla promozione, sulle operazioni di marketing che provano ad allargare il pubblico potenziale di un libro. A volte anche con operazioni di grande impegno, come ha fatto recentemente Piemme con la scrittrice russa Alexandra Marinina, sulla quale ha investito 3 miliardi di pubblicità, lanciandola simultaneamente in libreria, in edicola e nella grande distribuzione. Questa operazione sarà un successo per l’editore, ma non è detto che alla fine riesca ad allargare il mercato globale: può darsi infatti che i lettori della Marinina non siano lettori nuovi, ma solo lettori sottratti ad altri editori; e anche se fossero nuovi lettori, non è detto che poi riproveranno ad acquistare un libro. Questo per dire che non è facile né automatico allargare il mercato, e spesso in passato gli sforzi fatti non hanno dato gli esiti sperati. È dunque molto difficile definire con precisione la quantità di lettori conquistabile con le tecniche di marketing. È il progresso globale quello che conta, il progresso in direzione della modernità. Più ci avvicineremo alla condizione dei paesi del Nord, come la Francia o la Germania, e più la situazione della lettura cambierà. Per ora, intanto, l’eventuale sviluppo del mercato editoriale deve puntare sui lettori deboli, non sui lettori forti, i quali più di tanto non possono comprare. Ci si deve concentrare sui lettori deboli per provare a farli diventare lettori un poco più forti.
Una politica del libro fatta a livello istituzionale può essere utile?
Una politica di lungo periodo e con molti investimenti forse riuscirebbe a incidere. Solo che bisognerebbe valutaria sulla base del rapporto costi/benefici, bisognerebbe capire quali sono gli aiuti capaci di avere un’incidenza effettiva. Io però resto dell’idea che la cosa più utile sia sempre l’istruzione, la quale si sa è molto cara. Lo Stato insomma non deve avere come obiettivo quello di far vendere qualche libro in più, ma quello di modificare strutturalmente la situazione. Le feste del libro, le campagne pubblicitarie per la lettura sono certo cose utili, ma sono gocce in un oceano. I pochi soldi a disposizione forse sarebbe meglio destinarli al tentativo di modificare i coefficienti strutturali. E su questo piano noi abbiamo un ritardo di circa trent’anni su un paese come la Germania. Quello che noi proviamo a fare oggi per il libro in Germania lo hanno già fatto trent’anni fa. A Berlino oggi aprono una libreria da 5000 m2, da noi probabilmente lo farà Feltrinelli, ma solo tra venti o trent’anni quando il mercato sarà maturo. n teleordering da noi entra in funzione oggi, mentre in altri paesi esiste da vent’anni. Tecnologicamente avremmo potuto farlo molto tempo fa, ma non eravamo pronti, non eravamo maturi. Diversi fattori ne hanno impedito una più precoce realizzazione, per esempio la mancanza del codice a barre sui libri oppure l’individualismo di tutti gli attori del mondo editoriale, i quali non hanno voluto mettere insieme risorse e informazioni per affrontare e risolvere un problema collettivo.
Pensa che il Salone del libro sia una manifestazione utile?
Tutto è utile, anche il Salone, il quale è costantemente alla ricerca di una legittimazione a vivere e di conseguenza sperimenta di continuo nuove soluzioni. Quindi, se non altro come laboratorio dove sperimentare strumenti, idee e discorsi possibili, mi sembra un’esperienza utile. Soprattutto perché ci aiuta a capire cosa non funziona. Di conseguenza, anche le critiche sono utili, in quanto ci stimolano e ci spingono a battere nuove strade per modificare il quadro del nostro mercato editoriale.
Come può intervenire la distribuzione per migliorare la situazione? È vero che il 20% delle domande dei lettori è inevaso perché i libri non sono immediatamente disponibili in libreria?
È vero che non sempre riusciamo a rispondere adeguatamente alle richieste dei lettori. Il problema è che molto spesso gli editori, quando non hanno più copie di un titolo e non lo stampano più, dicono comunque che è in ristampa: è un modo per non perdere i diritti, per tenersi buono l’autore, per restare attaccati al proprio passato ecc. Gli editori solo raramente ammettono che un titolo è ormai fuori catalogo. Così, per il 15-20% delle richieste che ci arrivano dalle librerie, non sappiamo quale sia la vera sorte del libro presso l’editore. Ciò significa che al letto re non possiamo dare un risposta certa: magari diciamo che il libro è in ristampa e poi si scopre che non è vero. li nostro slogan è: «O il libro O una risposta». Il problema è che la risposta spesso è vaga. Nonostante ciò, come distributori stiamo centralizzando e concentrando le nostre filiali in modo da poter dare risposte e fornire i libri in tempi sempre rapidi.
