Nella tradizione letteraria italiana i bambini cattivi sono rari. La letteratura per l’infanzia abbonda di monelli, che però hanno il cuore buono: da Pinocchio, indiscusso capostipite, a Gian Burrasca. Nella stagione letteraria 2019-2020 vari libri mettono in scena protagonisti infantili o all’inizio dell’adolescenza dai connotati morali discutibili. Sono molto diversi fra loro, ma con un minimo denominatore comune: sono sempre femmine. Le spassose, surreali poesie di Le bambinacce di Veronica Raimo e Marco Rossari valorizzano in realtà la trasgressione come rifiuto di una moralità angusta, che nega la ricchezza della vita. Come mosche nel miele di Francesca Tassini è invece la conturbante, durissima messa in scena dall’interno di una tossicodipendenza, immagine del disagio senza riscatto di una generazione. L’ultimo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti, decostruisce non solo la moralità degli adulti, ma anche quella della protagonista e narratrice dodicenne. La messa in scena critica dell’ambiguità morale è in realtà una forma estrema di moralità, di cui le scrittrici appaiono sempre più le interpreti privilegiate.
Sarebbe esagerato sostenere che la nostra letteratura non presenta figure di bambini e ragazzini ascrivibili al vasto regno narrativo dei “cattivi”. Tuttavia è altrettanto difficile negare che le mitologie dell’autenticità dei bambini e, più largamente, il familismo italiano hanno complessivamente concesso spazi abbastanza limitati a figure di bambini o ragazzini cattivi, moralmente deprecabili. Se ne trovano naturalmente, ma pochini. Penso, per esempio, all’inquietante Kleine Kiepura di La tregua di Primo Levi, che sogna di diventare un kapò. Oppure alle figure di bambini violenti che compaiono in Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, e in particolare in La città involontaria. O ancora alla folla di bambini che bullizza ed emargina senza pietà il protagonista di Un errore geografico, un magnifico racconto di Romano Bilenchi, tremendamente attuale per la profondità con cui legge le dinamiche dell’esclusione e, in senso lato, del razzismo.
Non si può dimenticare, comunque, fino a che punto l’abbassamento dell’età cambi in profondità la possibilità stessa di ipotizzare il male. A cominciare dalle armoniche robustamente pedagogiche, e perfino scolastiche senz’altro, che risuonano in modo pressoché fatale nell’espressione “bambino cattivo”. La storia insegna, del resto, che la tradizione della letteratura infantile, proprio perché costitutivamente orientata alla pedagogia, tende a escludere dai bambini la malvagità: per quante marachelle possano combinare, i bambini impareranno alla fine a comportarsi come si deve, ed è anzi proprio per questo che si scrivono libri per loro. Tutti ricordiamo, tanto per cominciare, come proprio il discolo par excellence, Pinocchio, diventato simbolo planetario, sia “Monello sì, ma buono”. Lo stesso Gian Burrasca di Vamba, per citare le parole di Spinazzola, è «pestifero, ma schietto, fiducioso, disinteressato» (Il sovversivo involontario, in Pinocchio & C., il Saggiatore, 1997, p. 175): anche se «gioca pesante, con un sadismo non meno crudele per il fatto di essere inconsapevole» (ivi, p. 174).
La profondità con cui il senso comune innervato nella tradizione letteraria tende a negare la cattiveria dei bambini si evidenzia spesso proprio quando a prima vista la cattiveria viene proclamata a chiare lettere: ma facendo così invece risaltare proprio l’obbligo di interpretarla all’incontrario, antifrasticamente, perché frutto di insostenibili pregiudizi: della gente (come per il Rosso Malpelo verghiano) o di genitori inattendibili e, loro sì, moralmente riprovevoli (come per Il bambino cattivo di Ennio Flaiano, Scheiwiller, 1999). Di quanto sia difficile per la nostra narrativa declinare figure di bambini nella direzione della cattiveria fa fede del resto anche il memorabile Elogio di Franti di Umberto Eco (in Diario minimo, Mondadori, 1963), con il complice, irrefrenabile divertimento che procura alle legioni di lettori insofferenti della melassa conformista di Cuore.
