Un gruppo di critici e saggisti della «generazione di mezzo» propone un quadro non convenzionale della produzione letteraria novecentesca. Il criterio è quello di una suddivisione in fasce, secondo il diverso grado di complessità dei testi. Lo scopo è di fornire delle indicazioni di lettura attuali; che tengano conto di tutta la varietà di interessi; competenze, curiosità di un pubblico colto ma non necessariamente specialistico.
Secondo lo storico Eric Hobsbawm il Novecento è stato un «secolo breve». Forse questa fortunata definizione potrebbe essere rovesciata: il Novecento è stato un secolo lungo, molto lungo; o almeno, così è stato dal punto di vista letterario. Certo è che nel corso degli ultimi cento anni il mondo della scrittura e della lettura ha fatto tantissima strada; ha raggiunto una complessità di stratificazioni e articolazioni interne come non si era mai vista in qualsiasi passato. C’è stata anzitutto una crescita quantitativa straordinaria: mai erano stati pubblicati tanti libri che avessero o aspirassero ad avere il crisma della letterarietà. È vero che a questo incremento della produzione non ha corrisposto un’espansione adeguata del consumo librario. Ma in compenso si è avuto un grande processo di diversificazione, per generi e livelli, linguaggi e qualità dei testi, in sintonia con le tendenze e le aspettative più varie dell’immaginario collettivo di tutti i ceti e gruppi di lettori effettivamente disponibili.
Difficile dunque la compilazione di rendiconti a tutto raggio, davvero attendibili. Lo si constata bene nei molti tentativi di bilancio o indicazioni di opere «canoniche» da salvare, all’ordine del giorno in questo scorcio finale del secolo ventesimo. Tirature ha deciso di provarcisi ricorrendo a un metodo più duttile ed elaborato: dividere la produzione letteraria novecentesca in quattro fasce, disposte dall’alto verso il basso, prima i testi più sofisticati, poi quelli con un carattere di letterarietà più agevole da riconoscere, poi ancora le opere a prevalente funzione di intrattenimento, infine i prodotti emarginati dalle persone colte.
Una griglia simile è decisamente utile per dare un’immagine sistematica delle molte idee di letteratura coltivate da scrittori e lettori. Un dato di realtà fondamentale della modernità novecentesca è infatti la convivenza di tipologie letterarie eterogenee, in un insieme ribollente che bisogna prima scomporre per poi riordinarlo in un panorama unitario, dove ogni fenomeno trovi il posto che gli spetta, unicuique suum. Va precisato che la disposizione scalare delle fasce produttive ha un significato descrittivo, non valutativo. È nell’ambito di ogni singola fascia che si tratterà di segnalare le opere che hanno influenzato maggiormente, nel bene o nel male, la mentalità dei rispettivi destinatari. A tutti i livelli, anche gli infimi, è possibile distinguere i prodotti dotati di una loro originalità da quelli meramente ripetitivi, gli autori che avevano qualcosa da dire e quelli che si limitavano a orecchiare il già detto. Sarà poi libero ogni lettore, ogni pubblico di elaborare la sua gerarchia di valori, mettendo in cima i libri che hanno soddisfatto meglio la sua competenza e la sua sensibilità di lettura.
D’altra parte, non si è voluto redigere una storia letteraria novecentesca a più voci, sia pure con criteri meno convenzionali del solito. Nessuna pretesa di dare una sistemazione definitiva alla vita letteraria novecentesca, come se si trattasse di archiviare l’intero secolo. Il proposito è più modestamente empirico: indicare quali sono i libri oggi più leggibili, più capaci di interessare il lettore a seconda che cerchi dei testi a carattere sperimentale o istituzionale o divertentistico, di poesia o narrativa o di saggistica e così via. Non semplici testimonianze d’epoca, insomma, per quanto importanti, ma opere che abbiano un interesse attuale anche fuori degli ambiti di studio specialistici.
Bisogna però cercar di chiarire da che punto di vista sono stati emessi questi giudizi di leggibilità. In altre parole, secondo quali orientamenti i collaboratori di Tirature hanno lavorato nel settore di cui si sono occupati? Fatte salve naturalmente le diverse prospettive personali, direi che nell’insieme c’è un’ottica generazionale che si fa sentire: le date di nascita di quasi tutti sono gli anni cinquanta. A esprimersi è l’odierna generazione di mezzo, che appartiene per intero alla seconda metà del Novecento. Questo significa che fascismo, Resistenza, seconda guerra mondiale rinviano per loro a un passato prenatale. La loro formazione politico-culturale è avvenuta nell’epoca della guerra fredda: da una parte il poststalinismo sovietico, da Kruscev a Breznev a Gorbaciov, e il declino del fascino esercitato dall’ideologia comunista, nella sua connessione con la società autoritaria del «socialismo reale»; dall’altra parte il grande sviluppo economico dell’Occidente, Italia compresa, all’insegna della democrazia capitalistica: con tutti i suoi squilibri ma anche le dinamiche di progresso civile. E bisogna aggiungere che il Sessantotto, nodo esplosivo di tutte le inquietudini della condizione giovanile, la generazione dei quaranta-quarantacinquenni l’ha attraversato nell’adolescenza, se non nell’infanzia. In età adulta, slanci e ingenuità utopiche hanno ceduto il passo a stati d’animo magari non meno arrabbiati ma più insediati nella realtà: quelli di chi si sente cittadino del suo tempo, pur essendo lontano dal ritenerlo il migliore dei tempi possibili.
