A disegnare, oggi, una mappa dei territori del romanzo, un dato salta subito agli occhi: i confini tra fiction e non-fiction sono sempre più porosi e sfrangiati; diversi autori li attraversano con maggiore frequenza rispetto al passato, a quanto sembra con grande successo. Le narrazioni nate dal transito fra i diversi generi sembrano prediligere la restituzione dell’esperienza biografica, del quotidiano. Così, anche in Italia, al nome di Emmanuel Carrère, fino a oggi dominatore incontrastato nel genere della autofiction, si sono affiancati quelli di Rachel Cusk, Karl Ove Knausgard e Olivia Laing.
Londra, oggi. Al lettore comune che entri in qualsiasi libreria del centro salta subito all’occhio l’espansione della sezione dedicata alla literary nonfiction o creative nonfiction che dir si voglia. Vi troverà nomi già conosciuti e affermati – da Zadie Smith a Joan Didion – ma anche esordienti. Forse proprio quelli lanciati dal premio dedicato esclusivamente alla literary nonfiction, promosso nel 2017, sempre nella capitale londinese, da una joint venture tra l’editore Portobello, l’agenzia letteraria C+W e la storica libreria Foyles.
L’espansione della literary nonfiction è intimamente connessa alla continua ridefinizione dei confini della fiction. Sempre più autori sembrano muoversi tra i due macrogeneri, e i loro movimenti sulla mappa del nuovo territorio transgenerico sembrano girare attorno a un nucleo comune: la scrittura (auto)biografica, protagonista di un vero e proprio boom negli ultimi dieci anni, in letteratura, così come a teatro o al cinema. Le etichette create dagli addetti ai lavori – e rifiutate con sprezzatura d’ordinanza dagli autori – sono proliferate di conseguenza, e il dibattitto ancora ferve, in particolare in ambito anglosassone e francese. Biografìa e autobiografìa, con le loro codifìche di genere tradizionale, sono finite sotto la più ampia e generica etichetta di life writing, che comprende anche la versione più moderna (o modernista) del memoir. Quest’ultimo termine ha avuto grande fortuna critica e editoriale (è spesso il sottotitolo che l’editore, in Inghilterra, appone per collocare il libro in un preciso segmento di mercato) e indica una narrazione autobiografica che prende le mosse da un evento traumatico per ripercorrere l’esperienza esistenziale dell’io narrante. Autofiction, coniato in Francia per descrivere una fiction «basata su eventi esclusivamente reali» relativi alla vita del narratore autodiegetico, ha ormai valenza transnazionale; così come biofiction, usato per descrivere un romanzo che si serve di una vicenda biografica reale come trampolino per la narrazione finzionale. In un dibattito che sembra talvolta attorcigliarsi su se stesso e che ha una terminologia propria in ogni area nazionale, sembra più interessante, per delineare invece una “mappa transnazionale”, soffermarsi su aspetti comuni alla pratica di scrittura di alcuni autori che abitano, oggi, il confine tra fiction e nonfiction.
Fino a poco tempo fa, in Italia, la zona di frontiera tra fiction e non fiction a dominante biografica era ben presidiato da Emmanuel Carrère, con bandierine quali Vite che non sono la mia, La vita come un romanzo russo e il successo globale di Limonov. Un altro autore che, all’inizio del ventunesimo secolo, si è imposto all’attenzione con testi che ibridavano autobiografia e saggismo letterario, senza disdegnare i detour nella fiction, è stato W.G. Sebald, rispettivamente con Gli anelli di Saturno ([1995] Bompiani, 1998; Adelphi, 2010) e Austerlitz ([2001] Adelphi, 2002). A fare compagnia allo scrittore francese e all’austriaco, sugli scaffali delle librerie italiane, sono arrivati in molti. Il genere del memoir si è insediato a pieno titolo con il successo di Hanno del pensiero magico ([2005] il Saggiatore, 2008) di Joan Didion, a cui sono seguiti Blue Nights ([2011] il Saggiatore, 2012) e Da dove vengo. Un autobiografia ([2003] il Saggiatore, 2018). Romanziera, sceneggiatrice e soprattutto esponente di spicco del New Journalism, Didion ha fatto confluire nelle sue opere più marcatamente biografiche i diversi generi che ha praticato, giungendo a risultati decisamente originali nell’intarsio di storia collettiva (quella degli Stati Uniti del Novecento) e vicende privatissime. Tuttavia, l’identità autoriale di Didion, classe 1934, era già ben delineata anche prima del successo dei tre memoir. Autori di generazioni successive, invece, si sono mossi tra fiction e non fiction, e nei territori del biografico, proprio per dare forma alla propria identità autoriale da un lato, e per ridefinire (perlomeno nelle intenzioni) i contorni e le competenze del narratore. Tra questi, degni di nota sono i casi di Karl Ove Knausgard (1968), Rachel Cusk (1967) e Olivia Laing (1977).
