Il genere noir tende a confondere i piani morali. Le vittime sono anche carnefici, i cattivi finiscono per sembrare buoni e il testo è sull’orlo della disgregazione schizofrenica. L’ordine globale è mantenuto dalla paranoia, che permette di individuare dei “veri” cattivi solo nella distanza sociale e narrativa: dal detective e dal lettore.
Nella narrativa d’indagine la crisi che il detective-superuomo di massa (come lo chiamò Umberto Eco) deve sanare è la rottura dell’ordine causata dal delitto. Attraverso il processo semiotico dell’indagine si ricostruisce la verità che ristabilisce l’ordine violato e puntella il sistema sociale minacciato dal delitto. Le qualità eccezionali del detective-superuomo gli permettono di ristabilire anche un principio morale che il delitto aveva infranto, dove morale e ordine sociale vanno di pari passo: la vittima è innocente, intrinsecamente “buona”, e il colpevole è di converso “cattivo”. Invece nel noir l’investigazione garantisce un principio di coerenza limitato, circoscritto; l’ordine appare sempre prossimo al tracollo nonostante gli sforzi del detective. La struttura dell’investigazione è un enunciato momentaneo, non garantisce una tenuta globale del senso che sia capace di redimere lo sconquasso del reale. La veridizione che prende forma nel noir, infatti, non contempla il passaggio da un regime di segreto (essere e non apparire: essere colpevole e non mostrarlo) a uno di verità (essere e apparire), ma oscilla tra il segreto e la menzogna (apparire e non essere). Di qui le classiche città del noir, labirintiche, diverse da quel che sembrano; di qui lo statuto morale di colpevoli e vittime, decisamente più incerto di quanto non accada in altre forme di narrativa d’indagine.
I colpevoli infatti non sono più assolutamente malvagi. Anzi, producono un effetto dissonante: forse il criminale del racconto Ragazzo da bruciare di Giorgio Scerbanenco (in Milano calibro 9, Garzanti, 1969), Luca, è ossessionato dal denaro perché così è anche la sua famiglia, col padre che tenta disperatamente il guadagno facile di una vincita alla schedina? D’altra parte il benzinaio che uccide Luca agisce spinto dalla vendetta, non dalla giustizia, e sin dall’Orestea sappiamo che i due concetti sono antitetici: dalla struttura comica si passa a una tragica. Così in Sarti Antonio e il malato immaginario (Cappelli, 1988) di Loriano Macchiavelli i colpevoli dell’omicidio di due giovani di buona famiglia hanno agito in nome della vendetta, dato che i loro genitori sono responsabili della diffusione dell’eroina a Bologna.
In diversi romanzi di Alessandro Perissinotto, poi, il blurring morale è dominante: in Per vendetta (Rizzoli, 2009) il colpevole viene indagato a fondo, le sue motivazioni soppesate e delucidate fino al punto che il delitto assume contorni quasi accettabili poiché il protagonista reagisce all’ingiustizia di un golpe e alla perdita che ha subito. Un personaggio “buono” che le circostanze hanno costretto a compiere azioni “cattive”.
In Romanzo criminale (Einaudi, 2002), traslando su un piano romanzesco la storia della banda della Magliana, Giancarlo De Cataldo più che flirtare con la fascinazione per il male, per i belli e maledetti, situa i suoi protagonisti in un campo dove la moralità non solo non coincide più con la legge (così già in Scerbanenco), ma nemmeno con un valore condiviso come l’atavica legge della vendetta. Compiono azioni violente, uccidono, spacciano eroina, perché reagiscono al loro ambiente, come accadeva in Zola, ma senza l’imbragatura morale (autoriale) che conteneva le azioni di una Nanà. Il Freddo e gli altri non sono da compatire se non per il loro destino tragico. Semmai sono da ammirare: le proporzioni di questi personaggi sono epiche, ed epico è il sottotesto che lega la fondazione di Roma e l’ascesa della banda. Cattivo è lo Stato, che lascia le borgate in povertà e tollera la mafia. I criminali non sono né cattivi né buoni, se non in base al codice morale che li caratterizza e che essi stessi si danno. Dover-essere e dover-fare si modalizzano in base al livello passionale della moralità, perché la loro adesione al proprio codice morale è anche un’adesione a sé stessi – essendo il codice loro, proprio, privato. Per dirla con un autore di musica leggera contemporanea: «i cattivi non sono cattivi davvero».