Anche se, a mettersi a cercare, un po’ di bambini cattivi si possono trovare anche da noi, tuttavia si fa fatica anche solo a immaginarvi qualcosa di paragonabile a un piccolo gioiello come Un gioco da bambini di James G. Ballard (1988; edizione italiana Anabasi, 1992), dove il narratore è un detective che indaga sulla strage avvenuta «in un prestigioso complesso residenziale» nel giugno 1988: in una mezz’oretta vengono uccisi ben 32 adulti, in modi più o meno efferati. Circostanza molto singolare: dopo la strage, spariscono 13 bambini, tutti figli di assassinati. Presto emerge il sospetto che siano loro gli autori della strage. Il detective narratore, coadiuvato da uno psichiatra, andrà via via mostrando come non possano esserci dubbi sul fatto che gli assassini siano proprio quei bambini: e non certo perché i loro genitori erano violenti, ma perché, tutt’al contrario, erano attentissimi e iperprotettivi. Da noi, è stato un libro come Dei bambini non si sa niente (Einaudi, 1997) di Simona Vinci ad aprire la strada alla tradizione inglese e americana dei bambini demoniaci: è la storia infatti di una piccola banda di bambini intorno ai dieci anni, Martina, Matteo, Luca, capitanati da Mirko (quindici anni, l’anziano del gruppo), che si addentra via via in un sempre più sconcertante crescendo di sesso selvaggio e sempre più sado-maso, culminato nella brutale pure se quasi involontaria uccisione di un’altra bambina spregiudicata, Greta.
Fra i libri recenti, spicca Le bambinacce (Feltrinelli, 2019) di Veronica Raimo e Marco Rossari, cinquantacinque poesie che declinano con surreale, spassosa leggerezza proprio l’elogio provocatorio del negativo. È d’obbligo notare anzitutto che non di “bambinacci” si tratta, ma proprio di bambinacce: la declinazione al femminile, di per sé, già rappresenta un di più di trasgressione, e un di più di divertimento. Soprattutto chiama in causa, fra le righe ma neanche tanto, l’urgenza di approfondire e rafforzare la lotta per l’emancipazione femminile, mettendosi al più presto “dalla parte delle bambine”. Ma lo fa avvalendosi delle risorse del comico, che inibiscono ogni pesantezza pedagogica e ogni dottrinarismo. Già l’adozione discontinua delle strutture metriche ribadisce sul piano formale la trasgressione che caratterizza tutti i testi: le poesie del libro oscillano infatti fra ortodossia scolasticamente conclamata e trasgressione non meno conclamata, tra rime regolari (più spesso alterne che baciate) e scialo di assonanze, consonanze, quasi-rime: «“Non badare all’uomo! / Non deragliare dalla regola!” / E quella subito limona / devastata dalla fregola. / “Non fare la sciocca! / Sarai una bambinaccia!” / E lei subito bisboccia / con la peggiore feccia» (La bambina che amava i tabù, p. 13). Già la coincidenza di rispetto conclamato di regole formali e spudorata trasgressione dei contenuti è un’evidente provocazione: «Tanti oggetti in fregola, / poi perfino una candela / ma lì non trovava l’angolo / e allora provò a spingerla. / Era la prima volta / e non se l’è più tolta» (La bambina che amava gli spigoli, p. 43).
Gran parte dei titoli ostenta una vistosa ripetitività, sulla base del sintagma “La bambina” (solo in un caso “Il bambino”: Il bambino che voleva fare l’amore), che in 41 casi su 54 viene seguito da una relativa con verbo al trapassato prossimo o all’imperfetto (come abbiamo visto), e nel resto dei casi da un elemento nominale. Fin dai titoli, abbondano i temi sessuali: La bambina che aveva scoperto una cosa, La bambina che odiava i tabù, La bambina senza vergogna, La bambina che stava sempre nuda, La bambina che voleva solo toccarsi. A questi si accompagnano caratteristici temi bassi, di realismo sordido, per dirla con Bachtin, ad alto e programmatico tasso di infantilismo, come in La bambina che voleva fare la cacca. L’ostentato abbassamento è la principale ma non l’unica chiave della comicità trasgressiva, che si avvale anche di sfrenate sequenze dove il rovesciamento comico stravolge forme e tematiche alte: «l’eccitava il rigor mortis / si leggeva Jacopo Ortis» (La bambina che sognava l’amore tombale, p. 115); «E che noia i suoi sogni / la valanga di rimossi / complesso di Edipo / complesso di Elettra / quella solita minestra» (La bambina che si annoiava sempre, p. 123).