L’aumento progressivo delle novità e l’impossibilità per le librerie di allargarsi oltre misura implica una sempre più rapida rotazione dei libri sugli scaffali. Sempre più spesso, quindi, il lettore non troverà in libreria il volume che sta cercando. Qual è la soluzione?
Dobbiamo avere la consapevolezza che la quota di titoli non disponibili in libreria crescerà di continuo. Le librerie non hanno spazi sufficienti per conservare tutti quei libri che si vendono una volta all’anno. Di un libro, il 57 % di ciò che si vende in cinque anni è venduto in realtà durante l’anno della pubblicazione. Ciò significa che, dopo due o tre anni, tantissimi titoli non vendono praticamente più e quindi non si tengono più. Per noi, già oggi, se un titolo non si vende almeno 200 volte l’anno, diventa disponibile solo presso l’editore: ciò significa che noi non lo teniamo più nei nostri magazzini; se vuole, lo tiene l’editore. In futuro, gli editori dovranno decidere cosa tenere e cosa buttare, perché anche per loro i costi di magazzino diventeranno sempre più alti. Naturalmente non sto dicendo che si debba rinunciare alla ricchezza di un catalogo. La soluzione del problema è probabilmente il book on demand, il libro stampato a richiesta: una sola copia su ordinazione. Oggi le nuove tecnologie ce lo consentono. Costa un po’ di più, ma è l’unico modo per continuare ad avere certi libri. Inoltre con il teleordering, i tempi di consegna sono diventati relativamente brevi. Per avere un libro occorrono tra le 12 e le 72 ore, a seconda della collocazione della libreria rispetto ai nostri magazzini. n problema però è che solo 300 librai italiani sono attrezzati per il teleordering.
Le librerie virtuali costituiscono un’alternativa? Cosa pensa dei loro risultati?
Da un punto di vista commerciale sembrerebbero funzionare, visto che i loro fatturati sono in crescita. Invece, da un punto di vista economico, i risultati sono ancora deludenti, visto che per ora le librerie virtuali perdono moltissimi soldi, Amazon in testa.
C’è chi si lamenta della scarsa professionalità dei nostri librai. Lei che ne pensa?
Il problema esiste, ma la situazione sta lentamente migliorando. Nella nostra Scuola per librai, in quindici anni sono passati 1500 librai per corsi più o meno lunghi. A poco a poco, il profilo del libraio italiano si è trasformato: oggi è più giovane, più flessibile, più dinamico, più capace di relazionarsi con gli altri anelli della catena del libro.
Alcuni librai dicono però che la libreria rischia di diventare una specie di edicola, in cui i libri arrivano d’ufficio senza possibilità di scelta. La professionalità del libraio tenderebbe quindi a scomparire …
Non è vero. I librai, al contrario, stanno diventando sempre più specializzati. Una libreria infatti può fatturare al massimo 10 milioni di lire al metro quadro; raggiunta questa soglia, deve decidere di ampliarsi. Fatturare di più al metro quadro non è fisicamente possibile, come pure non si possono tenere più di 100 titoli a metro quadro: quindi, una libreria da 100 m2 non può fatturare più di un miliardo di lire e non può tenere più di 10.000 titoli. Ma se si possono tenere solo 10.000 titoli di fronte alle 50.000 novità che escono ogni anno, si fa per forza una libreria specializzata. n libraio deve così decidere quale specializzazione dare alla propria libreria, optando per una libreria degli uffici, del mare, del giallo, dell’infanzia ecc. Per fare una libreria generale non specializzata occorrono almeno 500 m2 e un fatturato da 5 miliardi di lire. In questo caso, si possono tenere 50.000 titoli, il che però significa che si devono pur sempre eliminare moltissimi libri. Il lavoro del bravo libraio è tutto in questa attività di selezione: rinunciando a certi libri, egli rinuncia a una quota di fatturato potenziale, che però otterrebbe a costi troppo elevati, sostituendolo con un’altra quota di fatturato generata da titoli più richiesti. La vera domanda a cui deve saper rispondere il libraio non è quanti libri richiesti non ha potuto vendere, ma quante volte ha venduto il libro che aveva in libreria.
Se la libreria è specializzata, la funzione del libraio diventa valore aggiunto. Ma in una libreria di tipo generico, in cui evidentemente il libraio non conosce personalmente tutti i titoli, la sua funzione qual è?
