Lessici famigliari e appartenenze avvelenate

Sembra proprio che la famiglia, così inesorabilmente centrale nella società italiana, si sia accampata prepotentemente anche dentro la nostra narrativa. Nella scorsa stagione è uscita una biografia famigliare scritta per così dire «dall’interno» (e dunque anche con un forte elemento autobiografico), di notevole interesse, a proposito di una celebre famiglia della nostra storia culturale novecentesca: i Barzini.
 
I protagonisti dei felici esordi di De Carlo, Palandri, Tondelli, Busi, lungo gli anni ottanta, erano svagati adolescenti, abbastanza sradicati e abbastanza solitari nei loro inquieti nomadismi: insomma non «tenevano famiglia». Non sappiamo se si trattasse più di un effetto della loro natura di romanzi di formazione o di un consapevole e forse polemico distacco da qualsivoglia tradizione italiana. Certo è che molto della loro (a tratti clamorosa) novità era dato proprio da quest’aspetto. Da allora però i nostri romanzi si sono affollati di storie famigliari, anche se spesso contorte e ambiguamente irrisolte (si pensi al rapporto padrefiglio nelle opere prime di Lodoli e Veronesi). Fino agli anni più recenti, in cui sembra proprio che la famiglia, così inesorabilmente centrale nella società italiana, si sia accampata prepotentemente anche dentro la nostra narrativa (vedi i best seller sui rapporti nipoti-nonne, con le varianti del caso – quasi un genere a sé -, i romanzi neostorici sull’istituto famigliare preborghese, i frammenti degli autori pulp su orrori casalinghi … ), senza però essere rappresentata quasi mai in modo davvero adeguato, con precisione e limpidezza. Com’è noto, le patrie lettere sono fortemente «segnate» dalla pervasività della famiglia, e questo forse può spiegare in parte una certa assenza da noi del romanzo picaresco e di avventure. Guardiamo alle eccezioni: Finocchio non aveva la mamma (e neanche un vero papà) mentre Carlino Altoviti, orfano, dovette essere allevato dallo zio… Eppure nella scorsa stagione è uscita una biografia famigliare scritta per così dire «dall’interno» (e dunque anche con un forte elemento autobiografico), di notevole interesse, a proposito di una celebre famiglia della nostra storia culturale novecentesca: i Barzini (Andrea Barzini, Una famiglia complicata, Giunti, 1996) – « … e noi fummo affidati alla folta popolazione del luogo, tate, camerieri, giardinieri». Una famiglia complicata di Andrea Barzini, che comincia con un trasloco, proprio come l’ultimo, estenuato romanzo famigliare di Montefoschi, e finisce con la partenza per l’America, non è uno di quei libri che suscitano subito simpatia o identificazione emotiva (e anzi ha provocato diffidenze anche comprensibili). Fin dalle prime pagine sembra di abitare dentro una corrusca Dinasty all’italiana, tra ville lussuose (con abbondante servitù), jet set internazionale, molta razza padrona di passaggio, ecc. Un mondo carico di privilegi e di agi forse un po’ troppo dati per scontati. Pensiamo solo al filone editoriale, già molto frequentato, di storie di famiglie eccellenti descritte appunto «dall’interno» con eccessiva complicità (per esempio gli Agnelli), che infatti non riescono quasi mai a innalzarsi dalla mera autobiografia, anche ben impaginata e venata di nostalgia, a una spregiudicata riflessione sulla nostra borghesia (sia essa intellettuale, economica, politica), sui suoi modelli e sulle sue miserie. Eppure vorrei subito dire che il libro di Barzini, ribollente di una densa materia romanzesca (dagli «spazi aperti» della Pechino-Parigi, ripercorsa mezzo secolo dopo dal nipote) alla «luce accecante» della mondanità e all’epica un po’ funerea degli anni di piombo, si distingue da narrazioni analoghe per una sua qualità letteraria, una virtù questa che rinvia non tanto a una sapienza retorica ma a una caratteristica dello «sguardo» dell’autore di cui parlerò in seguito.
