Munizioni, la collana diretta da Roberto Saviano presso Bompiani, è un progetto originale e in controtendenza. Da tempo infatti le collezioni editoriali sembrano scivolate nell’ombra, sempre più incapaci di assolvere le loro classiche funzioni: strutturare il catalogo, valorizzare una linea culturale, veicolare la fiducia dei lettori, ottimizzare le economie di scala. Vale la pena di riflettere sui fattori che hanno determinato questa crisi.
Amate la parola che non ha paura di confrontarsi,
la parola che è spiegazione e preghiera.
Amate chi spende con voi parole difficili.
Amate chi non riduce il proprio pensiero a slogan.
Amate la parola, la parola libera, la parola disobbediente,
perché amandola amate voi stessi.
Amen. Ma non è un’omelia, né una lapide, o una lirica ispirata. È un brano del Manifesto firmato Roberto Saviano che accompagna la presentazione della nuova collana Bompiani a sua cura, Munizioni, lanciata nell’autunno del 2019. Il progetto nasce dall’intento di lanciare parole «come proiettili contro la superficialità, l’indifferenza, l’oblio». Al piombo delle armi si vuole opporre il piombo dei caratteri di stampa, testimonianza di verità indelebili, a dispetto di ogni violenza. Non a caso il primo titolo, Di’ la verità anche se la tua voce trema, è comparso nell’anniversario della morte dell’autrice, Daphne Caruana Galizia, coraggiosa giornalista investigativa ammazzata a Malta in circostanze oscure. Il libro raccoglie una selezione delle sue inchieste di denuncia. Nel medesimo perimetro ricade il secondo titolo, Fariña, dello spagnolo Nacho Carretero, incalzante reportage sul traffico di cocaina in Galizia. Il terzo invece conduce nei territori della narrativa: si tratta del romanzo d’esordio di Arianna Farinelli, Gotico americano, una storia familiare che si dipana fra i chiaroscuri di Manhattan.
Facile riconoscere in queste prime proposte il gusto e gli interessi del direttore di collana: una carica che compare ben in evidenza sulla copertina dei volumi, accanto al nome di Saviano e al logo, una cartucciera stilizzata. È un caso al giorno d’oggi più unico che raro, non assimilabile alle serie pubblicate (specie in allegato ai quotidiani) con la garanzia della celebrità di turno, chiamata a «presentare» o «raccontare» un’iniziativa, in genere di stampo divulgativo.
Da parecchio in effetti l’istituto della collana nell’ambito dell’editoria letteraria sembra entrato in una crisi irreversibile: per rendersene conto basta scorrere uno dei rarissimi contributi complessivi dedicati all’argomento, Storie di uomini e di libri (minimum fax, 2014), dove Gian Carlo Ferretti e Giulia Iannuzzi analizzano un’unica collezione nata dopo gli anni ottanta, Stile Libero. Naturalmente la creatura ideata da Paolo Repetti e dal compianto Severino Cesari non è l’ultimo bastione prima del deserto, e non si faticherebbe a elencare serie più giovani fortemente caratterizzate dalla personalità del responsabile: i Romanzi di Tunué diretti da Vanni Santoni, per fare giusto un nome. Certo non sono più i tempi in cui Vanni Scheiwiller scherzosamente si vantava di avere più collane che libri, ma ne esistono ancora centinaia, e ogni anno fioriscono e avvizziscono mazzi interi. Fino a che punto però questo lavoro resta percepibile? Fino a che punto il ruolo delle collane resta cruciale nella filiera editoriale? Dopotutto è significativo come sia questo uno dei pochi comparti in cui nessuno ha pensato di istituire premi ad hoc (fatto salvo l’Andersen, che però riguarda la sola editoria per ragazzi). Proviamo allora a chiederci in quale misura siano cambiate le funzioni di questi collettori, senza pretendere di offrire risposte esaustive, che richiederebbero considerazioni ben più articolate, specie per quanto attiene alle dinamiche della distribuzione.