La forza comica, è chiaro, si incarna nell’irriducibilità a ogni regola, cui si accompagna la convivenza, costante, fra dettagli di greve realismo e leggerezza della trasfigurazione fiabesca o surreale. Per “le bambinacce”, è chiaro, non si può non tifare, per tutto quanto rappresentano di opposizione a perbenismo, bigotteria, repressione, inibizione sessuale, rigidezza morale e culturale. Una volta di più, è chiaro che il dispregiativo, segnale di stigmatizzazione sociale, serve proprio a denunciare, tutt’al contrario, un mondo di costrizioni e di vincoli, dove i veri disvalori vivono e prosperano dalle parti dei “buoni”, le cui rigide regole invece negano la vita: laddove invece il positivo emerge proprio da ciò che il perbenismo condanna. Siamo per molti aspetti davanti a un’apoteosi della vitalità: come nel finale di La bambina che era sempre bagnata (pp. 88-89), i cui perenni e irrefrenabili umidori vaginali possono persino far fiorire il deserto. Ma guai a irrigidire le invenzioni di Raimo e Rossari in una formula, più o meno ideologica: è proprio quello che ci inibiscono, ed è il loro merito. Tanto più che la valorizzazione della vitalità significa anche, con la negazione di ogni seriosità, elogio del piacere, dell’allegria, di tutto ciò che nella vita è possibile occasione di godimento.
Bambinacce a parte, nei libri dell’ultima stagione i bambini piccoli sono rari, ma sono frequenti invece i protagonisti sul confine tra tarda infanzia e prima adolescenza, quindi giovanissimi, anche se non più bambini. Colpisce, per esempio, l’ammirevole determinazione con cui Francesca Tassini, in Come mosche nel miele (Solferino, 2019), evita ogni possibile metamorfosi positiva del male, e lo affronta a occhi spalancati, senza offrirci nessuna ipotesi di giustificazione ideologica e tanto meno di catarsi. A parte la possibilità, per l’anonima protagonista e narratrice (visibilmente autobiografica, ma pure mai nominata), di venire fuori dall’inferno in cui ha vissuto per circa cinque anni, dal 1995 al 2000, dai quindici ai vent’anni. Come mosche nel miele è la privatissima storia di una tossicodipendenza: ma apre uno scenario che, per quanto estremo, mette in gioco l’ampiezza e la profondità della diffusione delle dipendenze nell’universo contemporaneo. Qui, in particolare, il discorso vale per la generazione dei nati a fine anni settanta, cioè dopo l’esaurimento della stagione politica, protagonisti di una lunga stagione in cui il rifiuto del conformismo e del perbenismo può incarnarsi solo in forme di rivolta unilateralmente distruttive, e autodistruttive. Tassini racconta insomma una ribellione priva ormai di appoggi ideologici, e perciò fine a se stessa, contestatrice del mondo ma anche incapace di ipotizzare qualsiasi altrove futuro. D’altro canto, l’esistenza stessa del libro testimonia di un esito positivo, che pure non riusciremo a chiamare happy end: perché troppo e troppo grande è il dolore, troppo il degrado, e spaventosamente numerose le morti di cui Tassini rende conto. Lei però ce l’ha fatta: era difficilissimo, ma ce l’ha fatta. E ce lo fa sapere senz’ombra di autoindulgenza, né di eroismo. Anzi.
Autobiografia più che romanzo, il libro è un resoconto dall’interno, che, nella sua spregiudicatezza senza mediazioni, mostra un ammirevole coraggio: il coraggio di raccontarci davvero tutto, di non risparmiare niente al lettore, ma anche al narratore, che si sprofonda senza sosta nel cuore del proprio squilibrio. Dove, certo, la piaga dell’addiction non è di per sé facilmente moralizzabile: l’addicted non è di per sé un cattivo. E tuttavia il suo squilibrio coincide con un degrado profondo, e con un’incapacità di contrastarlo, che non cessano di apparire assai vicini a una forma di colpa, nell’incapacità di mettere in moto la benché minima forma di senso di responsabilità personale e sociale. Siamo di fronte a un feroce, atroce realismo nella resa dei dettagli più sgradevoli: alcol, tabacco, farmaci usati a mo’ di droghe, droghe di ogni tipo, fino all’approdo devastante all’eroina, e poi sballi da dentro, ubriachezze, violenze spesso immotivate, malori, overdose e crisi d’astinenza, accompagnati da sporcizia, cattivi odori, materie variamente disgustose, vomito, sangue, pus e via scorrendo. Tutto dispiega senza sosta una fenomenologia allucinante e pure dolorosamente istruttiva, che a un certo punto comincia a costellarsi di morti, via via più frequenti. Tassini mostra tuttavia anche una felice vena poetica, capace di mettere continuamente in gioco anche la sconvolgente ricchezza di sensazioni e sentimenti che pure accompagna la triste, desolante quotidianità dello sballo: proprio in quanto tale segnato da un’ambivalenza irriducibile, nell’alternanza forsennata, e talvolta quasi nella mescolanza, fra stati euforici e stati disforici, fra esaltazione e depressione.