Ma vediamo da vicino protagonisti e comprimari di questo album di famiglia molto italiano. Dunque, innanzitutto il Padre. Quel padre sigillato nel suo cupo studio, da cui esce quasi solo per i pasti con una retina in testa, ambizioso e arido, «antipatico» e onesto, brusco e dotato di forte personalità; uomo di successo ma sempre un po’ anacronistico (con i suoi aggettivi demodé … ), arrogante e vittimista, ossessionato da Napoleone e dalla paura della sinistra, e soprattutto restituito alla sua immedicabile, abissale solitudine. Poi il Fratello, che dopo una lite in pieno Sessantotto si getta contro una finestra, e poi quasi sparisce di scena. Poi le Sorelle (il ritratto commosso, partecipe della bulimica Benedetta) e soprattutto la Madre, di origine lombarda e solidamente antifascista, che tentava di mediare i conflitti proprio sul piano (censurato) delle emozioni. Poi ancora la ingombrante famiglia Feltrinelli, in parte acquisita, con il memorabile ritratto della prima moglie Giannalisa con occhio di vetro (che «leggeva i miei reconditi pensieri») e monocolo (un po’ Crudelia De Mon e un po’ fascinosa darti lady), e la figura tragica di Giangiacomo, disegnata con affettuosa tenerezza, così vicina e così distante (con qualche spazio di troppo, probabilmente evitabile, al pettegolezzo inverificabile). Infine c’è il racconto intenso ma dimesso sugli anni di piombo, vissuti in prima persona dall’autore: il delirio ideologico, la convulsa educazione sentimentale, la «devianza» individuale dalla regola (militante), i ritrattini incisivi e a volte caustici dei leader (memorabile l’incontro con un preoccupato Toni Negri sulla liceità del farsi le canne, difese da Andrea in quanto strumento di una «lotta contro le parole»), la paura e l’ebbrezza di fronte allo scontro fisico con la polizia (lo spazio vuoto tra il primo cordone dei dimostranti e la linea della Celere visto, un momento prima dell’attacco, come una distesa marina in cui tuffarsi … ), l’estrema casualità delle scelte politiche (che dovrebbe rendere meno perentori i nostri giudizi su quel periodo), il singolare rapporto con le ideologie (viste sempre come costruzioni esterne e un po’ strane). Un racconto svolto con un tono semplice, distante sia dalle descrizioni autoedificanti di alcuni «protagonisti» di allora e sia dalla satira morettiana, irresistibile ma a volte superficiale (analoga nettezza di scrittura la ritroviamo nell’autobiografico, stralunato Lettere a nessuno di Antonio Moresco, Bollati Boringhieri, 1997).
Ma esiste una continuità tra le generazioni? Forse una chiave di lettura del comportamento di Barzini padre (e di un «pezzo» non trascurabile della nostra classe dominante) sta lì dove si nota che «per la neonata borghesia italiana l’Inghilterra era un modello» (con la sua ironia, sobrietà, il suo coraggio … ). Ripensiamo a quel Lessico famigliare in cui il padre dell’autrice, la Ginzburg, riteneva l’Inghilterra «il più grande esempio di civiltà». Un modello suggestivo ma a ben vedere un po’ letterario, astratto, di cui si riproducevano i vezzi (il taglio dei vestiti) più che la sostanza morale (tanto che per esempio non impedì affatto l’adesione al fascismo e alla guerra). Insomma una incapacità a conoscersi e a capirsi davvero, un rapporto del tutto immaginario con la realtà. Una eredità alfine «retorica» che continua, in parte, nell’avventura politica estremista, vissuta dal figlio in prima persona (e con i rischi personali del caso) ma anche come spettacolo, o meglio come illusione di sottrarsi all’irrealtà del proprio destino sociale attraverso l’irrealtà di un’Azione anch’essa immaginaria.