Se osserviamo le vittime, poi, la situazione diventa ancor più caotica. Daniele Giglioli ha illustrato con intelligenza i caratteri dell’ideologia vittimaria e il suo ruolo nel nostro tempo: la promessa di un’identità forte, che garantisce coerenza in opposizione al processo di disgregazione della soggettività, ricostituisce anche un polo assiologico (e morale) finalmente stabile. «Come potrebbe la vittima essere colpevole, e anzi responsabile di qualcosa? Non ha fatto, le è stato fatto. Non agisce, patisce», scrive Giglioli. La vittima è l’opposto del carnefice, l’opposto di un colpevole: è innocente, è portatrice di caratteri positivi, anche a livello morale. Diventare vittime lava tutte le colpe, significa diventare “buoni”. Ma nel noir anche questa opposizione evapora e la vittima è spesso a sua volta colpevole. Così i giovani uccisi in Sarti Antonio e il malato immaginario sono parte di un sistema che contemporaneamente truffa la sanità italiana e produce eroina; in L’assassinata è ancora viva di Scerbanenco la donna del titolo in realtà era parte di un complotto spionistico; in Fabbrica delle vedove Ettore Rudavello viene ucciso dalla moglie per il premio assicurativo sulla sua vita, ma egli è un avvocato che sfrutta cavilli legali per far assolvere i colpevoli. La vittima di omicidio che apre Falange armata (Metrolibri, 1993) di Carlo Lucarelli è un ultrà neonazista. Per tornare alla canzone citata prima, «anche i buoni non sono buoni davvero».
Nemmeno gli eroi se la passano benissimo. I detective del noir hanno smesso i panni superomistici di uno Sherlock Holmes per indossare, almeno in alcuni casi, addirittura quelli antitetici degli inetti. Non solo nella narrativa d’indagine highbrow, da Friedrich Dürrenmatt al Filo dell’orizzonte (Feltrinelli, 1986) di Antonio Tabucchi, fino alla Trilogia di New York (Rizzoli, 1987) di Paul Auster, i detective faticano a ricostruire il puzzle (ammesso che ci riescano), lo fanno per caso o grazie a interventi esterni. Sarti Antonio, ad esempio, è un personaggio intellettualmente modesto, ha una memoria prodigiosa, ma è incapace di collegare i pezzi dell’indagine e per questo deve rivolgersi a Rosas, quello che secondo i canoni del giallo classico sarebbe la sua spalla. E tra le qualità perse c’è anche la “bontà”: i detective hanno spesso innegabili tare morali. Dal Duca Lamberti di Scerbanenco, medico radiato dall’albo per avere praticato l’eutanasia, allo stesso Sarti, un piccoloborghese qualsiasi ostile ai giovani di sinistra, per i quali prova ribrezzo, pronto a lagnarsi per i bei tempi andati, anche capace di approfittare della sua posizione. Proprio con Macchiavelli il noir italiano diventa «una galleria di uomini mediocri e sostanzialmente perdenti» (Paolo Giovannetti, Il borghesuccio che c’è in noi, in Tirature ’10, p. 34), perché Scerbanenco cerca ancora di contenere gli aspetti più controversi (socialmente ed eticamente) delle sue storie.