In campo letterario poi la grande stagione delle avanguardie primonovecentesche appare a questi postgiovani come un’eredità storica remota, ormai tutta inventariata. La rivolta contro il realismo romantico ottocentesco ha fatto il suo corso; l’ideologia della trasgressione antistituzionale permanente è stata ufficializzata come una delle molte prospettive aperte al lavoro letterario. E il Gruppo ‘63 non ha certo saputo impedire il ricostituirsi di un vincolo di continuità con la tradizione, da ridiscutere sempre ma non da negare in via di principio. Oggi, nessuno disconosce più i propri antenati: o meglio, quelli che considera tali.
Direi che la generazione di mezzo attuale è figlia di una modernità culturale finalmente compiuta. Dati costitutivi, il pluralismo delle tendenze, nessuna delle quali ha forza davvero egemonica; la circolazione delle idee, delle proposte, dei modelli testuali su un orizzonte globalmente planetario; la dinamizzazione dei circuiti della letterarietà; a supporto, l’industrializzazione del sistema editoriale, coi suoi svantaggi ma anche vantaggi. li punto decisivo però è il declino dell’opposizione radicale su cui si è retto il novecentismo: da un lato la letteratura alta, esoterica, elitaria; dall’altro la letteratura di consumo, della banalità, dell’ omologazione conformista.
Una visione più matura delle cose, e più duttile, ha indotto a rivalutare la presenza e il ruolo di scrittori dalla personalità forte ma estranei allo sperimentalismo oltranzista, attenti a un criterio di leggibilità non corriva ma non impervia: Giorgio Caproni, per esempio, o Mario Soldati o Carlo Cassola, per limitarsi a casi non recentissimi. Nello stesso tempo è cambiato lo stato d’animo verso la produzione a diffusione larga, legittimandone spregiudicatamente la lettura. Si capisce bene il perché. Per i giovani-adulti di oggi i fumetti, i romanzi polizieschi o fantascientifici o erotici, la narrativa «per donne» hanno fatto parte della loro esperienza esistenziale, sono stati spesso le prime vie d’accesso alla dimensione dell’immaginario, assieme al cinema, alla radiotelevisione, alla canzone. E chi ci si è appassionato non se la sente più di guardarli con il disprezzo sommario del letterato perbenista di una volta, secondo cui non se ne doveva nemmeno parlare, neanche per dirne male. Certo, ci sono ancora gli aristocratici delle belle lettere per i quali va condannato tutto ciò che piace a troppa gente, per il solo fatto che alimenta il commercio; il mercato, si sa, è la vera bestia nera dell’«umanista doc». Ma sempre più gente dà per scontato il diritto all’esistenza dei prodotti a larga divulgazione, e non si vergogna di fruirne: senza che ciò implichi nessuna confusione di valori, senza pensare di metter sullo stesso piano T ex Willer o Dylan Dog e Montale o Calvino.
In modo analogo va inquadrato un altro fenomeno d’importanza epocale. Solo dopo la seconda guerra mondiale si è avuta in Italia l’affermazione definitiva della civiltà del romanzo, secondo un processo evolutivo tipico di tutti i paesi moderni. In questo senso il Novecento è stato davvero, come dice Giovanna Rosa, il secolo della prosa, soprattutto nella sua seconda metà. Ma la posizione di centralità indubbia assunta da romanzi e racconti nel nostro sistema letterario, quindi nelle consuetudini di lettura più praticate, non ha implicato alcuna trascuranza per l’espressione poetica. Semplicemente, è caduto il preconcetto di una superiorità intrinseca, antologica, del discorso versificato, e specificamente lirico, rispetto al discorso narrativo. Insieme però si è rinsaldata la consapevolezza che la regolamentazione metrico-retorica della poesia risponde a una predisposizione permanente dell’io antropologico: assaporare il piacere insito nel riecheggiamento della scansione ritmica della materia verbale.