Quali erano infatti i compiti tradizionali affidati alla collana? Strutturare il catalogo, valorizzare una linea culturale, veicolare la fiducia (dei librai prima che del pubblico), ottimizzare le economie di scala. Ponendo in numerazione progressiva una serie di libri accomunati dall’aspetto materiale, l’editore induce il lettore a percepire la singola opera come parte di un insieme, che in qualche misura le cede l’aura di cui è circonfuso. Secondo la classica definizione di Genette, la collana viene così a costituire «un raddoppiamento», anzi «una specificazione più intensa, e talvolta più spettacolare» del marchio. Ora, il punto è che nell’attuale panorama editoriale questo beneficio rischia di trasformarsi in un intralcio, fonte di confusione. A fronteggiare il numero spropositato di titoli pubblicati annualmente è una platea in affanno nel riconoscere i tratti costitutivi delle case madri: figuriamoci delle collane.
Niente di nuovo, beninteso. Siamo di fronte all’accelerazione di un processo giunto a maturazione da un mezzo secolo, in conseguenza dell’accesso alla lettura letteraria di un pubblico di massa. La risposta prevedibile e per molti versi obbligata dei grandi editori allora fu semplice: sfrondare, semplificare. Una dinamica perfettamente condensata alla fine degli anni sessanta dalla scelta della Mondadori di chiudere varie collezioni storiche (compresa la Medusa), facendo convergere la narrativa negli Scrittori italiani e stranieri; Rizzoli e Bompiani concentravano intanto gli investimenti sulle loro ammiraglie, La Scala e la Letteraria. Ieri come oggi, in questi contenitori onnicomprensivi l’appeal del singolo titolo oscura l’appartenenza alla collana. Quale lettore non specialista, guardando le pile delle novità in una libreria, è in grado di distinguere i volumi della SIS dagli Omnibus? Senza contare che diversi successi di narrativa Mondadori non appartengono né all’una né altra delle collane hardcover. Fabio Volo, per dire, esce nella Varia senza indicazioni di serie…
Giudizi di valore a parte, l’esempio ci ricorda quanto sia lontana l’epoca (correva l’anno 1957) in cui poteva capitare che Calvino avvertisse Fenoglio di avere l’intenzione di pubblicarlo nei Coralli, e non più nei Gettoni, per lanciarlo «come scrittore “da pubblico”». L’accresciuto nomadismo degli autori da una parte, e i processi di cui si è detto dall’altra, hanno drasticamente ridotto la funzione “formativa” dei passaggi fra collezioni all’interno di una medesima casa editrice. Anche il catalogo Einaudi, la cui collanologia è stata a lungo, per usare le parole di Ernesto Ferrero, «una disciplina vicina alle sottigliezze dell’interpretazione talmudica», ha così dovuto conoscere negli anni pettinate energiche.
Parabole istruttive, se restiamo nei paraggi, sono quelle disegnate da Cristo si è fermato a Eboli e Se questo è un uomo, transitati negli anni dai Saggi agli Struzzi e ai Coralli, a conferma dell’aureo principio di Roger Chartier per cui romanzo non si nasce, si diventa. I capolavori dei due Levi sono oggi classificati presso i principali siti di vendite online nella categoria Narrativa italiana, a prescindere dalla sede editoriale in cui compaiono. Nel momento in cui infligge una formidabile mazzata alle prerogative della collana, dunque, la Rete valorizza un’appartenenza di genere attribuita secondo procedure non evidenti e con esiti spesso arbitrari, com’è inevitabile in un’epoca in cui trionfa l’ibridazione fra narrativa e saggistica. La situazione non migliora se si vagliano i siti degli editori, dove i riferimenti alle collane non sono quasi mai presenti in homepage, e latitano i ragguagli sulla mission o la storia di singole collezioni.
Proviamo allora a spostare lo sguardo sui supporti: non tanto sugli e-book, che – almeno per come sono stati concepiti sinora – appiattiscono le specificità paratestuali in grado di suggerire la coerenza di una serie, quanto sul libro cartaceo. Qui meriterebbe una verifica a tappeto la presenza delle sigle sulle copertine, intensamente valorizzata solo in ambito paraletterario (quanto illuminerebbe, sull’evoluzione dei gusti delle lettrici e diciamo pure della società italiana, un’analisi diacronica delle collane di Harmony, dagli anni ottanta a oggi?). Altrettanto sporadica è ormai la presenza delle liste a fine volume con i titoli precedenti della serie, un tempo universalmente diffuse; mentre resistono, e spesso in posizione privilegiata nelle prime pagine, gli elenchi degli altri testi dell’autore pubblicati con lo stesso marchio, a prescindere dalla collana. Minime ma preziose spie che da un lato corroborano l’idea di Ferretti della «fine del catalogo come forma permanente della casa editrice», dall’altro mettono in piena luce la capacità delle firme di coinvolgere stabilmente un pubblico affezionato. Un fenomeno che nell’ultimo ventennio ha investito con nuovo impeto anche la letteratura italiana, come insegnano i successi di Camilleri, Vitali, Ferrante e tanti altri che hanno visto realizzarsi la profezia rivolta da Étienne Lousteau a Lucien de Rubempré, nelle Illusioni perdute: «tu non sei l’autore di un romanzo più o meno ingegnoso, tu sarai una collezione!». Magari rimpannucciato in una uniform edition, ovvero nella veste grafica omologata con la quale si ripropongono i capolavori di un autore all’interno di una serie (come è capitato a Piero Chiara negli Oscar, o a Giovanni Testori nell’UE Feltrinelli).