L’ispettore Coliandro, protagonista di Falange armata, ha un orizzonte mentale ristretto, è razzista, ignorante, tendenzialmente stupido. Il commissario De Luca, altro longevo personaggio di Lucarelli, è un ex fascista sostanzialmente impenitente, fascista non per passione ma per comodità: «C’è da risolvere un caso, da trovare qualcuno? Io lo risolvo e io lo trovo. Mai torturato nessuno […] Non sono stato nella Squadra Politica perché ero fascista, lo ero come lo erano tanti, non me ne fregava niente…» (L’estate torbida, Sellerio, 1991, p. 109). L’insistenza con cui De Luca difende questa posizione è indicativa del fatto che sa perfettamente, in realtà, di essere colpevole. Ancora, in Lupo mannaro (Theoria, 1994), sempre di Lucarelli, il protagonista è un debole, insicuro, uno che non sa agire, come ha dichiarato Lucarelli stesso. Poli Ugo, «l’Archivista» protagonista di alcuni romanzi di Macchiavelli, è un personaggio sgradevole e malvagio: debole con i forti e forte con i deboli, ipocrita, violento, desideroso di un ritorno all’ordine di stampo parafascista. Un Dirty Harry al ragù, che – nella miglior tradizione – associa ai difetti morali quelli fisici (è zoppo). Rocco Schiavone, protagonista di una fortunata serie di romanzi di Antonio Manzini, arrotonda lo stipendio facendo da basista o rivendendo gli oggetti sequestrati.
Nel noir insomma l’ambivalenza è ovunque: il buono è anche cattivo, la vittima carnefice, l’innocente colpevole. Nulla è come sembra. Sono opere popolate da figure ambigue che si rivelano sempre essere al contempo una cosa e il suo contrario. Ma il gioco del rovescio porta alla disgregazione schizofrenica, secondo la lezione di Matte-Blanco per il quale l’inconscio è retto da un sistema in cui la logica aristotelica – e dunque il principio di non contraddizione, se A è vero allora non-A è falso – non vale. Il discorso indagatorio – la struttura verbale che resiste alla dissoluzione sintagmatica propria dello schizofrenico – può opporre solo un freno locale, incapace di ricostituire un ordine globale (una coerenza semantica a lunga portata), compito affidato semmai a un dispositivo classicamente postmodernista (con Jameson) come la paranoia.
Questa emerge proprio dalla fluidità semantica che investe il reale (la veridizione che oscilla tra menzogna e segreto; il ruolo dei personaggi in bilico tra vittima e carnefice e così via), rendendo le percezioni sempre fallaci, eppure oppone un discorso che garantisce coerenza a lunga portata nel testo. I pochi “cattivi-cattivi” che compaiono sono parte delle istituzioni (perché membri dello Stato: così i poliziotti corrotti di Falange armata, i servizi segreti in Pulvis et umbra di Manzini – Sellerio, 2017 – e in Romanzo criminale; e così accade anche in molti romanzi di Massimo Carlotto…) o di quel ceto medio produttivo che la narrazione pubblica vorrebbe come spina dorsale dell’Italia (l’ingegner Velasco nel Giorno del lupo – Granata, 1994 –, che Lucarelli caratterizza proprio come imprenditore vincente, decisionista; i medio-altoborghesi benestanti di molti romanzi di Manzini o Macchiavelli) o, anche, di un sistema criminale ben inserito nei gangli del potere economico-politico (Non è stagione di Manzini – Sellerio, 2015 –, svariati romanzi di Lucarelli…).
Entro un discorso complottistico il detective anche se “cattivo” può apparire (raccontarsi) come figura positiva, proprio perché come si è detto è dotato di un codice morale sempre individuale-privato laddove i codici sociali, pubblici, apparentemente univoci sono gusci vuoti, maschere, inganni. Ennesimi elementi di disturbo, abbagli, discorsi mistificatori: ciò che la società ha stabilito è sempre sospetto. Questa compattezza morale a negativo (i cattivi veri sono gli altri) permette di tenere a bada la deriva schizofrenica, letteralmente di allontanarla dalla scena: il superomismo dei cattivi, la perdita di sfumature, avviene nella distanza perché i “cattivi-cattivi” sono fuori della portata del detective e del lettore medio: palazzi del potere, quartieri bene ecc. Dunque si potrebbe aggiungere una strofa alla già citata canzone pop: i cattivi sono cattivi solo se sono gli altri. Una lezione morale, questa sì, certo non da imitare, ma da tenere a mente.