Infine, un ultimo tratto di questo sommario identikit generazionale. Per le classi d’età degli anni cinquanta sarebbe forse eccessivo ma non del tutto improprio parlare di una generazione della saggistica: o più largamente delle prose non inventive, dalla trattatistica alla biografia e autobiografia alle cronache e reportage. S’intende che l’importanza attribuita a tutti questi generi e sottogeneri non è certo cosa nuova. Ma un salto di qualità c’è pure stato, nella crescita generale dell’interesse per le forme di scrittura nelle quali i motivi letterari si mescolano più indissolubilmente alle intenzioni extraletterarie: l’offerta di occasioni di arricchimento informativo o di riflessione etico-conoscitiva, secondo paradigmi che vanno dal resoconto di vita vissuta alla configurazione di modelli di comportamento esemplari. E questo è campo aperto per i nonletterati di professione, dal grande intellettuale al dilettante di genio a quella figura caratteristica della modernità che è il giornalista scrittore. Impossibile sottovalutare il contributo di questi autori al rinnovamento del linguaggio prosastico: lo mette in risalto limpidamente Mario Barenghi, e con lui Luca Clerici.
L’ottica mentale dei collaboratori di Tirature risponde insomma alle istanze di laicizzazione e liberalizzazione dell’universo letterario che si sono fatte valere negli ultimi decenni. A scanso di equivoci, è meglio ribadire che non si è voluto fare un’opera di storicizzazione, seguendo fase per fase l’andamento delle vicende letterarie lungo il decorso del secolo. Il progetto è stato di costruire un sistema a due coordinate, una verticale e l’altra orizzontale. La prima incolonna dall’alto verso il basso una serie di fasce, in rapporto al grado di complessità tecnica dei testi che le compongono. La seconda suddivide ogni singola fascia nei diversi generi che vi hanno la prevalenza, e che non sono sempre gli stessi. Così tutti i lettori potranno trovare delle indicazioni utili sui libri che promettono di oltrepassare la soglia del ventesimo secolo conservando un buon indice di leggibilità: nell’area di interessi e al livello di linguaggio che a ciascuno stiano a cuore.
Naturalmente le difficoltà, gli assilli non sono mancati. Anzitutto, quelli riguardanti la collocazione di certi testi, più in alto o più in basso. C’è da discutere, per esempio, se La donna della domenica o Il nome della rosa siano narrativa «d’intrattenimento» o «istituzionale». Vuol dire che si discuterà. Bisogna poi tenere conto dei fenomeni di ascesa o discesa che si sviluppano nel tempo. Svevo, poniamo, è stato dapprima recepito come un narratore sperimentale, sperimentalissimo, ma in seguito è stato molto istituzionalizzato. Viceversa, un Guareschi è stato collocato per decenni ai margini infimi della letterarietà, mentre oggi appare ritenuto un intrattenitore più che decoroso. È vero d’altronde che uno stesso scrittore può presentare nel corso della sua carriera una fase di ricerca sofisticata, per accedere in seguito a moduli espressivi almeno relativamente più accessibili: Montale prima e dopo La bufera. Capiterà quindi che alcuni nomi compaiano più di una volta, a diversi gradi della scala di complessità: niente di male.
L’altro tormentone, non meno inevitabile, ha riguardato il numero delle proposte da selezionare: questione sempre più spinosa, si sa, man mano che ci si avvicina all’oggi, e viene fatto naturalmente di largheggiare, per cautelarsi senza troppo rischio e fatica. Non ci si voleva ridurre a puri elenchi di nomi, con qualche aggettivo di contorno. D’altra parte, restringersi al nucleo degli autori ormai già canonizzati per comune consenso era poco allettante. Intendiamoci, l’idea di un «bignamino del Novecento» non sarebbe poi scandalosa; ma avrebbe tolto troppo spazio alla espressione delle tendenze, dei gusti, delle idiosincrasie personali. Alla fine si è convenuto che si sarebbe rinunciato in partenza a ogni pretesa di completezza; e che di massima si sarebbe cercato di tenersi entro il limite di una dozzina di titoli. A conti fatti, si è poi visto che per lo più quel «di massima» è stato inteso con larga approssimazione. Ma bisogna ammettere che specie in alcuni settori non era agevole rispettare il limite previsto.
Ad ogni modo, non c’è dubbio che i nomi fatti da Tirature, nel loro insieme e nei molti sottoinsiemi, si prestano particolarmente al gioco tradizionale di conteggio delle inclusioni e delle esclusioni. Si era anche pensato di anticiparlo, redigendo un elenco di scrittori mancanti, magari in ordine alfabetico, da Bassani a Zavattini. Assieme però sarebbe stato giusto compilarne un altro, con tutti gli autori che di solito non figurano in nessun manuale o dizionario critico: Pischedda, Clerici, Falcetto, Moretti si avventurano tra personaggi poco o nulla classificati ufficialmente. E i problemi di selezione che hanno incontrato sono stati molto diversi ma certo non inferiori rispetto a quelli toccati a Giovannetti, Turchetta, Cadioli, Rosa, Barenghi. Lasciati perdere gli elenchi, all’attualità della questione canonistica, nei suoi termini generali, è stato dedicato l’esauriente articolo di Massimo Regesto che chiude questa sezione di Tirature.