Classe 1968, norvegese di Oslo, Knausgard si è imposto all’attenzione globale con l’imponente opera in sei volumi La mia battaglia, uscita tra il 2009 e il 2011. In Italia la serie di romanzi è stata subito intercettata da Ponte alle Grazie, che ne ha tradotto i primi due volumi (con il titolo La mia lotta)} poi, nel 2014, con un cambio di titolo (La mia battaglia) è passata a Feltrinelli, che ha pubblicato i primi cinque volumi a cadenza annuale (l’edizione italiana, come quella inglese, ha dato un titolo a ogni volume: La morte del padre [2015]; Un uomo innamorato [2015]; L’isola dell’infanzia [2016]; Ballando al buio [2016] e La pioggia deve cadere [2017]) e terminerà con il sesto nel 2019). La mia battaglia è il racconto della vita di Knausgard, dall’infanzia all’età adulta (il sesto volume tratta delle reazioni all’uscita del libro): vi troviamo oltre a resoconti dettagliatissimi degli eventi, lunghe digressioni su diversi argomenti cadenzate sulle tonalità del saggismo (una, di quattrocento pagine, sulla possibilità stessa di scrivere una biografia), lunghi elenchi. Il racconto della vita quotidiana è minuzioso, e particolare interesse hanno suscitato le lunghissime e dettagliate parti legate alla cura dei figli, nei suoi aspetti più minuti e prosaici, argomento insolito per uno scrittore di genere maschile. Il tutto sembra essere messo sullo stesso piano, in una scrittura che riproduce l’esperienza fisica delle sensazioni, più che una rielaborazione narrativa delle stesse. Interessante è che proprio da questo continuum di scrittura eterogenea, e in particolare dal secondo volume della serie – Un uomo innamorato – siano state estratte le pagine più significative sulla paternità, confluite nel volume On Fatherhood, che sugli scaffali di literary nonfiction offre una voce al maschile sull’argomento della genitorialità.
Ed è proprio con un libro sulla maternità che Rachel Cusk (1967) ha ottenuto un successo notevole nel 2001, non foss’altro per le critiche che ha sollevato. Dopo aver esordito come romanziere, Cusk si è dedicata alla nonfiction. Nel 2001 ha pubblicato la prima opera di nonfiction – A Life’s Work: On Becoming a Mother (2001; tradotto nel 2009 da Mondadori con il titolo Buoi dire addio al sonno. Cosa significa diventare madre e collocato nella collana «Strade Blu. Nonfiction»). Il libro, che racconta in maniera smaliziata e dettagliata l’esperienza della maternità, è stato accolto da critiche feroci, soprattutto da parte di quei lettori in cerca di un “manuale” sulla maternità. La stessa accoglienza è stata riservata alla terza opera di nonfiction di Cusk, Aftermath: On Marriage and Separation (2012), in cui Cusk racconta del proprio divorzio non facendo segreto di nessuno dei propri istinti e sensazioni, anche quelli più difficili da legittimare.
È in seguito al grande scalpore causato dall’esposizione della propria vita privata che Cusk decide di tornare alla fiction: non, tuttavia, a quella praticata fino ad allora, ma una narrazione fortemente improntata all’autobiografia (come capiscono i lettori che l’hanno sempre seguita) e interessata, più che allo sviluppo di una trama, a seguire la quotidianità della protagonista, a interrogare la possibilità stessa di dare un resoconto reale di una vita, della trilogia composta da Outline (2014), Transit (2016) e Kudos (2018). In italiano, per i tipi di Einaudi («Stile Libero Big»), sono usciti i primi due volumi, Resoconto e transiti, tradotti magistralmente da Anna Nadotti. Scelta intrigante, quella del titolo italiano, che illumina la tensione tra la narrazione di Cusk e il romanzo – fiction – tradizionalmente inteso. Nella trilogia la storia della narratrice Faye (la quale ha molte somiglianze con Cusk: è scrittrice, divorziata, madre di tre figli) è pressoché assente: la sua è semplicemente una presenza fisica in un luogo dove incontra altre persone, di cui riceve la storia. Faye, insomma, è l’autrice del “resoconto” di diverse esistenze, che confluiscono, come se non ci fosse un confine, nella sua. Ciò viene esplicitato nelle primissime pagine del romanzo, in cui leggiamo del primo incontro di Faye: «Il miliardario si era preso la briga di farmi un resoconto della sua vita, che iniziava in sordina e finiva – ovviamente – con l’uomo disinvolto e pieno di soldi seduto a tavola davanti a me. […] Stentavo ad assimilare tutto ciò che mi veniva raccontato» (p. 1). Faye, che qui è destinatario della narrazione, mette in discussione in poche righe la possibilità stessa che un “resoconto” possa contenere un’esistenza in tutta la sua complessità.