Non sorprende, in un panorama simile, constatare come diverse società nate di recente annacquino o cancellino del tutto la ripartizione dei titoli in collane: è ciò che ha fatto la milanese SEM, guidata da un manager dell’esperienza di Riccardo Cavallero. Ma anche marchi storici come il Saggiatore hanno condotto un’operazione radicale, abolendo i tascabili e facendo confluire pressoché tutti i titoli, narrativa compresa, nella serie principale, La Cultura, un tempo consacrata alla saggistica. A garantire un’immediata riconoscibilità ai volumi provvede innanzitutto il bianco abbagliante della copertina stesa. Quella delle cromie, va detto, è divenuta una scelta ancora più cruciale, da quando nelle librerie le disposizioni per genere hanno preso decisamente il sopravvento sulle disposizioni per collana. Passeggiare fra gli scaffali, dove sgomitano titoli a rotazione sempre più rapida, è come assistere a un vorticoso balletto di Arlecchino. Forse è già arrivata l’ora di mandare in soffitta il principio di Daniel Couégnas, che negli anni novanta distingueva collane letterarie e paraletterarie «in base al criterio della sobrietà di presentazione».
D’altronde la retorica editoriale che modella il patto col lettore è condannata a un movimento incessante. Nient’affatto scontato è ad esempio l’andirivieni fra prima edizione in copertina rigida e ristampa in brossura, con trasloco di collana: sono tramontati da un pezzo i tempi in cui Elsa Morante dava scandalo scegliendo di stampare La Storia direttamente negli Struzzi. Anche alle nostre latitudini gli sviluppi della paperback revolution hanno determinato – oltre alla polarizzazione fra prodotti trade e mass market – il moltiplicarsi delle collezioni in brossura costituite da novità. Fra i casi prestigiosi si possono citare i Narratori Feltrinelli, e almeno in parte gli Oscar, che nel 2016 hanno conosciuto un restyling d’impatto, curato dallo studio Leftloft: logo rivisto, nuovo font, grafica accattivante e soprattutto copertine tagliate in alto a destra, in modo da offrire oggetti inconfondibili alla curiosità dei nuovi lettori.
A non sentire l’esigenza di periodiche rinfrescate sono soltanto le collezioni che hanno saputo conquistarsi una fedeltà intergenerazionale, ai livelli più alti del sistema: sicché i Meridiani o la Biblioteca Adelphi, attive da decenni, non hanno mai modificato l’impostazione grafica originale. Lo stesso può dirsi di altre due collane ormai classiche, che si distinguono a partire dal formato: la bislunga (10×20 cm) Narrativa di Iperborea e i quadrotti in trentaduesimo della Memoria di Sellerio. Questi ultimi, in particolare, rappresentano un allettante caso di studio, per la capacità di conciliare eleganza, qualità e considerevoli volumi di vendita. Battezzata nel 1979 da Leonardo Sciascia, La Memoria ha fra l’altro funzionato come uno straordinario veicolo di nobilitazione della crime fiction sul suolo italiano, prima attraverso i ripescaggi del suo nume (da Wilkie Collins ad Augusto De Angelis), poi grazie all’irruzione del fenomeno Camilleri, che ha aperto la via a un’ondata di successi, non ancora esaurita: da Malvaldi a Manzini, da Recami a Robecchi. Nel blu marine di questi volumetti si spegne dunque il lunghissimo crepuscolo delle collane, ricordando al nostro secolo le potenzialità di una serie nel determinare la fiducia del pubblico e le fortune di un editore. Cosa poi ci riserverà la notte, non è dato sapere.