Il nostro sistema letterario ha assunto solo nella seconda metà del Novecento i connotati tipici dei paesi sviluppati. Ma si tratta di un processo tuttora in corso. Sperimentalismo non avanguardistico, desiderio di tenere conto dei nuovi canali e modi di comunicazione (fumetti, cinema, serial televisivi), abbassamento dei registri tona/i rinviano a una insoddisfazione per lo stato attuale dell’esistenza collettiva, non confortata più da sogni avveniristici.
Notoriamente, quando si è in ritardo capita che ci si faccia prendere dalla fretta. L’Italia è entrata da poco nell’epoca storica della modernità compiuta, e già la considera superata, con l’ingresso nella fase del postmoderno: perlomeno, sembra, in letteratura. Eppure, solo nel corso della seconda metà del Novecento, il nostro sistema letterario è venuto assumendo i connotati tipici dei paesi sviluppati: larga egemonia della narrativa romanzesca, caduta dei confini rigidi tra produzione d’élite e di intrattenimento diffuso, espansione dei generi non fiction, sullo sfondo dei trionfi del mezzo televisivo e più recentemente della video scrittura. Questo processo è tuttora in corso: darlo per concluso è un pericoloso errore di valutazione, in quanto nasce dall’illusione di aver ormai regolato i conti con il mondo moderno: il che, nel campo della rappresentazione letteraria, è tutto da dimostrare.
E vero tuttavia che l’etichetta del postmodernismo ha una sua utilità per mettere in risalto un aspetto specifico dell’evoluzione in atto, quello della commistione dei modelli e delle tecniche, non solo fra ambiti diversi della letterarietà ma tra il letterario e l’extraletterario. Ne parla con acume Bruno Pischedda in questo stesso volume. Ma per mettere complessivamente a fuoco la situazione può servire un paragone, più che tra il moderno e il postmoderno, tra la fase attuale della modernità e quella in cui prese avvio lo sviluppo socioculturale della nazione Italia appena nata. Mario Bareghi (sempre in questo Tirature) fa un giusto richiamo all’esperienza della Scapigliatura secondottocentesca. li riferimento però va allargato a una visione d’insieme del dinamismo convulso e confuso, ma fertile, del periodo postunitario, quando molti scrittori, soprattutto giovani, presero coscienza della necessità di aggiornare criteri e moduli di lavoro per fare fronte a un mutamento di civiltà che implicava una modifica profonda nello status della letteratura.
Oggi come allora, l’inquietudine attivistica dei letterati ha una causa primaria nel crollo dei sogni di palingenesi etico-politica nutriti dalle generazioni precedenti. Nel secolo passato, si trattava delle idealità risorgimentali, pur storicamente vittoriose, ai giorni nostri, si tratta anzitutto del tramonto catastrofico del socialismo «reale», peraltro già al declino assai prima del fatidico 1989. Ma più ancora, bisogna pensare alla dissoluzione dei miti del ribellismo sessantottesco. A quella data, le varie forme di ideologie del realismo estetico, in chiave antidecadentistica, non avevano più corso da un pezzo; mentre negli anni settanta-ottanta si sono dispersi i progetti di contestazione globale della tradizione letteraria «borghese» e di fondazione d’una letterarietà nuova all’insegna dell’agitazione politica. D’altronde, durante gli stessi decenni, si è consumato anche il ciclo avanguardistico-neoavanguardistico, con il suo ripudio dei linguaggi invalsi in nome di una trasgressione permanente di tutte le norme della comunicazione sociale.
A questo orizzonte di macerie ha fatto riscontro la nuova grande tappa della rivoluzione industriale, segnata dall’avvento dell’informatica. Tre ordini di conseguenze ne sono derivati: aumento ulteriore non solo delle funzioni assolte dalle nuove tecnologie ma del prestigio riconosciuto alla mentalità e ai valori tecnico-scientifici rispetto a quelli dell’umanesimo artistico; la diminuzione di ruolo della cultura trasmessa attraverso le opere librarie di fronte al dilagare di prodotti audiovisivi o su supporto digitale; e infine lo spostamento crescente delle sedi di istruzione e formazione intellettuale dal sistema scolastico ad altre dimensioni, extraistituzionali.
È significativo notare che anche nel periodo postunitario, alla crisi dei vecchi ideali si contrapponeva la vitalità delle strutture produttive, con il primo sia pur faticato inizio di industrializzazione del paese, anche in campo culturale. E il sistema della letteratura libraria doveva fare i conti con la crescita di una concorrenza molto stringente: quella della stampa quotidiana e periodica, destinata a influenzare sempre più profondamente il destino della parola scritta. In effetti risale ad allora la genesi di una figura professionale nuova, il giornalista-scrittore.