Ciò che conta è sempre e solo la professionalità. Anche per il libraio vale la vecchia regola: «ciò che vende gli è ignoto, ma come venderlo è il suo mestiere, qualunque cosa sia». n libraio deve solo preoccuparsi di fare vendite economiche, vale a dire vendite che gli rendano rispetto a una serie di parametri. 11 30% dei libri che entrano in libreria non viene venduto neanche in una copia, solo che questo 30% non è lo stesso in tutte le librerie. E poi comunque non lo si conosce a priori, lo si identifica solo con il passare del tempo. Il libraio deve saper individuare il prima possibile questo 30% nella sua libreria, perché rappresenta un immobilizzo di capitale inutile. Il libraio deve individuare i libri che non vendono e rimandarli indietro. Ma egli non deve considerare poco nobile questa attività di selezione, è un momento essenziale del suo lavoro. La vecchia idea del libraio che dà consigli ai clienti è ormai solo un mito, giacché il libraio che consiglia ha oggi una scarsissima influenza sulla vendita, la quale è diventata un’attività molto sofisticata che deve tenere conto di molte variabili. Così il libraio efficace è quello che magari non ha nessun rapporto diretto con i clienti, ma che sa far funzionare benissimo la sua libreria, perché dietro l’apparente immobilità degli scaffali ha costruito un solido progetto, frutto di un lavoro continuo e di scelte precise. Il suo rapporto con il lettore è solo un rapporto indiretto attraverso gli scaffali del suo negozio. Insomma, dietro l’apparente manualità del nostro lavoro c’è in realtà molta riflessione e nelle librerie non c’è più nulla di casuale, anche perché, se i prodotti cambiano, le regole del marketing sono sempre le stesse.
Ma allora vuol dire che i libri si vendono come le saponette?
Certo, purtroppo non siamo ancora così bravi e siamo ben lontani dal vendere i libri come le saponette. Il libro si vende come una saponetta quando è chiamato a svolgere una funzione analoga. Se è vero che il libro è un bisogno essenziale per l’individuo, perché mai dovrei fare opera missionaria? La funzione di un libro è anche quella di distrarci per tre ore, perché mai dovremmo vergognarcene. Il libraio non è né un censore né un critico, se lo fa è un cattivo libraio. Oggi inoltre il lettore ha infinitamente più strumenti d’informazione di quanti ne aveva cinquant’anni fa: riceve informazioni dalla televisione, dai giornali, dagli amici, dalla libreria stessa che espone direttamente i libri: insomma i clienti sanno scegliere da soli, non hanno più bisogno del libraio che consiglia.
In certi ambienti però il libro è sempre considerato in maniera sacrale …
È vero. Però a poco a poco le cose stanno cambiando. Ormai il libro ha iniziato a laicizzarsi, sebbene ci siano ancora moltissime resistenze a questo processo. Per Eco, alcuni oggetti sono nati perfetti, il libro – come il cucchiaio o il coltello – è uno di questi: la sua forma è la stessa da 500 anni. Se il libro è un oggetto perfetto, è però cambiata la sua percezione all’interno della società. All’inizio era un oggetto sacro, oggi per fortuna non lo è più. Per me, il lungo processo di moltiplicazione dei libri non è altro che un processo di sostituzione con più titoli dei tre best seller assoluti, che non a caso sono sacri: Bibbia, Vangelo e Corano. Purtroppo c’è chi non riesce a darsi pace di questa trasformazione. Invece bisognerebbe lasciare che il libro si laicizzi del tutto, anche in libreria. In passato, i librai rivendicavano la supremazia qualitativa di un comportamento economicamente insostenibile. Oggi la situazione sta cambiando, ma c’è ancora chi pensa che un libro di successo sia automaticamente un libro di poco valore. Ma poi l’autore che condanna il successo degli altri è pronto a considerare il suo eventuale successo come prova indiscutibile di qualità. In realtà, bisognerebbe smetterla di presentare il libro come uno strumento di sofferenza, come pure bisognerebbe smetterla di fare discorsi a vanvera privi di fondamento. Per esempio, per quanto riguarda le librerie, noi abbiamo tutti i dati necessari per un’analisi oggettiva del mercato, ma dal mondo dell’Università, che pure dovrebbe occuparsi del destino del libro, nessuno è mai venuto a chiederceli. Così, si è costretti ad ascoltare discorsi campati per aria e del tutto slegati dalla realtà. Per avere informazioni non retoriche e banali bisogna sempre rivolgersi a chi possiede i dati. Noi li abbiamo, ma sembrerebbe che non interessino a nessuno.
In conclusione, è più pessimista o più ottimista?
Sono globalmente ottimista, sulla base di un ragionamento moderato e realistico. La diffusione del libro può crescere, ma occorre la più completa professionalità di tutti gli attori del mondo del libro, a tutti i livelli. Solo così sarà possibile governare e sviluppare il nostro mercato librario.