Infine, quello che conta davvero è che in ogni articolo, anzi minisaggio, emerga con chiarezza la linea critico-interpretativa seguita da chi l’ha redatto. Su di essa sì vale la pena di confrontarsi, in quanto giustifica la valorizzazione di certe esperienze letterarie rispetto ad altre, di per sé magari non immeritevoli di menzione. Un paio di esempi: Cadioli individua come asse centrale della poesia istituzionale novecentesca la tendenza alla narratività prosastica dimessa; Turchetta afferma che nella narrativa sperimentale gli sviluppi più significativi sono dovuti non tanto alle arditezze vertiginose delle avanguardie quanto al filone che punta a ottenere un miglior effetto di realtà vissuta attraverso il maggior artificio tecnico. Sono tesi opinabili, si capisce. Ma aiutano a districare i fili del groviglio novecentesco, per la coerenza rio n settaria e la lucidità non scolastica con cui sono argomentate.
La diversità personale dei collaboratori di Tirature si riflette anche nel loro modo di impostare il discorso: si va dai toni elegantemente pacati all’ardore militante, dall’impianto tipico dell’ architettura saggistica alla trovata estrosa, come capita con Pischedda, che convoca in una serata mondana un buon numero dei suoi bestselleristi. Però in tutte queste pagine si respira una certa aria di famiglia: si sente che siamo già oltre il Novecento, in un clima più libero e aperto, fuori delle ossessioni, esaltazioni, demonizzazioni, che hanno pervaso il secolo morente. La voglia di criticare non è per niente diminuita, al contrario. E la consapevolezza che il futuro è sempre a rischio è ben viva. Solo che, dopo tanti proclami sul tramonto delle ideologie, pare incongruo ideologizzare il catastrofismo. Siamo diventati grandi; e se non crediamo più nelle filosofie della storia ottimistiche, mirate al trionfo finale dell’utopia, non per questo è diventato inevitabile credere in una filosofia del negativismo antistorico. I profeti dell’apocalisse ingrassano la voce proprio perché sentono di non avere l’ascolto che vorrebbero.
Cominciato all’insegna della sovversione di tutte le regole, il secolo si conclude con il riconoscimento della loro utilità: non come prescrizioni, va da sé, ma come strumentazione funzionale per stabilire il contatto tra chi scrive e chi lo leggerà. Non tira però nessuna aria di restaurazione, d’indole più o meno neoclassicistica, come in Italia ci sarebbe poco da stupirsi se accadesse. Le regole che i giovani scrittori più notevoli tendono a darsi vogliono essere aggiornate alle esigenze di sviluppo della cultura letteraria in una civiltà dove la comunicazione interpersonale ha un’alacrità dinamica e una molteplicità di canali che galvanizzano le energie. La letteratura non può straniarsene, per presidiare la sua purezza; deve immergercisi dentro.
Del resto, oltrepassare il Novecento è un impegno imposto dall’andamento delle cose. Ma lo si tra valica proficuamente solo se lo si attraversa, rivedendone i lasciti senza accantonarne le acquisizioni irrinunciabili. In primo piano forse sarebbe da collocare l’allargamento del campo della rappresentazione letteraria alle pulsioni tumultuose e tortuose dell’inconscio; assieme però, anche alla fisicità dei comportamenti sessuali. È vero che l’entusiasmo per queste direzioni di scoperta ha comportato, nel primo caso degli eccessi di cerebralismo spossante; e nel secondo delle provocazioni erotiche tanto chiassose da riuscire non meno stancanti. Ma all’attivo resta comunque lo spostamento del punto di vista narrativo all’interno dell’io protagonistico, nei suoi rovelli egocentrici: qui sta l’effetto maggiore dello stimolo esercitato dalla psicologia del profondo, autentica scienza guida per gran parte dei letterati novecenteschi. E questo è un punto di non ritorno.
Piuttosto, è da notare che all’assimilazione della lezione psicanalitica ha fatto riscontro una molto minor attenzione agli esiti del sapere sociologico, economico, statistico, al di là della vulgata marxiana. Chissà se gli scrittori del nuovo secolo si preoccuperanno un po’ di più di familiarizzare con le scienze sociali, in modo da trame concetti e categorie che li aiutino a strutturare narrativamente la loro idea complessiva della vita di relazione nella società contemporanea. È un problema decisivo, questo, per la costruzione di un romanzo a largo respiro; la difficoltà o la riluttanza ad affrontarlo spiega la notoria predilezione dei nostri narratori per la forma racconto, dove la questione si pone in termini meno impegnativi.