Date per scontate, naturalmente, tutte le differenze fra due situazioni storico-culturali così lontane fra loro, ci si può tuttavia fare una ragione dell’affinità delle reazioni adottate dalla parte più sensibile dell’intellettualità letteraria di allora come di adesso. Punto centrale, riaffermare la fiducia nei mezzi e nei fini della fantasia creativa, non straniandosi dal nuovo mondo in gestazione ma insediandovisi con spregiudicatezza per trame materia di storie d’ogni colore, intrise d’un pathos di rabbia o di sconforto, tra sberleffi e cupaggini, accensioni erotiche ed elegie funerarie. Nessun vero manifesto programmatico, piuttosto uno stato di comunanza generazionale: un atteggiamento ambivalente verso il proprio tempo, accettato e condiviso sul piano dei fatti ma rifiutato su quello dei valori. Non per nulla si alternano e si mescolano, magari in una stessa opera, oggettivismo mimetico e soggettivismo simbolico, agganci con un presente ben riconoscibile ma anche riscoperte di un passato da non perdere.
La sensazione inquietante che la marcia del divenire si sia accelerata e assieme inceppata, precludendo le concessioni di credito al futuro, non implica però propositi di restaurazione. In campo specificamente letterario è un fatto incontestabile, per quanto lo si deplori, che la grande eredità dei classici premoderni appare ai giorni nostri spesso poco rivissuta. Più complesso e controverso il rapporto con la tradizione della modernità novecentesca, che oscilla tra un’insofferenza sin troppo esplicita e una emulazione manieristica di maestri monumentalizzati. Eppure questo avveniva anche tra gli scrittori tardottocenteschi, nei confronti della letteratura romantico-risorgimentale. D’altronde l’allargamento degli orizzonti su scala planetaria induce, oggi come ieri, uno spostamento d’interesse dalla cultura letteraria nostrana a quelle dei paesi più inoltrati nella civiltà urbano-industriale: la Francia allora, l’area anglosassone adesso. In ogni caso, la selezione degli autori ai quali guardare privilegia attualmente gli esponenti di uno sperimentalismo non avanguardistico: originalità sì, ma nel rispetto delle istituzioni fondamentali della letterarietà, quelle che assicurano un dialogo magari contrastato e difficile ma non ultraspecialistico con il pubblico. E su questo piano, utile diventa anche la lezione appresa dai grandi narratori di un’area culturale emergente: i latinoamericani.
Entra poi in gioco il desiderio di tenere conto positivamente dei nuovi canali e modi di comunicazione extraletterari. La voglia di raccontare storie che facciano presa sull’immaginario del lettore porta a emulare le doti di rapidità, sinteticità e icasticità proprie della narrativa per immagini (fumetti, cinema, serial televisivi). Di qui l’appropriazione di stilemi interiettivi, brachilogie, enfaticità clamorose, scansioni iterative, che è forse la tendenza più rilevata dai critici. Va sottolineato che questi tratti o vezzi di linguaggio rimandano a criteri di strutturazione forte del racconto: l’impianto narrativo intende coniugare un ritmo fluidamente disteso e una tensione ininterrotta, che lasci poco spazio ai compiacimenti descrittivi, alle tortuosità perifrastiche, agli indugi analitici o psicanalitici.
D’altra parte occorre aggiungere che l’inclinazione marcata all’abbassamento dei registri tonali, il ricorso al turpiloquio, l’adozione dei modi di dire più bruschi, così come le coloriture grigiamente dimesse, non implicano affatto una mancanza di preoccupazioni estetiche. Al contrario, resta ben percepibile la volontà di fare letteratura, cioè tenere ferma la distinzione tra discorso intonato a coerenza espressiva e discorso comune. Certo non si tratta di letteratura «pura», nell’accezione più bolsamente novecentesca del termine; ma nemmeno si può parlare di una ripresa dell’engagement improntato ai buoni sentimenti e ai nobili ideali. Piuttosto, è da sottolineare che spregiudicatezze ciniche, trucidità sanguinarie, deliri pessimistici sono sottesi da un’ansietà crucciata per lo stato di collasso dell’etica sociale. Ciò vale sia che nella rappresentazione prevalgano i moduli dell’ironia sarcastica sia dell’efferatezza oscena. In ogni caso, si potrebbero citare le parole rivolte da Anna Seghers a Gyorgy Lukacs: «lo specchio non è responsabile delle brutture che vi si riflettono». L’esibizione di immoralismo vuole causare una reazione energetica: sta al lettore mostrarsene capace.