Il romanzo copre il periodo che Faye trascorre ad Atene, dove tiene un corso di scrittura creativa, in attesa che la sua situazione a casa (sentimentale, familiare, ed economica) si appiani.
Il libro è suddiviso in dieci capitoli, dove compaiono personaggi (alcuni ricorrenti lungo l’intera narrazione, altri no) che offrono a Faye un “resoconto” della propria vita. Rilevante, da questo punto di vista, il continuo passaggio dal presente o passato prossimo alla prima persona singolare usato per le vicende di Faye, alle lunghe parti all’imperfetto, in discorso indiretto libero, per le storie delle persone che Faye incontra, per cui si ha l’impressione di una storia nella storia, di un’osmosi totale fra esperienza del presente della narratrice plasmata quasi in toto dalle storie di chi incontra. E così che, pure in una narrazione dell’io, affidata a una prima persona dalla voce riconoscibile, l’io narrante sparisce quasi totalmente, eludendo le regole del racconto biografico classico che si fa solo “resoconto”, e al tempo stesso rilanciandone la sfida.
Diverso è il percorso di Olivia Laing. Saggista e giornalista per le maggiori testate britanniche, Laing ha reinterpretato, negli anni e con grande successo di pubblico il genere biografico, centrale nel sistema letterario inglese. Esordisce nel 2011, con To the River: A Journey Beneath the Surface, in cui racconta del proprio viaggio lungo il fiume Ouse, nel quale Woolf si è suicidata. Laing mescola così il racconto privato del proprio viaggio alla rivisitazione dei luoghi comuni sugli ultimi giorni di Woolf e sulla loro importanza per la costruzione a posteriori della sua biografia. Anche nelle due prove successive, The Trip to Echo Spring (Viaggio a Echo Spring, in uscita per il Saggiatore nel 2019) e Città sola (il Saggiatore, 2018), Laing si muove fra scrittura autobiografica e biografie altrui: quelle degli scrittori alcolizzati nel primo caso, e quelle di alcuni artisti newyorchesi del secondo Novecento in Città sola. Come indica il titolo, il libro riguarda l’esperienza della solitudine: quella di Laing, che trascorre un periodo a New York, e quella di tre grandi artisti newyorchesi Andy Warhol, Edward Hopper e David Wojnarowicz. Se i primi tre libri sono senza dubbio “literary nonfiction”, e come tali sono stati premiati, l’ultima opera di Laing, Crudo (anche di questo il Saggiatore ha annunciato la pubblicazione) porta in copertina una chiara indicazione di genere: “a novel”. Si tratta tuttavia di un romanzo sui generis, in quanto fin dalla prima riga, la narratrice (protagonista di un vero e proprio roman à clef incentrato su Laing) dice di chiamarsi Kathy e viene identificata con la scrittrice punk newyorchese, morta nel 1997, Kathy Acker. La narrazione si struttura così su un continuo andirivieni tra la vita della narratrice, in procinto di sposarsi nell’estate del 2017, e quella di Kathy Acker, anch’ella colta in procinto dell’ultimo matrimonio della sua vita. L’intenzione di Laing è fornire un resoconto di un’estate particolarmente importante sia dal punto di vista privato (il matrimonio) sia pubblico (è l’estate della crisi tra Stati Uniti e Corea, dell’incendio della Grenfell Tower a Londra, sullo sfondo di un’Inghilterra che scivola verso la Brexit): e Laing sceglie il dialogo a distanza con un’altra scrittrice, che ben conosce, colta in un momento di altrettanta tensione, che le permette di uscire dai confini di un io incalzato dagli eventi, di mettere una distanza, come ha dichiarato Laing stessa.
Sono sempre più numerosi gli autori che, forse reagendo alle sfide lanciate dai social network al racconto di sé, cercano di rimodulare le cadenze del proprio io attraversando il confine tra i generi: un’operazione che in maniera intrigante mette in discussione anche le frontiere fra pubblico e privato, sempre più assottigliate. Perché, pure con modalità diverse, ci vengono offerte opere volutamente senza trama, costruite sull’accumulo, e sul montaggio di storie, dove l’io che le racconta è insieme onnipresente e al tempo stesso incapace (o forse non interessato) a mettere ordine nei materiali del quotidiano, a selezionarne quel momento che – come accadeva nel romanzo novecentesco di matrice modernista – rendeva quel quotidiano universale, una tranche de vie significativa. L’interesse, in questo caso, è dato dal “personaggio” dell’autore in carne e ossa, più che dal mondo di invenzione che egli/ella crea. Un “personaggio”, che si ripropone al pubblico a intervalli regolari – la serialità che accomuna l’esperienza di Knausgard a quella di Cusk non è un dato secondario – e che si fa e disfa all’intersezione dei generi, tra fiction e nonfiction. Ma pur sempre “literary”.