Un limite non trascurabile del libro, derivato dall’autobiografismo e dall’attitudine diaristica, è però il tendenziale azzeramento dell’intreccio, visto che il resoconto si limita in sostanza (a parte il fulmineo Prologo) a seguire la cronologia, accumulando senza sosta figure e incontri, in una sorta di colossale “schidionata” (come direbbe Šklovskij), che dà luogo a un picaresco dell’orrore, cui l’inesorabile linearità e ripetitività del resoconto conferiscono un’irriducibile e a tratti disturbante monotonia. Qualcosa di simile avviene con la folla di comprimari, che circondano la protagonista, con qualche eccezione: Massi il punk; il sensuale e distruttivo Rame; l’amica di sempre Tina, «con i lineamenti da polinesiana»; il generoso Igor, ladro per tossicodipendenza, come tanti e come la stessa narratrice, con cui si fidanza; Aret, il capo dei Russi della Fabbrica. Ma per molti riesce persino difficile, e forse inutile, raccordare la miriade di nomi e soprannomi a un minimo di costruzione narrativa e psicologica. Del resto anche questo fa parte del gioco: si parla infatti di una folla, cioè di una generazione: «Eravamo sempre di più, tanti, troppi. Tutti fratelli, uniti da un amore traboccante, senza mezzi termini, salvo poi sputtanarsi a vicenda per un nonnulla. Il fatto che fossimo davvero sulla stessa barca era l’unico collante che contasse» (p. 190). Ne deriva una percezione della Storia allucinata, ma tutt’altro che idiosincratica: «Eccola, la Storia. Una cosa di cui ti accorgi non nel suo scorrere fluido e composto, ma nella rottura improvvisa, irrefrenabile» (p. 292). Non dimentichiamo fino a che punto, come ci ha mostrato magistralmente Anthony Giddens, la dipendenza, l’addiction, sia un fenomeno onnipresente nella società della tarda modernità.
Ma una volta di più colpisce che la cattiva, la “ragazzaccia”, qui totalmente priva della benché minima allegria e leggerezza, sia una donna. Non sono mancate in passato le storie al maschile dello sballo visto da dentro: penso a Costretti a sanguinare (Shake Edizioni, 1997) di Marco Philopat o a I reni di Mick Jagger (Fazi, 1999) di Rocco Fortunato. Ora però è la volta proprio delle ragazze, delle ragazzacce: perché è proprio sul fronte delle donne che la contesa contraddittoria fra emancipazione e schiavitù, fra libertà e dipendenza si fa più aspra, e probabilmente più “tipica”. Non è certo un caso che un anno fa ci trovassimo a leggere storie (La ragazza con la Leica di Helena Janeczek, Le assaggiatrici di Rosella Postorino, L’animale femmina di Emanuela Canepa) dove la rivendicazione profonda del diritto a un pieno godimento dell’esistenza, a una libera affermazione di sé, conviveva con condizioni di drammatica costrizione. Per Tassini la catastrofica anti-Bildung della dipendenza non ha sviluppo, ma solo avvitamento tragico verso un abisso di perdizione sempre più vicino a diventare irrecuperabile. Interviene però lo strappo, la decisione di entrare in un percorso di recupero: dove la stessa ripartenza, e la salvezza, arrivano tuttavia senza una vera crescita, ma solo come drastica inversione di rotta, lacerazione non meno traumatica per il fatto di essere l’avvio di un ritorno alla normalità, e alla vita.
Anche l’ultimo romanzo di Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti (Edizioni e/o, 2019), si muove, visibilmente, sul fronte di una possibile indegnità morale: degli adulti, ma anche della protagonista e narratrice Giovanna, che all’avvio della storia ha solo dodici anni. En passant, il romanzo pare alludere a una sua necessaria continuazione, visto che si chiude su un cliff hanger, o quasi, che consiste nella perdita (programmaticamente squallida) della verginità per Giovanna, a opera del tutt’altro che irresistibile Rosario, ultima incarnazione ferrantiana della sgradevolezza maschile. Ma la controversa forza del romanzo non sta certo nel finale: al contrario, possiamo dire che, dopo un avvio intenso e promettente, quasi all’altezza di L’amica geniale, La vita bugiarda degli adulti si va progressivamente infiacchendo, se non proprio spegnendo, lasciando troppo spazio a giocolerie d’intreccio un po’ gratuite (la vicenda confusa del braccialetto) e a un inatteso, faticoso ritorno di stereotipi, narrativi e sociomorali. Che è proprio ciò che la Ferrante aveva di solito saputo evitare. Ma per una metà buona il romanzo si era alimentato dell’invenzione ammirevole del personaggio di zia Vittoria. A lei viene paragonata la narratrice, all’avvio della storia: di qui la sua crisi d’identità, visto che zia Vittoria viene presentata dai genitori di Giovanna come «una donna nella quale […] combaciavano alla perfezione la bruttezza e la malvagità» (p. 12). È chiaro che questa stessa esibizione dello stereotipo capovolto del kalós k’agathós appare immediatamente sospetta, almeno per il lettore: molto meno per Giovanna, che a quel punto, privata delle proprie consolanti certezze, vuole conoscere la zia, cancellata da molti anni dalle frequentazioni dei suoi genitori. Giovanna deve conoscerla per capire meglio a che cosa potrebbe assomigliare quella somiglianza, e dunque chi e che cosa lei stessa starebbe diventando.