Quanto più conturbanti sono i casi evocati nella pagina, tanto più l’effetto di lettura avvalorerà il desiderio di certezze indiscutibili. Di ciò ha tenuto buon conto Susanna Tamaro, che in Va’ dove ti porta il cuore (Baldini & Castoldi, 1994) ha sovrapposto a un intreccio nutrito di malesseri esistenziali un messaggio sapienziale tanto più largamente efficace in quanto polivalente, buono per tutti gli usi. Ed è stato un successo sterminato. Ma l’autrice non ha fatto che rendere esplicito, volgendolo al positivo, un rovello morale inconfessato in tutti i suoi colleghi più o meno coetanei, da Tondelli a Busi, da Silvana Grasso a Veronesi e Maggiani, tanto per fare qual che esempio. E ha impiegato anche lei, a suo modo, la loro tecnica basata sull’eccitamento delle pulsioni emotive per scuotere e coinvolgere il lettore.
Resta però indubbio che i risultati letterariamente più interessanti sono raggiunti da chi esprime un’insoddisfazione per lo stato attuale dell’esistenza collettiva, tanto più tormentosa in quanto irrisolta, perché non confortata da sogni avveniristici. Sola risorsa praticabile resta allora la fede nell’efficacia degli apologhi e parabole narrative per rendere vivibile il nostro tempo a tutti coloro che non si lasciano ammaliare dalla costellazione dei valori dominanti, ma non per questo misconoscono i vantaggi materiali e immateriali procurati dagli svolgimenti recenti della modernità. Gli scrittori di questa fine secolo possono ben sentirsi all’opposizione, ma non sono ossessionati dai demoni dell’ «antindustrialismo», in quanto avvertono televisione, canzonistica, fumettismo come parti costitutive della loro esperienza di vita, criticabili certo ma non rinunciabili. Si capisce allora che le apprensioni per i rischi della omologazione e mercificazione culturale, per quanto motivate, si esauriscano nella protesta più o meno accalorata. E finiscano per avvalorare l’elaborazione dei più diversi progetti rivolti a un inserimento proficuo della parola scritta nel sistema della produzione e del consumo estetico multimediale.
A questa luce, la molteplicità delle ricerche in atto appare un arricchimento cospicuo della nostra vita letteraria, da sempre esangue e un segno certo della sua progrediente modernizzazione, oltre gli approdi novecentistici. Del tutto superata è la contrapposizione secca tra avanguardia e massa, esoterismo e popolarismo. Nelle relazioni fra scrittori e lettori, offerte d’ogni tipo entrano in concorrenza per far fronte alle domande più dissimili, complesse o semplici, raffinate o corrive. Il pluralismo è d’obbligo: tutte le esigenze hanno diritto di chiedere d’esser soddisfatte, nessuna idea di letteratura va proscritta pregiudizialmente. Dei risultati si discuterà partitamente, caso per caso, com’è ovvio: guai se venissero meno il senso e il gusto delle distinzioni di valore. Ma questo è un altro discorso, qui interessava solo cercar di fornire un quadro di riferimenti interpretativi.
Del resto, nei periodi di movimento e trasformazione l’incrocio e la sovrapposizione delle tendenze si infittisce sempre. Ciò tuttavia non significa che il panorama sia inestricabile. È vero che si assiste a una mescolanza di generi, linguaggi, livelli narrativi, ma nello stesso tempo si definisce l’identità di filoni nuovi o rinnovati. Sul piano strutturale, gli schemi adottati con maggior frequenza sembrano quelli del romanzo di formazione giovanile, riuscita o mancata, assieme a quelli della saga familiare, fiction o non fiction. Nella dimensione espressiva, più dei moduli dell’asciuttezza algida si impongono quelli dello stravolgimento grottesco e allucinato; il sogghigno, la risata sarcastica prevalgono sulle consolazioni o sconsolatezze sentimentali. In tutti gli ambiti e a tutti i livelli infine è impossibile non rilevare la tipologia del romanzo di avventure erotiche, con la sua fattualità esplicita; spazio minore occupano gli eventi pubblici, le vicende politico sociali, delegate in larga misura agli scritti d’indole biografica o autobiografica, molto narrativizzati.
Nomi e cognomi, se ne fanno molti negli altri interventi di questo volume. E i bilanci c’è sempre tempo per stenderli. L’importante è ribadire che nel ribollimento attuale di neoscapigliati, neodecadentisti, neoespressionisti, neostoricisti e altri «nei» ancora, il sistema letterario ha recuperato un baricentro istituzionale, proprio moltiplicando le sue articolazioni interne. Tutti sono protesi a cercarsi, a conquistarsi un pubblico, il loro pubblico. Ahimè, non è detto che siano i migliori a riuscirei. Ma per intanto, la finis litteraturae non si profila affatto all’orizzonte.