Dunque, la Dinasty di Barzini è segretamente e fatalmente avvelenata: il suo grumo di affetti roventi, richieste silenziose, tentativi di emulazione e di ribellione, cupi egoismi, si scioglie con dolorosa, misteriosa levità dentro scelte e destini individuali diversi. Nella pagina conclusiva Andrea confessa di aver voluto rivivere quasi dentro le sembianze del padre (ora scomparso), perfino indossando, come in una ideale scena di Psycho, i suoi abiti (ben più corti), e calandosi nelle sue liturgie domestiche, mangiando sui suoi stessi piatti, leggendo i suoi libri, abitando dentro quella casa da cui negli ultimi tempi era stato escluso o da cui era fuggito. Una volta Garbali a proposito di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg (Einaudi, 1986) ha parlato di un ostinato sentimento di appartenenza (alla famiglia, alla tribù), che poi la scrittrice stessa nei romanzi successivi (come in Caro Michele), e di fronte a un mondo in cui i legami famigliari andavano in rovina avrebbe provveduto a ribaltare nel suo contrario. Ora per Barzini una qualche «appartenenza» c’è, ma si tratta di appartenenza sotterranea, quasi scandalosa, costretta a un percorso non lineare (saltando una generazione), e proprio per questo implica anche una forte, dolorosa disappartenenza. Quell’identità paterna (un po’ mitica e un po’ reale) infatti gli va troppo stretta, proprio come gli abiti indossati in un improbabile sforzo mimetico, mentre altri solidi radicamenti, e nuove, infrangibili identità non si vedono all’orizzonte (anche perché forse non si danno più per nessuno). Così Andrea, dopo aver decifrato il «codice segreto» dei legami parentali, decide di andare oltreoceano e ricostituire un nuovo nucleo famigliare, quasi in una atmosfera da day after, in cui però ritrovare finalmente il rapporto con la realtà, e liberarsi così di quell’ «incantesimo» (fatto di proiezioni, di fantasmi) in cui era prigioniero …
Accennavo allo sguardo di Barzini e al suo talento di romanziere. Ho l’impressione che questo talento sia legato, paradossalmente, a una singolare mancanza di carattere, di identità, di centro. E quando Andrea confessa di identificarsi con il nonno, così «fragile, distratto, quasi femminile» (al di là dell’apparenza accigliata) non solo tratteggia un veloce e sorprendente autoritratto, ma forse ci indica senza volerlo un prerequisito dell’arte stessa del Romanzo, che appunto ha come un bisogno vitale di questo abbandono «impersonale» alle cose, ai fatti. Non è che oggi sia indispensabile scrivere romanzi, e anzi nel villaggio globale dell’informazione simultanea, nel «pieno» di storie che premono su di noi da tutte le parti attraverso i media, può risultare artificioso, perfino immorale mettersi lì a inventare una storia. Però all’interno di quei generi letterari «misti» sempre più frequenti (che poi riassumono al loro interno vari generi) capita spesso di imbattersi in storie reali ricostruite e sostenute da un genuino talento romanzesco e da una disinteressata ricerca di verità, anche minima. In una sua ricognizione sulle biografie di successo, Paolo Giovannetti notava che queste vanno incontro a lettori disposti solo a sfogliarle distrattamente alla ricerca di pettegolezzi (proprio per la ragione che sono costruite in modo narrativamente piatto, banale). Barzini invece mette in campo una struttura dinamica, nervosa, dispiega una tecnica affabulatoria piena di ritmo e di tensione. A volte, come ho già detto, concede troppo al pettegolezzo personale e davvero gratuitamente scabroso; ma d’altra parte verità alta e pettegolezzo irrilevante, cronaca spicciola e sentimento di un’epoca, minimalismo descrittivo e interrogazione sul destino collettivo, sono tutti elementi che fanno parte della verace anima del romanzo, pur nei suoi travestimenti contemporanei.