Anche la Bildung di Giovanna è per molti aspetti una anti-Bildung, per lo meno sul piano morale: visto che crescere significherà adeguarsi anzitutto alla necessità di mentire, e dunque diventare “cattivi”. Ma la zia “cattiva” e “brutta” si rivela per molti aspetti non solo “buona”, e persino “bella”: soprattutto rivela, con evidenza, quanto siano “cattivi” quelli che appaiono “buoni”, e quanto siano mediocri, traditori, indegni. A cominciare da suo fratello, e padre di Giovanna, che, secondo la versione di Vittoria, l’avrebbe costretta a rinunciare all’unico grande amore della sua vita, Enzo. Il capovolgimento dei riferimenti morali avvierà inoltre Giovanna alla dolorosa scoperta dei reciproci tradimenti dei suoi genitori. Pure, per molti aspetti, la zia non cessa di essere cattiva, anzi brutta e cattiva, anche perché espressione di quella Napoli violenta e plebea, la Napoli del rione, che deve essere sgradevole e riprovevole anche per opporsi alla menzogna falsamente cortese dei ceti alti e alla loro immoralità, che Giovanna va scoprendo. Nell’antiepica ferrantiana dell’estraneità, in questo ancora capace di inquietarci e farci pensare, la stessa scoperta del negativo può diventare portatrice di piacere. Come quando Giovanna scopre con stupore nel padre un odore che non riconosce: «Ne derivò un sentimento di estraneità mista incongruamente a soddisfazione. Sentii con chiarezza che se fino a quel momento avevo sperato che la sua protezione durasse per sempre, ora invece, all’idea che lui diventasse un estraneo, provavo piacere. Mi sentii euforica come se l’eventualità del male – quello che lui e mia madre nel loro gergo sostenevano di chiamare Vittoria – mi desse un’effervescenza inattesa» (p. 40). Peccato che la complessità psicologica della zia Vittoria, al principio così acutamente controversa da farci ripensare al mirabile intrico di contraddizioni e al conturbante fascino di Lila nell’Amica geniale, vada poi irrigidendosi e stereotipandosi. Non a caso il palcoscenico viene sempre più conquistato, meno originalmente, dalla narratrice e dai suoi tormenti.
La demistificazione colpisce comunque tutti: a cominciare dalla narratrice, con l’effetto profondo, tipicamente ferrantiano, di sottoporre al dubbio praticamente tutto quanto viene detto. Paradossalmente, l’impossibilità di praticare qualsiasi etica limpida non si traduce in una deresponsabilizzazione della narratrice, ma in una diffusione a macchia d’olio dell’indegnità, che Giovanna non manca mai di sottolineare, anche per se stessa. L’antimoralismo della Ferrante, lo sapevamo, resta sempre carico di moralità. In un certo senso, tutti sono “cattivi”. Così anche Giovanna entra a pieno titolo, e in età poco meno che tenera, nel novero delle “ragazze cattive”. Certo, abbiamo visto che le “bambinacce” e le ragazze “cattive” possono essere “buone” proprio perché sono “cattive”. Ma non è questo il caso. Ad ogni modo, bambinacce e ragazzacce mostrano piuttosto, quasi sempre, lo sfrangiarsi (stavo per dire la «smarginatura») delle regole e della moralità, a conferma di una ormai irreversibile scoperta dell’ambivalenza, anche e proprio nel cuore della rivendicazione emancipatrice. Sono del resto ormai quasi centocinquant’anni che la cultura dell’Occidente ha dato avvio alla Scuola del Sospetto verso ogni discorso e ogni verità, per usare la felice definizione di Paul Ricoeur. Ma ormai da tempo sono più spesso le donne a farsi portatrici di una coscienza critica senza illusioni, a tenere in mano il bisturi che forse non ci può guarire, ma quanto meno ci impedisce di ignorare i nostri mali.